divorzio per chi?

marzo 1974

C’è un interesse di classe, proletario, rivoluzionario nella battaglia per il referendum? Molti dubitano del primo, negano il secondo e ridono che si possa anche solo nominare il terzo. Il divorzio non interesserebbe gli operai e sarebbe una specie di sasso, capitato tra i piedi della lotta di classe, che bisogna rilanciare o metter da parte. Non si è riusciti a metterlo da parte evitando il referendum, si è obbligati a rilanciarlo, a malincuore, perché ci sarebbero tante cose più importanti da fare. Il divorzio poi non interessa il proletariato in generale, che non può permettersi di praticarlo e meno che mai le donne, proletarie e non, che ne sarebbero solo danneggiate, in quanto deboli. Il divorzio non interessa in una strategia rivoluzionaria, che ha da prendere il potere, espropriare i capitalisti, programmare l’economia e copiare per il resto (e spesso anche per questo) i modi di produzione capitalistici e l’organizzazione borghese della società. Ma insomma, a chi interessa allora il divorzio? ai borghesi veri e potenti no, perché hanno da sempre praticato l’adulterio come esercizio di libertà sentimentale, avventura, capriccio, fantasia, peccato, senza intaccare la successione, né dividere la proprietà; oppure che hanno sempre trovato modo di far dichiarare nulli i loro matrimoni, quando se ne sono voluti liberare. Si tratta solo di mettere l’Italia «alla pari»?

Di dare una.legittimazione al perbenismo piccolo-borghese, che non è così costretto dalla necessità come gli strati proletari, né così moralmente libero come la grande borghesia? dare una vernice di rispettabilità alle coppie del medio ceto, costituitesi fuori delle norme esistenti nel nostro paese e che porterebbero il peso di una discriminazione sociale pesante e riceverebbero reali danni economici? Non credo che oggi) nemmeno in provincia o sempre meno anche in provincia, vi sia una condanni o discriminazione pesante verso le coppie non «regolari»: la stessa mobilia sociale impedisce che si seguano con attenzione e che si conoscano i rappoti giuridicamente definiti tra le persone.

E’ vero invece che nelle convivenze «irregolari» vi sono danni economici consistenti, per ciò che riguarda mutualità, assegni familiari, pensioni reversibili ecc. Questo non è poco, in una società come quella in cui viviamo e un meccanismo giuridico, come il divorzio, che consenta di accedere alle scarse, ma indispensabili tutele di legge contro la malattia, la vecchiaia ecc. non è certo da buttare via. Del resto con l’introduzione della legge Fortuna soprattutto questi casi sono stati presentati ai tribunali: una serie di convivenze di fatto che duravano spesso da moltissimi anni sono così state «sistemate». Dirò che se il referendum per il divorzio dovesse avere queste sole o prevalenti giustificazioni, non dovremmo muovere nemmeno un dito. Se il divorzio deve essere introdotto per soddisfare le esigenze di perbenismo del ceto medio ed evitare un certo numero Qi danni economici, proprio non varrebbe la pena di lottare. Primo, perché» perbenismo non ci interessa, anzi è depressivo, filisteo, odioso; secondo perché a quei danni si può rimediare facendo lotte per il diritto alla salute, all’assistenza medica, alla pensione, ecc. fondato sulla persona e non sull’appartenenza a un nucleo familiare giuridicamente sancito e benedetto. Il referendum sul divorzio è invece una grande occasione per aprire una lotta sulla famiglia, per liberare proprio la donna dalla sua identificazione e dipendenza rispetto all’istituzione, alla sua «socializzazione per interposta persona», alla sua condizione asservita, cui corrispondono si un certo numero di servili privilegi, ma pagati con l’emarginazione, l’infelicità, la riduzione a oggetto. L’unico modo, il taglio giusto secondo il quale le donne possono e debbono entrare in questa battaglia, mi pare non quello di prendere una posizione difensiva piccolo-femminile, bensì mettere tutti e due i piedi nel piatto e aprire una battaglia di fondo contro ciò che la famiglia significa in questa società: infelicità costrizione emarginazione distorsione e nevrosi collettiva. Questa battaglia non si può fare se non si va fino in fondo alle ragioni per le quali a questa società interessa una famiglia stabile, costrittiva, privatistica, gerarchica, se dunque la battaglia del referendum non individua le controparti politiche, e non pone obiettivi che vanno oltre l’ottenimento del divorzio. Le controparti politiche debbono essere chiamate col loro nome e non si deve permettere che, per aver affermato di voler rinunciare allo spirito di crociata, riescano a nascondersi dietro prestanomi risibili. In altri termini, la principale controparte politica è la DC e con lei il Msi. Che una lotta contro la DC e i fascisti non interessi la classe operaia sembra affermazione un po’ strana, persino nella stagione del «compromesso storico». Soldi, firme, protezioni, benedizioni, sedi, manifesti, giornali a Gedda e a Gabrio Lombardi non sono certo piovuti dal cielo, forse sono piuttosto saltati su da qualche pozzo di petrolio, o sgocciolati da qualche pipeline che perde miliardi a finanziare la DC. E le spinte più retrive le muovono i fascisti direttamente, che in questi giorni riscoprono che persino il papa non è abbastanza di destra e il card. Poletti è un pericoloso sovversivo. Per questo la lotta per il referendum unifica o comincia a unificare un fronte tra classe operaia e movimento di liberazione della donna.

