abortire a washington

Grazie ad una sentenza della Corte Suprema, l’aborto negli Stati Uniti è libero. Centinaia di cliniche specializzate sono sorte in tutto il-paese. A Washington, Daniela Colombo ne ha visitato una. Lì ha incontrato Joan, una donna di 24 anni, insegnante, madre di un bambino di quattro mesi, che ha consentito di essere seguita e fotografata nelle varie fasi della sua permanenza in clinica. Questo è il racconto di un aborto fatto in un ambiente sanitario adeguato e con ogni garanzia per la salute fisica e psichica della donna.

novembre 1973

Il Summit Medicai Center — una clinica di proprietà privata ma gestita da donne militanti nei gruppi femministi — opera ormai da più di un anno. Un aborto costa 125 dollari (70.000 lire circa); viene però eseguito gratuitamente per le donne che usufruiscono della assistenza sanitaria statale, oppure a rate e con sconti notevoli per chi non è in grado di pagare l’intera somma. Si eseguono dai 20 ai 25 aborti al giorno.

Prima di incominciare la mia visita ho dato un’occhiata alle statistiche relative al primo anno di esercizio. Su 9000 donne che hanno abortito il 40% aveva meno di 20 anni, il 35% era tra i 20 e i 25; il 15% tra i 25 e i 30 e il 10% al di sopra dei 30 anni. Per l’88% si trattava del primo aborto; il 10% aveva già avuto un aborto e solo il 2% due o più aborti.

Nulla in questa clinica ricorda, a una italiana, i terrori e le tragedie tradizionalmente legate ad una gravidanza non voluta. La donna che ha scelto di abortire di solito prende appuntamento il giorno prima; viene incoraggiata a farsi accompagnare da qualcuno: marito, amico, madre, sorella. La sosta in clinica dura in media quattro ore. Joan, la giovane da me incontrata al Summit Center è stata anzitutto sottoposta ad una visita ginecologica che stabilisse a che punto fosse la gravidanza. Le sono state fatte le analisi delle urine e del sangue (ogni tipo di analisi, dall’emocromo citrometrico al fattore RH — se questo fosse stato negativo le avrebbero praticato una iniezione Rhogam per evitare complicazioni nel caso di una futura, voluta gravidanza). Alle donne negre viene fatto un ulteriore esame al fine di accertare se hanno un tipo speciale di anemia (anemia falciforme), nel qual caso vengono sottoposte ad uno speciale trattamento.

Firmata una dichiarazione di consenso all’aborto (per le minorenni non emancipate è necessario il consenso dei genitori) si passa in una sala d’attesa, che è tale solo di nome, perché non ha niente delle tristi e anonime sale di attesa delle cliniche e degli ospedali. Le pareti sono dipinte di colori vivaci. Grandi divani gialli e azzurri circondano un enorme acquario di pesci tropicali. Qui si svolge la parte più importante e di grande aiuto per la donna: il «counseling», cioè un incontro che si svolge in due tempi, prima in maniera individuale tra la donna e la psicologa e poi in gruppo tra la psicologa e tutte le pazienti presenti in quel momento in clinica. Ogni donna ha così modo di esaminare con tutta obiettività la decisione presa implicazioni.

«Non chiedo mai perché una donna ha deciso di abortire — mi dice Teresa Gibson, una delle psicologhe della clinica, una splendida donna negra, dolcissima e piena di vita — incomincio sempre con lo spiegare nella maniera meno tecnica possibile come verrà effettuato l’intervento e i tipi di prove di laboratorio fatte. È incredibile il numero di donne che non ha conoscenza del proprio corpo e non ha la più pallida idea di che cosa sia un aborto. Parliamo poi della sessualità della donna, spiego quali sono i vari metodi anticoncezionali. Molto spesso l’unico conosciuto è la pillola».

