salario alle casalinghe?

Pubblichiamo quattro documenti relativi al dibattito «Salario alle casalinghe?» (I\L 3, anno 2° di Effe). Il primo di essi è fondamentale: il suo contenuto, sia pure in una rielaborazione recentissima (ed anzi non ancora conclusa), è all’origine di una discussione che interessa ormai tutto il movimento: si tratta del documento di Lotta Femminista (sede 2). C’è da dire che le compagne di L.F. (sede 1) hanno preferito, piuttosto che convergere sul documento stesso, costituire un «Comitato per il salario» che porterà avanti una analisi autonoma. E ciò è un indice della complessità di un argomento che pure può agevolmente riassumersi in uno slogan ad effetto, come quello di «Soldi alle donne!». La vivacità della discussione aperta dalla proposta di L.F. n. 2 è confermata dall’intervento del Collettivo femminista di Pescara che pubblichiamo come secondo testo. Al di fuori del movimento femminista, invece, il tema appare decisamente rischioso: è questo il succo degli interventi, che qui pubblichiamo, di Enrica Lucarelli, responsabile femminile del PSI, e di Margherita Repetto del Direttivo UDI.

giugno 1974

1 soldialle donne

Si allarga sempre di più in Italia il dibattito sul “salario per il lavoro domestico”. Tale dibattito sollecita altrettanto la discussione su tutti i vecchi temi analizzati dalle donne nei loro movimenti, nelle loro lotte, nelle loro ribellioni, e anche dagli uomini nel tentativo di indebolire o addirittura ridicolizzare quei movimenti, quelle lotte, quelle ribellioni. Sono i temi del LAVORO ESTERNO, della SOCIALIZZAZIONE DEI SERVIZI, delle CONDIZIONI COMPLESSIVE DELLA PROCREAZIONE E DELLA SESSUALITÀ’. Diciamo, a questo ultimo proposito “condizioni complessive della procreazione e della sessualità” perché sappiamo che dire solo “aborto” o “anticoncezionali” non esaurisce certo il discorso sulla procreazione e sulla sessualità, come da parte dei vari riformisti si vorrebbe far credere.

Ma, mentre si è pressoché unanimi (da parte delle donne, non degli uomini) nel riconoscere il momento del lavoro domestico come primo anello della catena che sfrutta e schiavizza tutte le donne, purtroppo nell’imposta-re il problema della lotta per rompere tale catena si commettono due ordini di errori:

a) uno potremmo definirlo il “vizio riformista”; ciascuno dei temi sopra menzionati viene visto come “alternativa liberante” e tra tali alternative la donna, secondo questa impostazione, ereditata dai riformisti maschi, dovrebbe scegliere. Conseguentemente alla donna esasperata dalla condizione di casalinga si propone l’alternativa del lavoro esterno. Alla donna già coinvolta nel lavoro esterno, ed estremamente insoddisfatta di questo, non si ha il coraggio di proporre il ritorno nelle mura domestiche e non resta allora che invitarla a qualche lotta sugli asili. Non ci si pone il problema di come queste cose non abbiano mai costituito un’alternativa liberante rispetto al lavoro domestico, lavoro che non solo non scompare, ma si aggiunge a lavori ancor più pesanti e sempre discriminati e ad asili concessi giusto per permetterci di fare questi secondi lavori.

Non ci si pone inoltre il problema di come le lotte sul luogo di lavoro esterno e sui servizi, vecchie quanto il capitalismo, siano state per le donne sempre perdenti, nel senso che non riuscivano affatto a rispondere agli interessi delle donne, a migliorare complessivamente la loro qualità di vita, ma sboccavano semmai in irregimentazioni più pesanti di tale vita.

