referendum

I paladini della retroguardia

febbraio 1974

È finita l’altalena referendum sì, referendum no, un’altalena che andava avanti da mesi, se non da anni, per la precisione dal 71, subito dopo approvata la legge sul divorzio Baslini-Fortuna. E le parti che si rimbalzavano la palla, a chi tocca oggi, a chi tocca domani e soprattutto chi si prende la responsabilità di decidere. A seguire le lunghe, tediose polemiche, gli articoli di fondo, gli editoriali, i commenti degli autorevoli, le note di agenzia, le dichiarazioni di parlamentari e ministri, le cronache pure e semplici di incontri di cui si suppone che si dica che, con una lettura diciamo «femminista», salta all’occhio e alla mente un primo dato: a nessuno, ripetiamo, nessuno, gli importa nulla di quello che pensa la donna in questa faccenda di cui dovrebbe essere ed è la principale protagonista. Tutt’al più nel campo clericale si usa la formula della santità della famiglia (sacra famiglia: padre figlio spirito santo e anche qui niente donna) e si formulano voti per la sua indissolubilità. Punto e basta. Il referendum è diventato un fatto di importanza politica eccezionale, lo «steccato» storico tra laici e clericali, il punto d’incontro-scontro delle parti, cioè dei partiti, e neppure tra destra e sinistra perché a lasciarli fare i comunisti, il referendum l’avrebbero evitato. Ma andiamo per ordine, a esaminare il comportamento dei partiti, ragioni e previsioni.

Una piccola consolazione, la citiamo subito, ci viene da quel vecchio gentiluomo che è Giuseppe Branca, senatore ed ex presidente della corte costituzionale, che ha affermato di non esserci ragione di temere il referendum: «non sarà una guerra di religione, i veri cattolici in Italia sono poche decine di migliaia. Sarà invece una battaglia politica tra Stato confessionale e Stato non confessionale, tra una cultura sudamericana e una cultura moderna… Si spieghi alla gente, soprattutto alle donne, che col divorzio si ha diritto al mantenimento, a differenza che con la dichiarazione di nullità pronunciata dai tribunali ecclesiastici. Lo si spieghi bene. Possibile che gli italiani non lo capiscano?». Dunque, come sono schierati i partiti. Sarebbe noiosissimo riprendere qui le polemiche giornaliere, ne facciamo un breve excursus, compreso il passato prossimo. Che sarebbe il ’71. Già allora il PCI, in un convegno alle Frattocchie, nella relazione introduttiva Bufalini sostenne che il referendum poteva fermarsi soltanto con modifiche sostanziali della legge Fortuna-Baslini. Che dovevano consistere in una sospensione di qualche anno della sentenza se il giudice riteneva valide le ragioni di opposizione di uno dei coniugi. Ma alla DC allora questa soluzione non bastava. Il Vaticano desiderava dare protezione alle nozze religiose, dare una soluzione al famoso articolo 34 del Concordato. Il Papa, alla conferenza episcopale della CEI, ribatteva la ferma opposizione al divorzio e invitava i vescovi a una battaglia pervicace.

Tant’è che poi, come ebbe a dichiarare lo stesso Forlani, segretario della DC: «le chiese sono diventate uffici notarili per la raccolta delle firme contro il divorzio». Sempre nel 71, il PCI riteneva che soltanto il PSI (assieme al PSIUP ancora in vita) poteva portare avanti un compromesso. Si parlò allora dell’articolo 56 del codice familiare polacco. Ma non era una novità assoluta. Era già stato proposto come emendamento alla legge Fortuna dalla de Maria Eletta Martini (e bocciato) : «non si ammette il divorzio se è pregiudizievole agli interessi del figli minorenni o è in contrasto con il principio della convivenza sociale» che non si capisce cosa sia; e se il coniuge non responsabile della separazione si oppone. E di che divorzio allora si parla? Questo divorzio alla polacca comunque è stato il buon anno che l’onorevole De Martino, segretario del PSI, ha augurato alle famiglie italiane per il ’74. In una situazione politica economica deteriorata e caotica (tanto che per assurdo l’uomo della strada o non se ne accorge o non ce la fa a crederci), il PSI ormai alla stretta finale della decisione (referendum o revisione della legge), ha tentato una sortita.

