salario alle casalinghe?

marzo 1974

«II lavoro domestico lo facciamo tutte, e tutte gratuitamente, le casalinghe, le donne che hanno anche un lavoro esterno, le lavoranti a domicilio, le donne costrette a fare le prostitute, le bambine, le ragazze, le donne anziane. Cominciamo a pretendere che ci venga pagato dallo Stato. Cominciamo a pretendere di non essere più trattate come schiave che lavorano gratis, ma come donne che lavorano dentro ogni casa» (dal «Volantone» di Lotta Femminista). Su questo manifesto di Lotta Femminista per il salario alle casalinghe sviluppato, peraltro, in un documento di cui pubblicheremo la prima parte il prossimo numero — Effe apre qui di seguito un dibattito: il primo giro di interventi si è svolto in redazione, vi hanno partecipato Lara Foletti, redattrice del giornale e appartenente al movimento femminista romano: Giuseppina Santilli, Rosalba Pistelli, Giovanna Pala, dello stesso movimento; Lucianna Di Lello, del collettivo femminista comunista romano: Dita Di Gioacchino, collaboratrice di Effe; Lidia Menapace, redattrice de II Manifesto. Tutti gli interventi, coordinati da Adele Cambria, sono a carattere personale. Alle stesse domande proposte nel dibattito, hanno risposto anche, intervistate da Effe, Margherita Repetto del direttivo dell’UDI e Patrizia Carrano, redattrice di Noi Donne. Enrica Lucarelli, responsabile della Sezione femminile del PSI, ha fatto pervenire al giornale, che glielo aveva richiesto, un suo breve intervento.

Pubblichiamo quindi in questo numero di Effe il resoconto del dibattito. Le due interviste e lo scritto dello responsabile femminile del PSI saranno pubblicate sul prossimo numero di Effe. Altro materiale sul tema del salario per il lavoro domestico (la più recente e corretta formulazione introdotta da LF) sarà pubblicato man mano che ci perverrà in redazione. Il più recente documento sii salario di LF è reperibile presso il Centro delle Donne, Piazza Eremitani 9 bis, Padova.

 

Adele: Mi sembra che alla radice dell’analisi, portata avanti da Lotta Femminista, sul lavoro domestico, vi sia una contestazione di fondo alla concezione marxista originaria, secondo cui il lavoro fuori di casa è alla base della «emancipazione» femminile.

prima domanda: Si può ancora oggi ritenere che il lavoro fuori di casa emancipi la donna, o si deve invece pensare che il lavoro, com’è concepito e svolto nell’attuale sistema, cioè lavoro non creativo, ma piuttosto coattivo, non emancipi, alla fin fine, né la donna né l’uomo?

Lidia In questa organizzazione sociale né il lavoro casalingo; né il lavoro esterno, liberano ovviamente la donna. Uso il termine di «liberazione» e non di «emancipazione», perché, non a caso, quest’ultimo è rifiutato come riduttivo e insufficiente. Quando il movimento operaio, sull’onda delle affermazioni di Engels, lottò, all’inizio del secolo, per il lavoro esterno come elemento che emancipa la donna, nelle condizioni storiche di allora ciò, io ritengo, era vero: il lavoro esterno, infatti, dava la possibilità alla donna di disporre di un minimo di indipendenza economica, o anche puramente e semplicemente la possibilità di superare l’assoluta scarsità, la miseria, non dico attraverso la conquista di uno status di liberazione complessiva, ma soltanto come base di una sopravvivenza personale un po’ meno dipendente (non dico: indipendente): il lavoro fuori casa poteva allora servire anche al ritrovamento di una identità, per la donna, un modo per separarsi, come persona, dal nucleo familiare. Oggi tutto questo non è più così vero. Teniamo dunque conto che le condizioni storiche sono mutate da allora, e come è assurdo «imputare» al pensiero marxista in generale la tesi che il lavoro esterno «emancipa» sempre, così sarebbe assurdo oggi sostenere che esso non ha alcuna influenza sulla formazione di una coscienza femminista. Detto questo aggiungo: è molto apprezzabile, al di là delle proposte operative sulle quali si può essere d’accordo o no, la correttezza delle analisi delle compagne di Lotta Femminista, e il loro sforzo di situarle sempre in un orizzonte politico generale. Hanno ragione quando dicono che non è il femminismo che ha voluto gli asili-nido, così come non è il femminismo che ha voluto il lavoro esterno femminile. Ma, aggiungono giustamente, se gli asili-nido ci sono, nella misura che sappiamo… non si vede perché vengano negati ai bambini delle casalinghe, E lo stesso per il lavoro esterno delle donne. Esiste ormai, è un dato. D’accordo tutti, che in una società così di merda come questa, il lavoro non libera nessuno, ma allora, chiedo alle compagne di LF, dobbiamo assistere senza reagire al tentativo di rimandare il maggior numero di donne occupate a casa? A questo punto mi sento di difendere l’occupazione esterna femminile che c’è, nell’ambito generale della difesa dell’occupazione, tanto più che la difesa dell’occupazione fuori casa della donna e la difesa del segmento più debole degli occupati, cioè di quelli che vengono rinviati a casa senza il minimo scrupolo, non pesano nemmeno nelle liste di collocamento e nelle statistiche, perché la donna lavoratrice licenziata ridiventa all’istante una casalinga. Non solo, ma c’è il vantaggio che rinviando le donne a casa si diminuisce la pressione per ottenere servizi sociali efficienti. Andate a vedere perché si preferisce licenziare la donna e troverete che la ragione di fondo è che la donna licenziata non costituisce un problema sociale, non determina una tensione sociale acuta, tanto rientra in famiglia ed alimenta ancora l’ideologia della «missione domestica e familiare» della donna, più o meno riverniciata dai giornali femminili borghesi, che come l’ultimo, «Brava», vogliono perfino solleticare la «creatività» del lavoro casalingo.