b) l’altro potremmo definirlo il difetto radicale”. Cioè questi temi, questi momenti di lotta, sono visti come “separati”, “indipendenti”, gli uni dagli altri. Si pensa di aver più potere su uno anche se non si ha più potere sugli altri. Con questo non vogliamo dire ad esempio che non si possa ottenere, anche nel giro di breve tempo, in Italia, la legalizzazione dell’aborto. Ma è certo dal nostro punto di vista che non si vincerà nell’ottenere nuove condizioni di procreazione e nuove possibilità per la nostra sessualità se non vinceremo sulle condizioni materiali complessive in cui la donna è costretta a vendere se stessa nella casa e fuori della casa. Cioè l’impostazione che noi chiameremo “radicale” ha il difetto che nella stessa misura in cui non coglie la radice comune di questi fenomeni di lotta, non è capace di organizzare un momento di forza comune che dia connessione a tutti questi momenti, e con tale connessione un nuovo livello di potere, e con questo nuovo livello di potere, una reale possibilità di vittoria. Ripetiamo: questo non vuol dire che noi non si sia immediatamente disposte ad una mobilitazione, alla azione per |a legalizzazione dell’aborto. Anzi proprio l’aver gestito politicamente il processo di Padova è la prova della nostra disponibilità immediata e totale su questo. E vogliamo portare avanti tale mobilitazione con tutto il movimento.

Diciamolo chiaro: il lavoro esterno non a caso definito dalle organizzazioni, maschili, come “emancipazione femminile” non è stato inventato dal movimento femminista e non viene come tale proposto dal movimento femminista.

Il movimento femminista, proprio perché pone non la formula ambigua della “emancipazione” ma il problema della “liberazione”, ha semmai avuto un’altra funzione: quella di denunciare la discriminazione come qualità di lavoro e livello di salario che il lavoro esterno ha sempre rappresentato per la donna. E con la denuncia di tale discriminazione ha posto il problema di individuare dove si trovava la possibilità materiale di tale discriminazione e quindi, dal punto di vista della donna, il primo “momento obbligato di lotta”, per riuscire a determinare nuove condizioni del lavoro esterno; come qualità di lavoro e come livello di salario.

Altrettanto dicasi per i servizi. Ilmovimento femminista non ha inventato l’obiettivo dei servizi sociali. Anzi tale obiettivo è stato il più inflazionato dai politici (di sinistra, di centro e di destra). Ognuno di loro condizionando la concessione di tali servizi (o, più correttamente, la “promessa”) a determinati livelli e tipi di sfruttamento cui volevano e vogliono tenere soggiogate le donne.

Quindi secondo questi bellimbusti: “L’asilo sì, te lo concediamo, ma se vai anche a lavorare in fabbrica o in ufficio. E soprattutto ti concediamo pochi asili finché hai dietro altre donne (zie, sorelle, madri) disposte a guardare (per solidarietà o per pochi soldi) i tuoi figli, visto che tu devi uscire per andare a fare un altro lavoro”.

Il movimento femminista non ha inventato questi servizi. Non ha inventato dei servizi dati a queste condizioni. Ha semmai posto il problema di come ottenere dei servizi che non presuppongano una doppia schiavitù della donna, che servano a dare tempo libero alla donna, ovunque essa lavori, (in casa o fuori) e quindi servano a darle una maggiore possibilità di vita sociale.

Il movimento femminista ha posto cioè nell’un caso (lavoro esterno) e nell’altro (servizi) il problema di costruire una LEVA DI POTERE per cui le donne non debbano più lasciare la casa o restare in casa in una posizione di debolezza, di sconfitta. Una leva di potere per cui le donne riescano in una posizione di forza a contrattare le condizioni del lavoro domestico stesso, le condizioni del lavoro esterno, le condizioni dei servizi, le condizioni della procreazione e della nostra stessa sessualità.

