figli sì, ma senza la D.C.

novembre 1973

Milano.

Ai cancelli della metropolitana, Lucia incominciò a piangere. Pianse senza rumore, senza smorfie dolorose sulla faccia, quieta e bianca, fino a quando arrivammo alla stazione di San Babila. Le altre dicevano di lasciarla stare, altrimenti era peggio. Biglietto della metropolitana non ne pagammo nessuno: ormai i bigliettai milanesi sanno, quando si dice «assemblea», «delegazione», significa che si ha tanto da esigere dalle istituzioni, che almeno il biglietto Cimiano-San Babila, te lo regalano.

E Lucia e le altre, Giovanna, Gabriella, Antonietta, ne avevano da esigere: ragazze madri, ed anche «privilegiate», perché sulle quattromila ragazze madri assistite (si fa per dire) dalla Provincia — che poi in Lombardia, madri col figlio nelle grotte, o pseudo bambini-lupo ancora non se ne sono scoperti… quindi va tutto bene — sulle quattromila dunque ragazze madri che toccano alla regione lombarda, e, tanto più, sulle ventimila nubili che ogni anno iscrivono il proprio figlio all’anagrafe, senza potere dire il nome del padre, insomma sulla massa, che poi deve essere molto più fitta, considerando quelle obbligate o convinte a non riconoscere il bambino, delle ragazze madri italiane, queste alloggiate a Milano, in via Pusiano, in tutto diciassette, sono «privilegiate»: e non tanto perché prese come cavie di un «esperimento pilota» sul quale abbiamo raccolto le loro testimonianze, ma perché sono riuscite gradatamente ad emanciparsi dal sentimento di colpevolezza ancora oggi collegato (a meno che non si sia ricche o famose o snob) al fatto di avere un figlio senza avere un marito: e quanto più povera sei, tanto meno la maternità illegale ti viene perdonata, né puoi sperare — ammesso che tu riesca a dare da mangiare a tuo figlio — che te la condonino come un capriccio: ciò, oggi, può accadere ad una cantante miliardaria, a una ragazza del jet-set: per le altre c’è da superare, come minimo, pregiudizi e diffidenze, e cacce maschili (virili) spietate: per le proletarie, le donne senza qualifica professionale, le minorenni non appoggiate dalla famiglia, semplicemente la disoccupazione, la fame, eventualmente le grotte. Allora le ragazze di via Pusiano?

Questa la loro storia collettiva: la Casa della Madre e del Fanciullo nasce nella periferia milanese per le elezioni del 1972: la candidata DC Cassamagnago riesce infatti a farsi eleggere appropriandosi di questo progetto d’avanguardia per il reinserimento sociale della ragazza madre: la Casa è finita qualche settimana prima del 7 maggio, la candidata diventa deputata, i 28 posti disponibili (un numero così esiguo che già riduce in partenza le possibilità alternative dell’istituzione) non sono mai occupati tutti: come se a Milano non esistessero abbastanza ragazze madri. Anzi, nel febbraio 1973, la Giunta Provinciale, da cui la Casa della Madre e del Fanciullo dipende amministrativamente, decide che «le ragazze vengano gradualmente allontanate»: perché? Pare che facciano una vita troppo comoda che ritarderebbe — la Casa è provvista di una pensosa équipe medico-sociale — ritarderebbe dunque la loro maturazione psichica.

Si incominciano ad allontanare, senza scandali, le prime due ragazze, si trova modo di farne ricoverare una anche al Paolo Pini, cioè all’Ospedale Neuropsichiatrico, ma sul caso di Renza si apre ed incomincia a crescere la lotta: da luglio ad oggi la lotta delle ragazze-madri di via Pusiano, che ha come obiettivo ultimo l’autogestione della Casa, è andata sviluppandosi e raccogliendo intorno a sé la sempre maggiore partecipazione del quartiere: ma il fatto più importante, forse, è la maturazione politica delle ragazze (maturazione che non ha bisogno del «diploma» dell’equipe): una maturazione politica che può definirsi insieme femminista e proletaria: cioè queste ragazze, da una parte, hanno cominciato a non vergognarsi più di avere un figlio senza padre, o, comunque, senza «matrimonio»: dall’altra, emarginate economicamente, come sono tutte, hanno capito di avere diritto ad una casa per viverci autonomamente, con i propri bambini, pagando un affitto proporzionato al salario che ricevono: quelle che sono riuscite a trovare un lavoro: per le altre il discorso è: autogestione all’interno della Casa della Madre e del Fanciullo.

In tutti questi mesi, da luglio ad ottobre, le ragazze-madri di via Pusiano a volte hanno vinto, a volte hanno perso: hanno vinto quando, dopo essere riuscite ad impedire che Renza fosse buttata fuori o che la separassero dalla sua bambina, hanno ottenuto per lei l’assegnazione di un appartamento, dei quattro di cui dispone il Comune di Milano, ogni mese, per i senzatetto: ma se in luglio, quando ancora attorno a loro, s’era potuta coagulare l’attenzione di un quartiere popolare — consigli di fabbrica, consiglio di zona, sezione del PSI — se in luglio Renza aveva avuto la casa, nella seconda metà di agosto, con Milano vuota, la direzione aveva spedito nove lettere raccomandate ad altre nove ragazze comunicando loro di averle «trasferite» al brefotrofio (una istituzione agghiacciante): una delle ragazze era andata a protestare dal giudice tutelare, e, al suo ritorno in via Pusiano, non l’avevano fatta rientrare all’interno della Casa della Madre e del Fanciullo: il bambino, intanto, glielo avevano portato al brefo. Segue una denuncia dei responsabili per sottrazione di minori e la ragazza può riunirsi al figlio. Stesso trattamento per un’altra delle minorenni che, secondo la direzione della Casa, dimostrano di non avere meritato, con il proprio comportamento, il privilegio di vivere, insieme ai figli, una «esperienza-pilota»: ma anche per questo secondo caso, il giudice riunisce la madre al bambino.