Lara: Quando parliamo della donna, e parliamo pure tenendo presente il momento storico, come suggerisci tu, non possiamo non dimenticare il significato che hanno oggi per noi femministe i due termini di «emancipazione» e «liberazione». L’emancipazione è stata sempre riferita, purtroppo, a un modello che era il maschio: per cui le famose lotte paritarie, il dire che la donna doveva uscire di casa, doveva lavorare, doveva istruirsi, per diventare come il maschio. Mentre per quel che riguarda specificamente il lavoro esterno della donna, essa doveva avere salario uguale all’uomo, andare all’università come l’uomo eccetera. Oggi noi non parliamo di emancipazione, parliamo di liberazione: noi dobbiamo liberare noi stesse non soltanto rispetto all’uomo ma rispetto ad una società, un sistema che ci soffocano, un costume che ci reprime. Ciò purtroppo non significa che i traguardi proposti con l’emancipazione, per sbagliati che fossero, come impostazione ideologica, siano stati raggiunti: di fatto ci troviamo in una situazione che è di poco cambiata da allora: vai a lavorare fuori casa, ti sfruttano finché servi, poi ti rimandano a casa, vai all’università, ma per fare cosa? l’insegnante, ecc. ecc.

Per arrivare al punto che ci interessa, si può dire che oggi come oggi, lavoro domestico e lavoro extra-domestico non significano altro, per la donna, che la conferma imposta al suo ruolo: perché anche se va a lavorare fuori casa, il lavoro di casa tocca comunque a lei, a meno che non si faccia sostituire, spendendo i suoi propri personali guadagni, da un’altra donna super-dequalificata. Adele: La proposta di LF, dunque, cioè il salario per il lavoro domestico, è una richiesta positiva o negativa, nel processo di liberazione della donna?

Lara: Dare il salario alla casalinga significa che il momento di liberazione nei confronti dell’uomo, della famiglia e della società non scatta, che il suo ruolo rimane quello. Le femministe, e non soltanto le compagne di LF, sono state le prime a sostenere che la donna di cui si dice «non fa niente», cioè che sta a casa, lavora come e più dell’uomo. Soltanto che a lei è stato devoluto il lavoro casalingo, sulla base di una divisione del lavoro compiuto per mezzo della discriminante del sesso. Così come è stato per i negri, la cui discriminante è stata la razza. Ma io negro non voglio essere pagato di più per pulire le scarpe al bianco, voglio semplicemente non pulirgliele in quanto negro. Così io non voglio fare i lavori di casa soltanto perché ho una vagina, perché ho un utero, e sono capace di fare figli… Quindi, in linea di principio, no al salario per il lavoro domestico.

