aborto: non lo fo per piacer mio

novembre 1973

La posizione di effe

L’aborto non è una festa: l’aborto legale, o, meglio ancora, libero e gratuito che vogliamo, ha un senso, ci sembra, perché: a) diventa il primo passo per la rivalutazione della gioia di essere madri, una gioia difficile, in un paese come l’Italia, di donne oberate di figli; b) perché riconosce alla donna, che non l’ha mai avuta, la disponibilità intera e responsabile del proprio corpo, liberandola dal sentimento del peccato — il peccato di avere un corpo — che l’educazione cattolica, sia pure tra morbide complicità, alimenta. Non è,una festa: sappiamo che alcune femministe la pensano diversamente, esigiamo che l’aborto diventi per tutte le donne, senza discriminazione – di classe, non più traumatico, come dolore fisico, della estrazione di un dente: esistono oggi tutti i mezzi tecnici per ottenere questo scopo, e il rapporto, che pubblichiamo qui di seguito, su un intervento di aborto in una clinica di Washington, lo conferma: tuttavia, seguitiamo a pensare che difficilmente una donna, perlomeno una donna matura, una donna adulta, possa decidere di farsi asportare l’embrione con leggerezza, tantomeno con un sorriso di trionfo sulle labbra: non crediamo perciò, in modo assoluto, che la lotta per il diritto di aborto esprima il massimo delle aspirazioni femministe, e che esaurisca gli obiettivi del movimento: anche se questa lotta va fatta e, in un paese arretrato, per costume e legislazione, come l’Italia, va fatta subito e con durezza. Recuperare la gioia di essere madri: chiediamo: quale credibilità può avere il rifiuto del diritto di aborto alle donne italiane, quando la ragazza-madre Lucia Coletta è vissuta due anni in una grotta col suo bambino, e le «istituzioni» lo sapevano, tant’è vero che le passavano 1500 lire (mille

e cinquecento) al mese di sussidio ONMI? Ed ancora: quale credibilità può avere il rifiuto del diritto d’aborto alle donne italiane, quando sì tende a chiudere quei pochi esperimenti proposti a vantaggio della ragazza-madre, come quello della Casa della Madre e del Fanciullo di via Pu-siano, a Milano, con tutti i suoi limiti di selettiva scarsezza di posti disponibili, e di autoritarismo mal celato dal ricorso ad ambigue équipes medico-sociologiche? Disponibilità intera e responsabilità del proprio corpo, da parte della donna: l’uomo ha sempre disposto del proprio corpo, la donna no: la proibizione dell’aborto, infatti, ha questo preciso significato di iniquità, di discriminazione tra i sessi. La donna che interrompe volontariamente una gestazione, ficchiamocelo bene in testa, non è un’assassina: è una donna che ha valutato e distinto i motivi per cui entrerebbe in conflitto con questo figlio non desiderato al limite anche il riconoscimento dì una propria indisponibilità ad essere madre e che scegliendo di abortire compie un gesto non casuale ma responsabile. Nell’ottica di questo nostro discorso (difficile) sull’aborto, abbiamo quindi raccolto per il primo numero di Effe alcune testimonianze: il resoconto di un aborto in una clinica- di Washington, la testimonianza in prima persona dì una straordinaria (per maturità ed equilibrio) donna di borgata, una madre di sette figli una specie dì Madre Coraggio che paragona la propria esperienza con quella della figlia diciottenne; la cronaca infine delle lotte che sì sono sviluppate nell’estate e ancora al principio dell’autunno intorno alla Casa della Madre e del Fanciullo, a Milano, e le storie e le testimonianze delle ragazze ospiti della Casa.