donna sola

la caccia alle streghe

marzo 1975

E poi dicono che non è cambiato niente negli ultimi anni nei riguardi della donna! Come no! Per esempio quelle donne che avevano superato la trentina senza sposarsi, fino a ieri erano definite «zitelle» mentre oggi vengono chiamate «nubili» oppure «non sposate». In realtà è soltanto una questione di definizione e di etichetta formale perché invece nella maggioranza dei casi si dice «nubile» ma si pensa «zitella».

Magari qualcuno desideroso di essere considerato progressista ama definire la donna cosiddetta sola, «donna emancipata» ma anche questi volenterosi sostituiscono mentalmente alla parola emancipata la frase: «è una donna cui piace fare i propri comodi». Insomma la donna che dopo la svolta dei trenta non si è ancora detta la fatidica frase «mi sposo così mi sistemo» ed ha scelto invece di affrontare da sola il problema del pane quotidiano, senza assoggettarsi alle beneficenze maritali, è ancora ritenuta un fenomeno da baraccone, un caso limite ed è guardata con sospetto. Quella donna che ha scelto un modo di vivere non condizionato all’idea che l’esistenza deve essere amabile solo se in funzione di un marito o dei figli; quella donna che al concetto di casa-nido fruibile solo come luogo di covata o al concetto di lavoro inteso solo come mezzo «per mandare avanti la baracca» ha contrapposto una scelta autonoma ai fini di una autentica realizzazione di se stessa, assume agli occhi di molti un’identità difficile da accettare senza pregiudizi. Se la nostra società è in posizione ostile verso «il singolo» in genere, nei riguardi della donna sola è addirittura sul piano della caccia alle streghe.

Per esempio una donna si è creata un lavoro soddisfacente e redditizio e ha deciso di uscire dalla vecchia famiglia per andare a vivere in una casa propria, comincia subito a pagare lo scotto di questa «ardita» scelta.

Racconta Emma A., trentaduenne, impiegata all’È.N.P.A.S. da dodici anni, che prima di riuscire ad ottenere l’appartamento in cui ora risiede (che non ha niente di lussuoso ma è un accogliente attico di tre stanze) vi furono delle informazioni da parte della proprietaria e non solo di carattere economico ma addirittura di tipo privato. «Seppi in seguito — continua Emma A. — che vi erano state delle particolareggiate informazioni circa la mia cosiddetta condotta morale presso alcuni miei superiori che si guardarono bene dal non dare».

Ciò che non suonava normale alla proprietaria era cosa dovesse farci una «donna sola» di una casa di tre stanze con terrazzo. Ad una «donna sola» non poteva bastare una camera e cucina? Deduzione: certamente deve «ricevere». E chi se non degli uomini? E quanti? Vorrà farci delle orgette!

Non molto diversa nello spirito l’altra testimonianza di Gabrielle N., caporeparto alla Rinascente di Roma, trentasei anni: «Quando compero qualcosa per il mio appartamento, molte persone, anche fra quelle che stimo dì più, mi guardano con l’aria di chi si domanda: ma per chi lo fa?».

Ma per chi diavolo deve farlo se non per se stessa o per gli eventuali amici che avrà o non avrà il piacere di frequentare? La nostra società abituata all’idea che ogni cosa una donna la deve fare per il proprio uomo o con il proprio uomo, dalla scelta del lampadario a quella dei bicchieri del servizio buono, trova inaccettabile un tale atteggiamento di libertà interiore.

Esempio: questo tipo di donna si regala un anellino? Ebbene, immediatamente si pensa: poverina vuole illudersi che glielo ha regalato «LUI». Sceglie una camicia da notte di suo gradimento? Poveraccia — si pensa — certamente spera di sedurre qualcuno (se è bruttina). Oppure: chissà da quanti si dovrà far vedere nell’intimità (se è carina).

E anche in questo caso il discorso cade inevitabilmente sulla pubblicità televisiva e della stampa, la quale, specchio della società, tende ad ignorare completamente che si può acquistare qualcosa solo ed esclusivamente per il piacere personale. Se ti lavi con quel sapone a chi piacerai? A «LUI», il quale se è tuo marito — pensa!? — ti farà la corte! Se pulisci la cucina con quel detersivo chi ti dirà brava? «LUI». Se adoperami quel borotalco chi ti sghignazzerà intorno felice? LORO, i pargoletti. Quel frigorifero e quell’automobile con chi si deve godere? Ma con «LUI». Sembra che soltanto se si è coniugati si ha il diritto di usufruire di certe cose. Una donna «deve» escogitare di tutto per piacere a qualcun altro.

Con ciò non si vuol fare un discorso contro la coppia a patto che questa sia frutto di una libera scelta e non di una costrizione sociale dovuta appunto alla paura di venir «pensata» zitella, oppure alla favola che se non si diventa madre non ci si completa come donna (come se poi l’utero nascesse col matrimonio) o soltanto perché lo stipendio non è sufficiente per permettersi certi capricci. Un conto è accoppiarsi burocraticamente e per paura di restare sola un altro accoppiarsi per etica e convinzione sentimentale.

«Quando dico: abito in via tal dei tali, vivo sola, insomma non sto in famiglia, faccio la. sindacalista e non sono sposata, ho tanto la sensazione che nella testa di quelle persone scatti simultaneamente un pensiero: questa o è anormale o lesbica o puttana», afferma Anna Rita S., trentotto anni, la quale, pur avendo superato razionalmente il problema non Io ha superato emozionalmente.

«Sembra incredibile — dice Laura F. commessa in una libreria, ventinove anni — eppure è ancora difficile andare al cinema da sola specialmente in certe ore della sera. Forse può anche non accadere di essere fisicamente infastidita, il che è già un passo avanti, ma negli occhi di chi mi guarda c’è sempre stampato: ma Lui dov’è?». Sono donne queste come Emma A., Gabriella N., Anna Rita S., Laura F., che abbiamo scelto come prototipi, le quali spesso hanno un «lui» altrettanto aperto e attento ai loro desideri e interessi o che oppure non hanno un «uomo fisso» e vivono una loro vita sentimentale. E la nostra società questo non lo sopporta, punzecchia queste donne, le giudica continuamente relegandole in un ghetto di riserva mentale che spesso scoraggia anche le più agguerrite portandole per disperazione a «regolarizzare la loro posizione». In un Paese come il nostro dove si

guarda con sospetto perfino alle donne coniugate che lavorano ritenendole non abbastanza «redditizie» e piuttosto «assenteiste» perché devono dividere il loro potenziale produttivo tra luogo di lavoro e casa-famiglia, immaginate come si guarda a quelle non coniugate, libere, diverse, svincolate da cliché non collaudati.

Queste incomprensibili marziane – nubili – zitelle – emancipate – libertine seppure ritenute utili sul piano lavorativo perché «almeno non danno le noie della gravidanza», sono però ritenute scomode fuori dell’ufficio o della fabbrica per questa loro «scandalosa» scelta privata. E talmente violenta è la capacità di persuasione di una società repressiva e moralista come la nostra che spesso queste «streghe» finiscono per credere di esserlo veramente e buttano allora a mare ogni tentativo di lotta per una autentica emancipazione femminile accettando una situazione che è nient’altro che solitudine a due.