lettera aperta

febbraio 1974

Uomini e donne, piccolo-borghesi, borghesi illuminati, compagni, accusano noi femministe di astrattezza, di ideologismo teorico e lamentazioni sospirose, di lagnosità, “Perché? Astrattezza, ideologismo teorico: viene definito così il discorso generale che noi elaboriamo partendo dall’esperienza individuale. Lamentazioni sospirose, lagnosità: viene così definito il discorso «personale» basato sull’esperienza individuale che è poi il fondamento dell’autocoscienza. È chiaro quindi che il racconto che si fa in prima persona, della nostra oppressione, non viene inteso nel senso giusto dall’uomo cui non fa comunque piacere essere messo in discussione (l’autorità, il potere, non ama essere contraddetto), dalla donna che teme, denunciando il suo oppressore, di perdere il consenso. Mi sembra di poter affermare che queste critiche sono ancora il prodotto di un meccanismo borghese che ti impone la maschera. Infatti, nel salotto borghese, le donne non parlano mai sinceramente di sé, da sconfitte, da scontente, da sfruttate, quali noi donne siamo tutte in realtà, ma parlano «dell’altra» (che non c’è), delle magagne dell’altra, dell’oppressione dell’altra, del marito dell’altra, per parlare in definitiva di se stesse: nell’altra si vede e si critica tutto quello che costa fatica ammettere e riconoscere di se stesse e così si perpetua l’inganno reciproco. La prima cosa di cui abbiamo sentito la necessità, noi donne che vogliamo rompere con la nostra oppressione di donne, di borghesi (sono cresciuta in un clima borghese e non posso che parlare della mia realtà) è stata proprio quella di parlare finalmente in prima persona, di dire finalmente la verità,, insolente per il mondo borghese che ti circonda e che si ritrae scandalizzato; dolorosa, struggente, per te che ti devi scavare in fondo, il più possibile, oltre la spessa crosta che ti avvolge, fino a trovare la parte vera, quella che ancora è in grado di soffrire, di sentire, di emozionarsi, di ridere, di litigare, di amare. L’autocoscienza è dolorosa, ma è liberatoria… Nel momento in cui tutte si riconoscono nel «personale» di ciascuna, l’autocoscienza diventa uno strumento politico.

Ho vissuto la mia maggiore oppressione nei rapporti con l’altro sesso, un’oppressione derivatami direttamente da un’educazione borghese e cattolica. A cinque anni, la prima elementare nel Nobile Collegio delle Signore Vergini (lo hanno fondato le nobili zie di San Luigi Gonzaga); a dieci anni, U prima media al Collegio Bianconi delle Suore di Maria Bambina. Un ricordo sereno, di una religiosità protettiva, sostenitrice, del primo; un ricordo frustrante, del secondo: repressione, ordine, obbligo, punizione. Il primo era il padre buono, affettuoso, comprensivo, il secondo il padre vendicativo, moralizzatore, castigatore, quello che mi ha fatto sentire per la prima volta in modo violento, la colpa di essere donna, quindi il male, il peccato, il «negativo» del «positivismo» maschile. «Il tuo corpo è peccato (a dieci anni non sapevo neppure com’ero fatta!); il bagno, (una volta al mese) si fa con la camicia addosso ed a lavarti viene la sorella perché tu non devi toccarti. Hai il diavolo addosso mi diceva la suora «di compagnia» che mi aveva messo a dormire vicino a sé, in camerata perché ti muovi troppo di notte e sei scomposta a letto». Se tenevo le mani sotto le lenzuola, commettevo «gli atti impuri», se le tenevo fuori, ero scomposta! Non mi fu difficile, una volta cresciuta, assimilare a tal punto l’idea del «diavolo addosso», da sentirmi veramente perversa, il contrario del «femminile» nell’accezione cattolica e borghese e cioè, devoto, puro, pudico, casto, remissivo, sottomesso. Io mi ero identificata nel modello contrario, avevo dato al mio non-desiderio di sposarmi, alla mia non-volontà di realizzarmi secondo la «femminilità positiva» tradizionale, non il significato di una ribellione anti-madre masochista ed oppressa, come sarebbe stato più logico, bensì tutti i valori di un modello negativo (come lo definisce la cultura borghese) e cioè la non-moglie, la non-madre, la non fedele, la non-sottomessa, quella dall’intelligenza pericolosa e dalla sessualità insidiosa, quindi la donna «da non ‘ sposare, con la quale divertirsi» come mi disse brutalmente una sera F.F., un uomo che amavo tantissimo. Piansi per tre giorni.

Il guaio era che non riuscivo a trovarmi una definizione diversa da quella che il mondo intorno mi dava, gli uomini, ì libri, i films: non sei angelo, sei demonio; non sei moglie, sei puttana! Ma, dentro, sentivo di non essere niente di tutto questo, anche se l’unica cosa di cui ero consapevole era la mia «negatività» (sempre secondo un giudizio esterno). Era anche questa una identità, che però mi faceva soffrire, mi opprimeva, sentivo dì non essermela scelta, sentivo che non mi apparteneva. Mi faceva soffrire e però, solo definendomi in questo modo, sentivo di esistere, di godere del rapporto sessuale, un rapporto di non-amore, di non-affettività, di non-tenerezza, di sadismo. Divisa tra sesso e sentimento, tra passione ed affetto, proprio come mia madre, gli uomini, il buon Gesù, padre Francesco, suor Germana, mi avevano voluto. Godevo del sesso violento con un uomo e, per riscattarmi della colpa che mi sentivo addosso, cercavo di provare affetto per un altro uomo: divisa più che mai, nevrotizzata più che mai.

Come ne sono uscita? (ne sono uscita?). Mi ci sono voluti dieci anni; nei quali ho incominciato ad esprimermi, ad esprimere sempre più ad alta voce la mia protesta, il mio disagio, la mia incapacità a rientrare nello schema prestabilito. Ponendo fine alla nevrotica ricerca di una definizione dì me stessa nell’uomo che amavo, nelle persone che mi stavano attorno, nella cultura in cui vìvevo, e cercando di definirmi da sola, giorno per giorno, minuto per minuto, per quello che sentivo di fare, di esprimere…

Poi, nella protesta, sempre più lucida, sempre più cosciente, ho trovato altri esseri umani come me, che vivevano la stessa esperienza, la stessa oppressione, la stessa emozione, la necessità di essere autentici, di uscire dal disagio di un’etichetta. Poi, il bisogno di chiarire, di discutere; poi la cultura, tutto quello che è stato detto, scritto, visto, discusso, alla luce della cultura stessa; poi la nuova cultura, la nostra cultura, di esseri umani oppressi in cerca della nostra identità, oltre il mito, il luogo comune, la definizione di comodo, oltre la strutturazione autoritaria del potere costituito, oltre «il maschile» opposto a «il femminile».

Ed ora amo le mie sorelle e pochi uomini…