Giuseppina: Naturalmente si può pensare che il salario per il lavoro domestico sia inopportuno, in un discorso femminista, perché il lavoro domestico attribuito semplicemente alla donna, va abolito e basta. Ma se intanto questo lavoro esiste e lo svolge esclusivamente la donna, mi pare fuori di dubbio che debba essere pagato come qualsiasi altro lavoro. Infatti il lavoro domestico non è altro che la manutenzione della forza-lavoro occupata e la produzione e l’allevamento della forza-lavoro di domani. Quindi la remunerazione del lavoro domestico dovrebbe essere a carico, in primo luogo, di chi utilizza tale forza-lavoro, e cioè dei datori di lavoro, dell’impresa privata e pubblica…

Lara: Io sono d’accordo che di fatto esiste un lavoro casalingo che schiavizza la donna: ma è per l’appunto, non solo un lavoro, è una condizione, un ruolo. La donna in casa non lava solo i piatti, gratifica il marito ecc. E a una condizione umana, a un ruolo, non può corrispondere un salario, ma soltanto la rivolta contro questo ruolo schiavizzante. Vogliamo fare il discorso economico? Facciamolo, non siamo mica tanto fesse da decidere di continuare a lavorare in casa gratis per sempre… Facciamolo ma tenendo presenti i rischi che corrono e che hanno corso le donne ogni volta che si sono fatte impaniare in una rivendicazione puramente economica. Il femminismo è un discorso globale, non può essere ridotto ad alcuni punti: aborto, sessualità, salario e così via. Per cui se vogliamo soldi, come è giusto, non li leghiamo al concetto di salario per il lavoro domestico che ci relega per sempre dentro casa, mentre vogliamo uscirne: leghiamo invece questa richiesta al concetto di risarcimento danni: è un’idea che mi è venuta in mente considerando come, due anni fa, mi pare, trecento donne americane intentarono un processo allo Stato di New York chiedendo il risarcimento danni per essere state costrette ad abortire clandestinamente (allora l’aborto non era ancora stato legalizzato, e fu anzi proprio questo processo ad affrettare le cose…). Allora chiediamo un risarcimento danni per essere state discriminate e schiavizzate come donne per avere subito una educazione deformante ecc. ecc. Questa può essere una lotta da portare avanti in aiuto alle casalinghe, separandola però dal concetto della inevitabilità del lavoro di casa svolto dalla donna.

Rita: Io sono d’accordo con Lara sul no al salario.

Mi domando: è un obiettivo riformistico, o demagogico cioè utopistico? Riformistico oggi non può essere perché con la crisi in atto tutti I miliardi che si dovrebbero sborsare per pagare i dodici milioni di casalinghe italiane, chi li tira fuori? È quindi oggi come oggi un obiettivo puramente demagogico, uno slogan.

Seconda domanda: A chi chiedere il salario? Ai padroni? Allo Stato? O al padrone reale della donna che è sempre il marito? Il rapporto marito-moglie è forse l’ultimo rapporto feudale sopravvissuto nel mondo contemporaneo. Nella famiglia la donna fornisce tutta la manodopera e ne ha in cambio la sopravvivenza, con qualcosa in più (o in meno). Figuriamoci se lo Stato, che ha tutto l’interesse, essendo patriarcale e capitalistico, alla durevolezza della famiglia come istituzione, si prende la briga di pagare le casalinghe!

Giuseppina: Io penso che sarebbe estremamente difficile strappare ai datori di lavoro una parte dei loro profitti, facendo pagare da loro direttamente il salario alle casalinghe. Non resterebbe altro che chiederlo allo Stato: lo Stato ha già assunto in proprio la spesa dell’istruzione, cioè della formazione professionale della forza-lavoro, sarebbe un completamento più che ragionevole fargli sostenere anche le spese della procreazione-produzione e della cura della forza-lavoro. Analogamente lo Stato potrebbe assumersi i costi dell’assistenza agli anziani e agli handicappati, dato che in pratica ha già assunto in proprio l’assistenza pubblica.

Rita: Al massimo ci concederanno una truffa come quella della cosiddetta pensione alle casalinghe, tanto reclamizzata un paio d’anni fa: le .’casalinghe la pensione ce l’hanno soltanto se i contributi se li pagano loro, per tutta la vita fino alla vecchiaia.,. Qualsiasi società di assicurazioni potrebbe farlo. Allora, siccome è impossibile ora come ora che lo Stato paghi un salario per il lavoro domestico; siccome è altrettanto impensabile che una legge obblighi i mariti a passarci il salario, non è più concreto batterci per obiettivi, magari riformisti, ma più realizzabili, tipo l’asilo-nido, le lavanderie centralizzate ecc.?