Per ricordare poi la vera verità, quell’esotismo polacco socialista, finora aveva avuto un altro nome: è uno degli articoli della proposta di legge di Tullia Carrettoni con la quale già una volta s’è tentato di bloccare il referendum. Con il 1.370.134 firme per indire il referendum deposte presso la Corte di cassazione, la DC doveva infine prendere posizione. È stato il segretario Amintore Fanfani a rompere gli indugi con un articolo sul settimanale del partito «La discussione» che ha fatto testo. S’ha da fare? Che si faccia, perché non spetta alla DC avanzare proposte di modifiche data la sua natura di partito totalmente antidivorzista. Lo ha anche ribattuto ad un convegno di giovani de, affermando che solo un «miracolo» potrebbe evitare il referendum e che è bene prepararsi con «prudenza cristiana». Ma i suoi colleghi di partito non sono così sicuri. Vedi come si sono espresse le ACLI che affermano ancora «la Indissolubilità della famiglia fondata sul sacramento del matrimonio; valori che è comunque compito dei cattolici affermare nella società in un contesto pluralistico rispettoso delle libertà altrui». È stato chiaro l’invito a una finale verifica di una soluzione alternativa. Invito che non è dispiaciuto a nessuno; salvo che al MSI convinto di difendere la sanità cattolica della razza e che conta di trasportare con il referendum a totale destra la DC. Ma ci sono alcuni dati che hanno fatto venire la tremarella a questi intemerati destrorsi. E sono i risultati di ben tre sondaggi, tenuti segretissimi, resi noti dal partito radicale: 65 per cento sì per il divorzio, 27 per il no, 18 indecisi cioè almeno dieci milioni di stacco. La DC a questo punto chiede aiuto al Vaticano, il Papa nicchia e si astiene, salvo a mettere in moto il buon vecchio Gedda e a tirar fuori dalla naftalina i Comitati Civici.

Questi sondaggi non sono una novità eclatante perché iniziati nel lontano 1947 con una progressione inesorabile hanno dato risposte sempre più positive verso il divorzio. In quell’anno secondo la Doxa i favorevoli erano il 28 per cento e i contrari 68. Nel ’53 i primi erano saliti a 35; poi ci fu un calo fino alla proposta Fortuna, all’inizio del ’71 raggiunsero quota 40,5, quando “del divorzio si parlava persino in dibattiti televisivi. Secondo un’altra agenzia di sondaggi, la Demoskopea, nel ’71, i divorzisti erano già il 51,9 per cento, nel ’72 erano saliti al 53,8 per cento e se esaminate le schede nei particolari veniva fuori che conoscendo la legge, ossia come e quando si ammette il divorzio, la Maggioranza diventava schiacciante, con i giovani più favorevoli degli anziani e questi ultimi più contrari perché meno informati. E allora? Quali paure? Quali ragioni? Il clima di caccia alla strega è già iniziato, una delle frasi più comunemente usate è quella di «guerra di religione»; la guerra intanto se la fanno tra loro all’interno dei partiti, palleggiandosi le responsabilità; e persino con qualche rimprovero velato al Papa che non ha saputo contenere le voci di una sconfitta quasi certa e quelle del dissenso di almeno cinquanta vescovi. Per i gruppi extraparlamentari non ci sono mai stati dubbi: Manifesto e Lotta Continua sono sempre stati per il referendum. Questa ultima in un suo documento afferma che il referendum è destinato ad accelerare la crisi degli equilibri politici attuali, che esiste una coincidenza tra scadenze operaie e scontro sul referendum, che bisogna sviluppare «un discorso di classe sulla famiglia, sui rapporti uomo e donna, sui rapporti tra figli e genitori, tra l’organizzazione capitalista dello sfruttamento e la distruzione dell’umanità e della libertà, che non ci lascino prigionieri di una indistinta solidarietà laica che comprende la buona borghesia liberale e anche posizioni radicali o socialiste che guardano al cittadino assai più che al proletario. È noto che la legge sul divorzio così com’è è classista e inadeguata alle esigenze proletarie. E tuttavia nessun proletario cosciente deve aver dubbi sulla scelta politica tra questa legge e l’impresa della Sacra Rota. La nostra campagna deve raggiungere le donne proletarie e i giovani…».

Un discorso altrettanto chiaro è mancato invece nel PCI. È per questo che ha tardato tanto ad indire una battaglia pro referendum e pro divorzio perché si ritrova in tasca una massa di elettrici non emancipate, legate a schemi di rapporti familiari patriarcali non messi in discussione. Le stesse indecisioni, incoerenze, si ritrovano in un altro argomento tabù, quello dell’aborto. Il referendum può svolgere un compito chiarificatore nella politica femminista che questo partito marxista dovrebbe svolgere. Insomma, potrebbe essere una lezione salutare per il suo elettorato donna e per le leve giovarli. «Una prova che non abbiamo voluto — dice Tortorella — ma che sapremo combattere con decisione e fermezza». Una bella frase. Ma sono battaglie che non terminano dopo una vittoria divorzista, anzi vanno alimentate e continuate, sui binari dei nostri interessi.

C’è un ultimo punto che vorremmo ricordare e cioè come gli spauracchi agitati prima dell’approvazione della legge Fortuna-Baslini siano andati a ramengo: la distruzione e la fine della sacra famiglia italiana. Macché, continua a vegetare anche se malatissima. In tre anni i divorzi non hanno superato i 90 mila e le domande sono andate dopo il boom all’inizio del 1971, regolarmente scemando: i divorzi accordati in media al mese sono circa 1500. E allora non facciamoci accalappiare ora da un altro spauracchio: quello di una vittoria clericale. Il referendum ci sarà. E lo vinceremo. Non possiamo sopportare di ritrovarci addosso un divorzio-bis antidemocratico, svuotato di ogni significato, peggiorativo della condizione della donna, subito passivamente dall’elettorato, manovrato dall’alto. Noi diciamo no ai giochi di potere e di partito fatti anche sulla nostra pelle.