 

2 un obiettivo pericoloso

La motivazione alla richiesta di salario che trova più consensi nell’ambito del nostro collettivo è quella secondo cui la lotta per il salario è una lotta ideologica che tende a demistificare il ruolo della casalinga: in quanto la richiesta di un salario per un lavoro che finora è stato considerato una specie di missione d’amore a cui tutte le donne sono chiamate, significa presa di coscienza che il lavoro casalingo è un lavoro pari a qualsiasi altro e quindi remunerativo per chi lo fa. Demistificare il ruolo della casalinga significa far luce sulla realtà della donna che è quella di serva non pagata: e significa anche, in questa fase del capitalismo, fare il punto sul fatto che il lavoro casalingo non è improduttivo e parassitario giacché è un lavoro che permette all’uomo di occuparsi esclusivamente della sua attività fuori casa, libero da qualsiasi problema di ordine pratico — leggi lavare, stirare, cucinare e via dicendo —. Secondo questa analisi la donna può essere considerata come produttrice di plus-valore in quanto, grazie al lavoro da lei svolto in casa, il capitale può risparmiare una enorme quantità di servizi sociali e può allo stesso tempo sfruttare la forza-lavoro da lei stessa prodotta e così ben accudita. Se quello del salario è un obiettivo di minima, nell’ambito di una lotta femminista che mira all’abolizione del ruolo casalingo come specifico della donna, e ad una rivoluzione culturale che sradichi quei pregiudizi che la confinano in un ruolo subalterno, è tuttavia un obiettivo per il raggiungimento del quale la donna avrà l’occasione di uscire dal suo secolare isolamento fra le mura domestiche. Perciò tale lotta può essere considerata un importantissimo momento di coesione del movimento femminista. Non mancano riserve alla validità di una lotta per il salario. Si ritiene quest’ultimo un obiettivo pericoloso, oltre che profondamente reazionario su piano teorico, in quanto tale lotta potrebbe risolversi in una rivendicazione prettamente economica, con la conseguente istituzionalizzazione del ruolo casalingo. E questo rischio c’è nella misura in cui è estremamente difficile riuscire a sensibilizzare la donna al rifiuto di un ruolo che svilisce la dignità personale prospettandole non un’alternativa al suo specifico ruolo casalingo ma, al contrario, un riconoscimento salariale del lavoro peculiare al ruolo stesso. E’ stato fatto notare poi che, se mai il salario dovesse essere concesso, ciò significherebbe allargare la base consumatrice e creare le premesse per un processo inflazionistico ovvero fare l’interesse del capitale, senza riuscire affatto a risolvere il problema della donna che è quello di essere una emarginata. Come tale dovrebbe unirsi alle lotte degli altri emarginati della nostra società, diventare una interlocutrice nel contesto delle lotte sociali che vedono impegnate tutte le forze proletarie per un rinnovamento della società.

Collettivo femminista di Pescara

 

3 il prezzo dell’ambiguità

Attualmente la casalinga sostituisce i servizi sociali che non ci sono. Essa svolge tutte le mansioni domestiche, educa i bambini, assiste gli invalidi, si occupa degli anziani. Coloro che chiedono il salario per la casalinga non si rendono conto che se la richiesta fosse accolta la casalinga continuerebbe ad essere il più diffuso servizio sociale. Lo Stato infatti dovrebbe versare alle casalinghe i soldi che deve impiegare invece per fare gli asili-nido, le scuole materne, le scuole a tempo pieno ed anche tutto ciò che necessita per alleviare le casalinghe dai pesi domestici.

Con la nuova legge sul diritto di famiglia, quella che è ormai in attesa di approvazione dal Senato da più di un anno, la casalinga dovrebbe veder riconosciuto perlomeno il valore del suo lavoro mediante la comunione degli utili e degli acquisti effettuati durante il matrimonio.

Per il resto noi non siamo mai stati fautori del lavoro casalingo, meglio, certo quando è possibile, un lavoro nella produzione se non altro perché esso è apportatore di indipendenza economica e, anche se non in modo automatico, di una presa di coscienza ben diversa da quella che si ha generalmente rimanendo chiusa tutto il giorno fra quattro mura. Dare il salario alla casalinga significa inchiodare le donne al ruolo domestico per sempre mentre gli uomini dovrebbero continuare ad essere gli unici detentori del potere economico, politico, sociale.