Giuseppina: D’accordo, però una volta che tu hai costruito un movimento di massa sulla base della richiesta del salario per il lavoro domestico, potrai trattare in posizione di forza. Dire: va bene, non ci date il salario, allora ci dovete dare servizi sociali efficienti…

Adele: Cioè tu dici che la pressione di massa per ottenere dallo Stato soldi in cambio di lavoro domestico, sarebbe utile per ottenere, almeno, servizi sociali efficienti e anche, come sostiene LF, un maggior potere decisionale alle donne per quel che riguarda la procreazione, e quindi aborto libero, anticoncezionali liberi e gratuiti, garanzie per le ragazze-madri?

Giuseppina: Dico per l’appunto questo, che fino a quando continueremo a lavorare gratis, isolate nelle nostre casette, i servizi sociali non ce li daranno mai, infatti perché dovrebbero? È lo stesso per l’aborto e tutto il resto, tanto i figli ce li sobbarchiamo noi, in ogni senso, e gratuitamente.

Adele: Accertato che oggi un salario per il lavoro domestico non ce lo dà nessuno può avere questo slogan del salario per il lavoro domestico almeno un valore analogo a quello che alcuni gruppi extraparlamentari ai sinistra attribuiscono allo slogan «salario garantito per tutti», coniato specialmente per i sottoproletari meridionali?

Rita: Ma il disoccupato meridionale è qualcuno che, in quanto uomo, un lavoro o l’ha già avuto o comunque ha diritto di averlo, in quanto uomo. La casalinga no, è una che, per il fatto di essere donna, non ha, in certo qual modo, diritto al lavoro extra-domestico.

Lucianna: E poi, anche se posso avere i miei dubbi sul fatto che il sottoproletariato meridionale, il lumpen-proletariat, possa diventare un soggetto rivoluzionario, escludo che oggi lo possa diventare la casalinga: la casalinga come soggetto politico non esiste: se si deve cominciare a fare un lavoro politico, con una pratica di obiettivi, bisogna fare i conti con delle organizzazioni di donne già esistenti, con i gruppi femministi e, più in generale, con donne che siano sì casalinghe ma lavorino anche fuori casa. Le casalinghe rappresentano invece quello strato di donne che verrà raggiunto, a macchia d’olio, quando ci sarà un livello organizzativo molto più «politico» di quello che c’è oggi in alcune associazioni e gruppi di donne che per il momento sono solo, per così dire, «emancipate».

Adele: Comunque anche ammettendo che tutte le casalinghe si rendano conto di essere sfruttate e ne provino rabbia, di quali armi disporrebbero? Se i disoccupati di Castellammare di Stabia o di Reggio Calabria possono fare le barricate, come possono protestare le casalinghe? È ipotizzabile uno sciopero delle donne che non cada nel grottesco? Di quali armi contrattuali disporrebbero le casalinghe?

Giuseppina: Certo non sarebbe molto facile inventare una strategia di lotta. Io penso che ad ogni modo uno sciopero generale delle donne sarebbe una prova di forza spettacolare… Anche se non potrebbe essere altro che simbolico, perché le conseguenze colpirebbero i più deboli: i bambini, gli ammalati, i vecchi. Però se un giorno tutte le donne andassero alle fabbriche dove lavorano i mariti e gli lasciassero i bambini sulle braccia….

Lara: Sarebbe uno sciopero contro i mariti, non contro lo Stato. Al Quirinale si dovrebbero portare i bambini, al presidente Leone…

Adele: Questo che dice Lara, a parte gli scherzi, mi sembra un problema da porsi. Giuseppina ha già detto che la controparte delle casalinghe, in questa loro richiesta di salario, sarebbe lo Stato. Ma perché non ci chiediamo, come già ci ha chiesto Rita: e l’uomo, allora? Il marito, il fratello, il padre ecc.?

Giuseppina: Infatti, esiste una complicità reale tra il maschio, il nostro padrone diretto dentro casa, e lo Stato capitalistico, patriarcale e borghese.