Fino a quando l’Amministrazione Provinciale, con decisione della Giunta, è costretta ad una marcia indietro, comunicata attraverso un elaboratissimo documento in cui si parla dell’assistenza alle ragazze-madri in termini di sospetto «missionarismo»: «…attraverso l’attività di gruppi-famiglia sarà possibile completare l’opera educativa e terapeutica, per realizzare la donna-madre e nel contempo completare la sua preparazione agli impegni e alle prove della vita sociale».

In sostanza: per ora le ragazze-madri restano tutte in via Pusiano, insieme ai loro bambini: nel frattempo si costruirà (ma quando?) un’altra casa per le ragazze-madri minorenni. Ma le ragazze di via Pusiano non vogliono dividersi, anzi, di più, vogliono ottenere l’autogestione della Casa e farne una comune per donne e bambini.

Qui di seguito sono raccolte alcune loro storie e testimonianze sulle lotte che hanno affrontato per la prima volta consapevoli, da luglio a settembre.

Lucia, sedici anni, faccia lavata e chiara, al celeste degli occhi risponde l’ombratura azzurra delle vene, sotto la pelle trasparente, Non s’è fatta nessuna difesa, nessuna barriera psicologica, soltanto quando,’ insieme alle altre, l’hanno aggredita i fascisti, s’è cavata lo zoccolo alto da un piede e glielo ha tirato dietro. — A tredici anni ho cominciato a lavorare in fabbrica. La sera avevo paura di stare sola a casa, mio padre si era separato da mia madre, io che ero la più grande stavo con lui per tenergli pulita la casa, preparare il mangiare. Ho cominciato a fare salire un ragazzo, sono rimasta incinta. Però ci vogliamo bene. Lui di mestiere farebbe il parrucchiere ma è sempre dentro. Ha il vizio che ruba, radioline, cose così. Il bambino non l’ha visto ma mi ha scritto che appena esce mi sposa, gli dà il nome. Al carcere non posso andare per il colloquio, perché non sono sua moglie. L’abbiamo chiamato Christian, perché è il nome di un cantante che ci piace. Al principio di tutta questa confusione io avevo molta paura. Le compagne mi hanno aiutato a capire che sono nostri diritti: ora mi vergogno meno di avere un figlio senza essere sposata. Io continuo a lavorare in fabbrica ma se mi cacciavano . di qui, dove mettevo il bambino? Stare insieme a tutte le altre, tutte con i bambini, e farci tutto da noi, senza quelle spie della direzione, sarebbe una festa: dicono che non hanno i soldi per chiamare inservienti a fare le pulizie, per cucinare, e tutte queste cose, ma se ce la danno in mano a noi, la casa, da reggere, da fare tutto, siamo molto più contente —.

Giovanna, 22 anni: — Io quelli dell’equipe non l’ho mai potuti vedere. Appena arrivi, ti chiama il ginecologo e vuole sapere come è successo, tutto nei dettagli, che ti hanno messa incinta: io dico che è un porco, uno che gli piace sentire queste cose. E lo devi raccontare pubblicamente, davanti a tutti. Potremmo stare bene qui se ci lasciassero la Casa in mano nostra. Io sono di Foggia, il primo che mi ha messo incinta, quando avevo quattordici anni, era un parente: non ho detto nulla per paura che tra loro uomini si ammazzassero e dopo, se mio padre andava dentro, chi campava la famiglia che eravamo sette? È nata una bambina, e me la tiene mia madre. Però quando mi è successo la seconda volta, mi hanno cacciata di casa. Siamo tutti emigrati qui a Milano, io però un lavoro continuativo non riesco a trovarlo. L’equipe a un certo punto mi ha dichiarata «matura»: avevo mille lire in tasca, che mi erano rimaste dell’ultimo lavoro di commessa straordinaria ai grandi magazzini che avevo potuto trovare, un bambino di due anni, e, naturalmente, neanche un posto per andare a dormire. La verità era che volevano che mi levassi dai piedi, un poco perché sono una scomoda, un poco perché per loro noi siamo cavie: dopo sei, sette mesi che ci hanno in osservazione gli serve materiale fresco, al ginecologo!-.

Renza, 24 anni: — Ho un lavoro di cameriera di piano in un albergo del centro, guadagno centoventimila lire al mese, però devo pagare il pasto di mezzogiorno, lavoro dalle otto del mattino alle cinque del pomeriggio: da qui avevano deciso di scacciarmi perché «autosufficiente»: ma a chi avrei affidata la bambina mentre lavoravo? L’asilo-nido di via Pusiano, che dovrebbe servire soltanto a noi lo fanno invece servire anche per i nuovi inquilini delle case di mediolusso che stanno sorgendo qua attorno, perché questi altri pagano. Un appartamento a un fitto possibile, mi bastavano due camere e cucina, non l’ho trovato. Ora il comune mi ha dato la casa, ma ho sempre il problema di pagare qualcuno per la bambina, dalle sette e mezza del mattino alle cinque e mezzo del pomeriggio. Io mia figlia l’ho voluta coscientemente, anche se lui mi aveva avvertito che non ne voleva sapere. È quindi una responsabilità che mi sono presa da sola e che non scarico sulle spalle degli altri. Ma la casa, la collaborazione sociale per crescere i figli sono nostri diritti. Specialmente se ragioniamo che quelli che non ci danno la casa sono gli stessi che ci rifiutano l’aborto legale. Allora? I figli li dobbiamo fare, ma per metterli dove? —.