Enrica Lucarelli (ResponsabileCommissione Femminile del PSI)

 

4 una richiesta sbagliata

Effe: Il lavoro fuori casa è stato inteso, dall’elaborazione ideologica socialista, alla fine del secolo scorso, come “emancipatore” della donna. Si può ancora oggi sostenere questa tesi? Se ci si riferisce all’elaborazione ideologica socialista della fine del secolo scorso in Italia, credo che non sia così pacifica l’affermazione che “il lavoro è stato inteso come emancipatore della donna”, Anzi, mi pare che in merito al problema donna-emancipazione-lavoro, l’elaborazione -— e la linea politica, soprattutto — del movimento socialista a cavallo tra ‘800 e ‘900 presenti non pochi aspetti contraddittori. Diverso è il caso se ci riferiamo alla concezione rigorosamente marxiana, per la quale il rapporto lavoro-emancipazione in riferimento alla donna è molto chiaro, mediato naturalmente dal concetto centrale al marxismo, dello sfruttamento e del processo (dialettico) di fuoriuscita da esso. In altre parole, il lavoro è, anche per la donna, ingresso nel processo di sfruttamento, ma dunque anche, nello stesso tempo, possibilità di partecipare nella lotta dì classe al processo di liberazione dallo sfruttamento medesimo.

Effe: Negli ultimi due anni i gruppidi “Lotta femminista” hanno portalo avanti l’analisi del lavoro domestico nonretribuito, considerandolo uno dei pilastri se non l’unico, su cui si regge il ostenta capitalistico: infatti il lavoro domestico è alla base della produzione e ^produzione di forza-lavoro (procreazione e allevamento dei figli, cura quotidiana del benessere del lavoratore ecc.). La richiesta di un salario per il lavoro domestico oggi Lotta femminista ha modificato in questo senso lo slogan primitivo di “Soldi alle casalinghe” secondo te è positiva per la donna oggi, oppure è negativa?

La richiesta di un salario per il lavoro domestico nuoce al processo di liberazione della donna, essenzialmente perché esso genera confusione ed ambiguità, com’è il caso di tutti gli obiettivi a un tempo erronei e irraggiungibili (ed erronei, come nel caso in questione, anche perché irraggiungibili). Quanto all’ analisi che vuole essere il lavoro domestico non retribuito “uno dei pilastri, se non l’unico, su cui si regge il sistema capitalistico”, essa mi pare piuttosto approssimativa, come tutte le cosiddette analisi— e sono ormai molte —che impiegano concetti quali capitale, capitalistico, sfruttamento, plusvalore, ecc. fuori da un contesto teorico rigoroso, di cui siano individuabili le matrici e il quadro di riferimento generale. Non mi pare facilissimo dimostrare, ad es., in termini rigorosi, che il lavoro domestico non retribuito sia una componente distintiva del “sistema” capitalistico. Comunque, ciò che non è affatto chiaro è a cosa sarebbe analizzabile un simile obiettivo nel quadro di un progresso del processo collettivo, storico, di emancipazione della donna. Sollevare il problema del lavoro domestico della donna, lavoro non retribuito e non riconosciuto, vuol dire sollevare uno degli aspetti certo centrali della condizione femminile.

Effe: La richiesta di salario per il lavoro domestico può avere lo stesso valore d’urto della consimile richiesta, partita da certi gruppi extraparlamentari, di salario garantito” per tutti? E con inali armi potrebbero battersi le donne (in astratto non soltanto loro ma chiunque svolga lavoro domestico) per ottenere un salario? Quale sarebbe la loro controparte?