Lara: Il fatto è, per esempio, che quando io stavo con i miei, lustravo le scarpe a mio fratello e continuavo a lustrargliele non soltanto quando andava a lavorare nei campi, ma anche quando era disoccupato. Gliele lustravo puramente e semplicemente per la sua qualità di maschio. Allora dico: «Facciamo pagare a tutta la collettività maschile questa nostra condizione». Teniamo presente che il padrone che ci sfrutta non è solo quello del lavoro extradomestico. Il «primo» (e il più antico) che ci sfrutta storicamente è il maschio patriarcale, quello cioè che ci sfrutta all’interno della famiglia, che sfrutta la nostra sessualità, la nostra maternità, il nostro lavoro in casa, la nostra -creatività. Coinvolgiamo gli uomini, i lavoratori, nella nostra lotta; pretendano gli operai delle fabbriche i servizi sociali collettivizzati (dove anche il maschio venga coinvolto), e finché lo Stato non glieli dà imparino a condividere con noi il peso della manutenzione quotidiana e della riproduzione della forza-lavoro. E imparino soprattutto a spartire con noi il tempo libero. Troppo comodo sarebbe per loro se noi scendessimo in piazza chiedendo un salario per il lavoro domestico, in modo che a loro

non cambia niente, della loro comodità, e anzi possano far conto anche sul salario della moglie-schiava. Per cui sono convinta che allo slogan «salario per il lavoro domestico» sarebbero i maschi i primi ad applaudire.] che brave «’ste femministe!»…

Lucianna: Io mi chiedo perché, dopo il ’68, la scuola è diventata un problema operaio, e perché invece l’aborto non lo è ancora diventato. E quando io dico che l’aborto deve diventare un problema operaio, questo non significa delegare il movimento operaio a chiedere per noi l’aborto libero: questo significa (l’aborto è solo un esempio) rivoluzionare i contenuti della lotta di classe. Lo possiamo fare noi, a livello femminista, chiedendo che l’uomo condivida con noi le cure della riproduzione della specie, che non continui a scaricare la sua sessualità sopra di noi, il controllo dei suoi spermatozoi su di noi, il parto su di noi l’aborto su di noi…

Giovanna: Perché la donna che lavora fuori casa ed ha diritto alla licenza post-partum, non può rinunciarvi chiedendo che tale licenza, invece, venga data al suo compagno? Chiunque può imparare a nutrire un neonato col biberon, e questo genere di leggi, apparentemente favorevoli alla donna, si risolvono in ostacoli gravissimi per noi, quando cerchiamo lavoro: non ci assumono, per timore che facciamo figli e loro ci devono pagare lo stesso, senza che noi lavoriamo. Chiediamo invece la licenza di paternità per gli uomini! E perché poi i pochi asili-nido che ci sono, ci sono soltanto nelle fabbriche in cui lavorano le donne? E i padri non esistono? Non possono portarsi loro i bambini agli asili-nido delle loro fabbriche?

Giuseppina: Io lavoro, nella mia azienda non c’è l’asilo-nido, però c’è in quella in cui lavora mio marito. Però i nostri figli non hanno il diritto di andare nell’asilo della fabbrica del padre…

Giovanna: L’uomo, qualsiasi uomo, è complice del capitale e continuerà ad esserlo fino a quando non rimetterà in discussione il suo ruolo: quindi, licenza di paternità, asili-nido nei posti di lavoro degli uomini, anticoncezionali maschili…

Adele: Stabilito che, mi pare, non è chiaramente identificabile la controparte a cui chiedere il salario per il lavoro domestico, chiediamoci se, comunque, sarebbe un vantaggio o uno svantaggio, per noi, monetizzare il nostro lavoro di casa, trasformarlo da valore d’uso in valore di scambio. In parole povere: ci conviene dare un prezzo, stabilire una tariffa, per tutto quello che facciamo in casa? Lucianna: La donna, a differenza dell’uomo, in questa società, non è detentrice di forza-lavoro, perlomeno quando è inserita soltanto nella struttura della famiglia. È lo stesso Marx a dire che l’operaio vende moglie e figli al capitale, quando è costretto a farli lavorare fuori casa. Ed è per questo che nell’ambito stesso dei rapporti sociali capitalistici vi è una attività, come questa del lavoro domestico, che pur essendo un aspetto della divisione del lavoro, non può essere «oggettivata» in un’analisi quale  quella proposta da Marx nel Capitale.

Adele: Tu vuoi dire che il lavoro domestico non produce ricchezza?