La battaglia per il divorzio, se ha questo verso politicamente preciso, se individua la DC come controparte, come avversario, unifica e non divide il fronte di classe; non fa scoppiare insomma la temuta guerra di religione. Che non la possa far scoppiare è evidente persino dal fatto che Gabrio Lombardi continua ad affermare che lui fa una battaglia «laica», che non si riferisce al matrimonio come sacramento, che prende in considerazione gli interessi della società e dello stato (di questa società, di questo stato), non gli interessi della chiesa. Persino i vescovi, mentre riconfermano la dottrina cattolica tradizionale sul matrimonio, non ne deducono che questa dottrina debba essere imposta per legge a tutti, anche a quelli che non ci credono. Quanto ai fascisti attaccano insieme divorzio, aborto, droga e criminalità giovanile, recriminando sulla «civiltà italica» insozzata da questa tabe. Ma la ragione di fondo per la quale questa battaglia unifica e non divide, (se è condotta come una battaglia contro la DC e il fascismo; se è condotta come una battaglia contro l’ipocrisia dei «valori» che reggono questa società) è che essa corrisponde agli interessi veri, materiali e ideali, di gran parte della popolazione, delle donne, della classe operaia, dei giovani, delle masse popolari. L’abbandono, la solitudine, la paura non sono certo prodotti dal divorzio; sono dentro questa società, insieme alla miseria e all’emarginazione: sono l’altra faccia della sopraffazione, dello spreco, dell’ineguaglianza, e dello sfruttamento. Non è in questione la fede religiosa; ma può essere aggiunta a tutte le altre paure, con la solita funzione alienante, anche la paura di fare qualcosa contro la religione. Il motivo della divisione tra credenti e non credenti viene avanti solo se la battaglia per il divorzio non è condotta come una precisa battaglia politica, senza reticenze, come uno scontro contro il potere democristiano. Si dirà che queste argomentazioni possono essere prese in considerazione, ma il tempo è poco, la battaglia si deve vincere e che non si può stare tanto a disquisire: tutti quelli che ci stanno sono i benvenuti. Oppure che queste sono argomentazioni utopiche, e la realtà vera è che la donna è debole dal punto di vista economico, resta disoccupata e senza assistenza, e che quindi il divorzio interessa solo al maschio per cambiare partner quando si è stufato.

Certo il tempo è poco, ma la battaglia femminista né comincia né finisce col divorzio e il referendum non è un episodio che si avvia un certo giorno e finisce di lì a due mesi: dunque bisogna aprire il discorso in tutta la sua ampiezza, proprio per poterlo tenere aperto e continuarlo anche dopo. E se è necessario aggregare un fronte capace di vincere la battaglia e quindi certo non mettere elementi di divisione tra riformisti, borghesi illuminati e rivoluzonari, è però anche certo che esso non può né deve essere monolitico e avrà le sue ovvie articolazioni. Quanto alla ragione che la donna è debole e il divorzio è una istituzione maschile, essa a mio parere maschera, a fatica e male, non solo una profonda insicurezza, che non troverei né ignobile né stravagante ma soprattutto una non confessata nostalgia, venature reazionarie, quasi l’indicazione di una strategia «rivoluzionaria» come quella che una volta era propugnata da «La via femminile», cioè in sostanza una caduta fuori dalla storia, una riaffermata estraneità ai tempi della lotta politica e della fase economica. Quando appare evidente a tutti che la crisi capitalistica avanza e le condizioni delle masse peggiorano, fare appello a una protezione fittizia e retriva come l’attuale matrimonio, del resto inutile, poiché l’abbandono senza alcun risarcimento è una esperienza che le donne fanno proprio ora, e peggio che se ci fosse il divorzio, significa tagliarsi fuori dalla lotta, marginalizzarsi. La solitudine della donna e la sua oppressione e la sua miseria, così come l’infelicità dei figli, la loro oppressione e galera domestica non sono certo evitati dal vigente regime matrimoniale, anzi: il divorzio consente qualche maggiore difesa persino su questo piano e il rifiutarsi di prendere un impegno di lotta in questo senso sarebbe un indizio o della natura piccolo-borghese di parte dello schieramento femminista, o peggio di un femminismo che vuole affermare se stesso, specularmente esaltando come «valori» e magari come «valori femminili» (estraneità alla lotta politica, indifferenza ai tempi delle vicende sociali esterne, fastidio per le mediazioni e le alleanze, passività, disorganizzazione, debolezza) quelli che sono solo la faccia femminile dei disvalori maschili della società borghese.