Mi pare che a questi quesiti dovrebbero dar risposta coloro che di queste teorie sono gli ideatori e i sostenitori, in quanto qui sitoccano alcuni aspetti essenziali dell’ambiguità della teoria del “salario domestico” e di altre simili richieste. Io non saprei dire se lo slogan del “salario guarnito” per tutti, come qui viene definito (e giustamente, mi pare, dal momento che di uno slogan si tratta più che una teoria) abbia un qualche valore d’urto. D’altra parte, poiché nella dimensione del sociale e del politico, non di gridare più forte si tratta né di elevare, magari su carta, richieste cosiddette “più avanzate”, bensì di incamminare concreti processi nella direzione voluta, allora, a dover giudicare sulla base dei processi concreti — in termini di lotte, alleanze, dibattito, consapevolezza, elaborazione — che lo slogan in questione possa aver prodotto sul terreno e tra i soggetti interessati, e cioè nel Sud e nelle sue popolazioni delle città e delle campagne, devo concludere che il valore d’urto è zero. Se un accostamento comunque va fatto tra “salario domestico” per le casalinghe e “salario garantito” per il “sottoproletariato meridionale”, esso mi pare vada posto in relazione alla sostanziale ambiguità di ambedue le formule proprio sul problema della controparte, su cui insiste appunto la domanda di Effe. Per far risaltare, del resto, la natura fuorviarne del “salario domestico”, basta vedere tale rivendicazione a raffronto con quella dei servizi sociali. L’asilo-nido, la scuola a pieno tempo, le strutture per la maternità e la sessualità femminile, infatti, interessano tutte le donne, quale che sia la loro collocazione sociale. Spostare in direzione delle strutture sociali le scelte di interesse e di investimento di risorse della società, vuol dire quindi prima di tutto imporre il concetto della specificità femminile — cioè la “qualità” materna — come fatto positivo, che non può quindi diventare una ragione di debolezza sociale, base per l’esclusione della donna o il super sfruttamento del suo lavoro. La lotta per ottenere queste strutture non solo non incrina la solidarietà femminile, ma anzi effettivamente la costruisce, e poiché è lotta complessa e articolata, che implica vari livelli e diverse controparti, essa sollecita e richiede la creatività e il senso di partecipazione delle donne. Nello stesso tempo, si tratta anche di strutture che attaccano, sotto il profilo formativo, culturale e sociale, le barriere di classe e che, per la loro caratteristica di strutture socializzanti, trasformano positivamente la pratica di vita individualistica e familistica, che tanto nuoce anche alla donna in particolare in Italia. La rivendicazione dei servizi sociali è dunque in grado di sorreggere un effettivo processo in termini reali, e lo ha già provato.

Effe: Secondo Lotta Femminista la richiesta di salario servirebbe come momento unificante per tutte le donne, le quali sono tutte anche quelle che lavorano fuori casa casalinghe, e per la loro specifica condizione, essendo l’una isolata dall’altra, tra le quattro mura domestiche, difficilmente riescono a formare una massa compatta disponibile a battersisu obiettivi comuni? Sei d’accordo con questa tesi?

Non sono d’accordo, perché, per le ragioni già dette, non credo che la richiesta di salario per il lavoro domestico sia in primo luogo un obiettivo, e cioè una rivendicazione tale da sorreggere un movimento di lotta, con finalità giuste, articolate, unitarie, mobilitanti. Come tutti i motivi di confusione, non potrà servire certo — e infatti non serve — a rompere l’isolamento della donna, che è in primo luogo un isolamento interiore, come incapacità e difficoltà a passare dalla dimensione individuale, familistica, a una dimensione sociale e collettiva dei problemi. Effe: ha pressione per ottenere soldi in cambio del lavoro domestico potrebbe essere utile, come sostiene LF, per ottenere, in alternativa, servizi sociali davvero efficienti?

Non mi è chiaro come una rivendicazione sbagliata, che — ripeto — non definisceneppure un vero obiettivo e non crea un movimento di lotta, ma avalla solo confusioni e ambiguità, possa essere utile per sostenere un obiettivo giusto, che non ha quindi nulla da guadagnare dalla creazione di falsi schermi. Anche ipotizzando che possa essere opportuno fare del “salario domestico” un motivo di propaganda per sollevare il problema della “divisione dei ruoli” — come l’ha definita l’UDI al suo IX Congresso — bisognerebbe porsi il problema di quali effettivi canali di propaganda (di massa, intendo) possano avere le donne al di fuori del movimento che sono capaci di creare sui loro obiettivi e con le loro lotte. Ma ritorniamo allora alla necessità di prospettare una visione coerente del processo di emancipazione e di individuare quegli obiettivi che sono capaci di metterlo realmente in moto, come uno dei processi portanti della contemporaneità storica.

Margherita Repetto (Unione Donne Italiane)