Lucianna: Marxianamente no: produce valori d’uso e non valori di scambio.

Lidia: Lavoro improduttivo, come è quello domestico, non vuol dire lavoro inutile, ma lavoro non permutabile in danaro.

Adele: Io questo non riesco a capirlo: ogni singolo gesto della donna che lavora in casa ha il suo prezzo: se la casalinga non cucina, bisogna andare al ristorante, se non lava la biancheria, bisogna portarla alla lavanderia ecc.

Lidia: Ma tutto ciò non ha valore di scambio.

Giuseppina: Sembra che non l’abbia perché a tutt’oggi il lavoro domestico non è retribuito. Non è retribuito, s’intende, quando è fatto «per amore», cioè dalla donna sposata, dalla figlia, dalla madre ecc. Ma se invece assumi una domestica è lavoro pienamente retribuito, come si sa.

Lucianna: In termini concreti, a me pare che Lotta Femminista non si sia chiesto che significa lavoro socialmente necessario, qual è il lavoro domestico, rispetto al lavoro sociale, cioè ai rapporti di produzione. Questa è un’analisi ancora tutta da fare, e porterebbe anche a chiarire che cosa significa oggi essere una donna «che non lavora», tra virgolette, cioè che cosa significa, per una donna oggi, essere fuori dai rapporti sociali capitalistici, pur vivendo in una realtà che in tutta la sua fenomenologia si basa sul lavoro sociale e cioè sui rapporti di produzione capitalistici. In parole povere, infine, il lavoro del metalmeccanico è un lavoro sociale, cioè produttivo di plusvalore, il lavoro domestico, pur essendo socialmente necessario, non produce plus-valore.

Lidia: Per cui, anche se è monetizzabile (perché se la casalinga., non lo fa, bisogna pagare trattorie, lavanderie ecc.) il lavoro domestico non entra nel mercato del lavoro.

Rosalba: Ma nulla avrà mai valore contrattuale, se lo si separa dal concetto di retribuzione. Finché la casalinga continua a lavorare gratis, il suo fare cucina non entra certamente nel mercato del lavoro: eppure il lavoro di tutte le casalinghe messe insieme fa risparmiare allo Stato fior di miliardi.

Giuseppina: Si dice infatti che un uomo che sposa la sua governante abbassa il . livello del reddito nazionale perché non le dà più uno stipendio, e quindi c’è uno stipendio in meno da computare per stabilire qual è il reddito medio del cittadino.

Lidia: Diceva Lucianna, criticando le posizioni di LF, che la loro analisi è carente, perché non approfondisce la distinzione tra lavoro socialmente utile, ed improduttivo, e lavoro sociale, o produttivo. È da qui che bisogna partire se non si vuole finire in soluzioni individualistiche, come quella del salario alle casalinghe. Anche perché — certamente non in questo momento di crisi, e non a livello planetario, ma in un punto alto dello sviluppo capitalistico non è affatto escluso che lo Stato trovi opportuno pagare un salario alle casalinghe, rafforzando così la funzione conservatrice della famiglia. Se questo si verificasse, il mutamento di segno del lavoro domestico, da valore d’uso in valore di scambio, significherebbe soltanto che tu, casalinga, fai un contratto individuale, ricevi il tuo piccolo salario, entri, riconfermandolo, nel mercato capitalistico…

Rosalba: Ma perché un contratto individuale? Se siamo milioni di casalinghe!

Lidia: Non conta, il rapporto è sempre di uno verso uno, casalinga-Stato, non è possibile una contrattazione collettiva…

Adele: Ma perché in ipotesi non si potrebbe andare ad una contrattazione collettiva?

Lidia: Perché tu, casalinga, non hai un luogo di aggregazione, come la fabbrica, sei riconfermata, col salario, in un lavoro svolto per la tua singola famiglia, non per la società. Inoltre se lo Stato borghese, in un momento della sua storia, trovasse utile remunerare la casalinga, come ho già detto, lo farebbe soprattutto perché tende a restringere la base produttiva, e ad alimentare sacche crescenti di parassitismo. In sostanza, può convenire di più per il profitto, sfruttare moltissimo i pochi che lavorano e dare più o meno miserabili sussidi di disoccupazione, borse di studio, soldo militare, salario alle casalinghe. Questo consente anche al sistema di concentrare tutta la ricerca scientifica sui settori trainanti per lo sviluppo capitalistico evitando gli investimenti in altri settori. È la ragione per cui non si dà alcuna reale applicazione nella ricerca scientifica nel settore dei consumi collettivi, non si porta avanti nessuna analisi su quanta parte del lavoro casalingo sia oggi del tutto arretrata, inutile, parassitaria, rispetto alle possibilità fornite dallo sviluppo delle forze produttive e della tecnica.