«Alcune donne mostrano ostilità verso questo tipo di aiuto. Vogliono sbrigarsi nel minor tempo possibile e andarsene senza tante chiacchiere. Naturalmente il loro desiderio viene esaudito. Ma la maggior parte delle donne è contenta di poter parlare apertamente con altre donne». Che il counseling non sia semplicemente un modo per predisporre, psicologicamente la paziente all’intervento che sta per subire è dimostrato dal fatto che, dopo questi colloqui, circa il 5% delle donne decide di non abortire. Teresa mi ha parlato di alcuni casi particolari. Una ragazzina della Georgia di 15 anni era venuta accompagnata dalla madre. Durante il colloquio con la psicologa ad un certo punto è scoppiata a piangere: «Ma io questo bambino lo voglio, sono tanto sola».

E difficile credere quanto spesso la donna sia spinta a rinunciare alla maternità da condizionamenti esterni, la pressione delle madri, dei mariti, fidanzati, o dal tabù sociale, o dalle difficoltà economiche.

Dissuadendo le pazienti dall’aborto, la clinica va ovviamente contro i propri interessi commerciali; ma qui sta la differenza tra un «business» qualsiasi e un centro, come il Summit, gestito da donne impegnate politicamente: qui il primo obiettivo è quello di affermare il principio che alla donna, e solo alla donna, spetta la scelta maternità-aborto. Non mancano i casi in cui la psicologa deve trasformarsi in assistente sociale e cercare di trovare il modo di aiutare chi ha deciso di rinunciare alla maternità soltanto per motivi economici.

Dopo il colloquio, passiamo in un altro ambiente dove Joan si spoglia e indossa una vestaglietta bianca. La stanzetta in cui viene eseguito l’intervento è arredata in modo essenziale. Il medico e l’infermiera indossano camici grigio azzurri.

Il metodo applicato è la «vacuum aspiration», Dopo aver praticato l’anestesia locale e aver dilatato il canale cervicale, il ginecologo inserisce la sonda di plastica nell’utero fino a toccare il sacco amniotico. La sonda è collegata ad una bottiglia di raccolta tramite un tubo di plastica trasparente. L’aspiratore viene azionato per 20-40 secondi e il ginecologo osserva il passaggio dell’embrione e del tessuto placentare nella bottiglia. Poi la sonda viene estratta e il medico pratica un leggero raschiamento per essere sicuro che nell’utero non rimangano tracce di tessuto placentare. Tutte queste operazioni sono state spiegate a Joan, mano mano che si procedeva all’intervento! Il tutto non è durato più di cinque minuti.

L’embrione alla decima settimana di gravidanza non è più grande di una noce. Ho chiesto a Joan se aveva provato dolore. «Non più forte dei crampi mestruali». Dopo cinque minuti era nella «recovery room», un salotto a grandi vetrate, con poltrone e chaises longues dove le sono stati offerti biscotti, tè, caffè.

Oltre a Joan c’erano altre due donne: una negra di 35 anni, madre di tre figli, ammalata di cuore, e una ragazza di 19 anni rimasta incinta alla sua prima esperienza sessuale: «sono troppo giovane per avere un figlio — mi ha detto — non voglio cadere nella stessa trappola di mia madre che si è sposata a 18 anni e non è mai uscita di casa! Io voglio laurearmi, prima».

Nella «recovery room» una infermiera dà alle donne che hanno abortito le istruzioni nel caso dovesse venire una emorragia. Vengono dati loro due tipi di medicinali: un antibiotico per evitare possibili infezioni e un preparato per affrettare la riduzione dell’utero alla sua dimensione normale. Una delle «counselors» è a disposizione nel caso la paziente abbia bisogno di parlare. Le vengono offerte istruzioni sull’uso dell’anticoncezionale consigliatole dal me-

dico. Dopo una settimana può ritornare per una visita di controllo e per farsi inserire la spirale intrauterina o per farsi insegnare a mettere il diaframma. In caso di bisogno la clinica ha un servizio telefonico di emergenza giorno e notte. Un medico e una infermiera sono sempre a disposizione. I casi urgenti sono però rarissimi. Joan è uscita dalla clinica dopo un’ora dall’intervento. Il giorno dopo abbiamo pranzato insieme. Era serena e tranquilla e non sembrava risentire minimamente di quanto era avvenuto ventiquattro ore prima.