Adele: In sostanza il sistema, tu dici, preferirebbe sempre pagarsi il lusso di una domestica tuttofare per ogni lavoratore… magari, alla fin fine, retribuendola in qualche modo…

Lidia: Ma andiamo al nocciolo della questione che ci interessa: conviene alla casalinga trasformare il suo lavoro da valore d’uso a valore di scambio? Ci è utile realizzare una serie di rapporti contrattuali che, di fatto, ci fanno entrare nel mercato capitalistico, come casalinghe, e ci mercificano? Io credo che noi possiamo proporre altri obiettivi: per cominciare, come diceva Lucianna, possiamo proporci di fare una analisi molto precisa dell’utilità reale del lavoro svolto dalla donna-famiglia. Allora sarà possibile proporre la rimessa in questione di tutto il modo capitalistico di produzione, ed ovviamente, potremo investire, dei nostri problemi, i metalmeccanici. Ma non perché chiedano soltanto più soldi o magari più tempo libero, ma perché contestino l’intero modo di produzione capitalistico, con i suoi squilibri tra settore e settore, con il suo spreco sociale, con la sua ideologia familistica. Comunque per concludere volevo sottolineare un altro elemento per il quale sono contraria, non soltanto in linea di principio, ma soprattutto in questo periodo a che si faccia una campagna per il salario da dare a chi svolge lavoro domestico: di fatto, cioè, per il salario alla casa-linea. Se riporto infatti questa richiesta all’attuale momento di crisi ed alla scadenza del referendum sul divorzio, trovo stra-pericolosissimo qualsiasi obiettivo che, anche indipendentemente dalla volontà di chi lo propone, può prestarsi ad una riconferma del ruolo familiare della donna: casalinga, magari retribuita a trenta massimo ottantamila lire mensili, legata indissolubilmente in matrimonio ecc. ecc.

Al contrario, penso che le organizzazioni femministe dovrebbero individuare il nesso tra questi due elementi, la crisi economica ed il referendum sul divorzio. Esiste una identica ideologia alla base delle misure prese per fronteggiare (dicono) la crisi, e alla base del referendum. Ed è una ideologia contro la donna: si rilancia l’austerità (per chi non ha soldi), le serate in casa, le domeniche in famiglia o in bicicletta, e, insieme, si va al confronto sull’importanza della famiglia e della sua, non dico stabilità, ma addirittura indissolubilità.

La crisi c’è ma si affronta lavorando per costruire una alternativa che butti all’aria questo sistema sociale, non confinando le donne in casa a cucinare, lavorare all’uncinetto, e, contemporaneamente, negando loro la possibilità di una presa di coscienza che passa anche attraverso il divorzio, pur con tutti i limiti della legge Fortuna.

Rosalba: Io però vorrei portare a questo dibattito la mia esperienza personale. Noi siamo quattro sorelle, di famiglia povera. Io mi sono accorta, attraverso la mia presa di coscienza, di essere sfruttata, in quanto appartenente al proletariato, e quindi c’è stato il mio avvicinamento al marxismo. Ma ho subito capito di essere sfruttata non soltanto come proletaria, ma anche come donna. Anzi vi dico che la prima oppressione mia era ed è quella di essere donna in una società maschile sciovinista e capitalista. Io non sono sposata e voglio raccontarvi qual è la vita delle mie tre sorelle tutte sposate. La più grande ha quarant’anni, due figlie già grandi, ha sempre fatto la casalinga e la sarta, cioè ha passato la vita chiusa in casa. Oggi passa da un esaurimento all’altro perché si sente sola, le figlie sono cresciute, il marito si fa i fatti suoi, si sente talmente sola che mi ha confidato che non fa la spesa tutta in una volta la mattina, ma compra una cosa alla volta per avere la scusa di uscire, di incontrare qualcuno, di parlare sia pure col pizzicarolo, con la fruttivendola… L’altra mia sorella ha trentatré anni e cinque figli. Anche lei ha cominciato la sua vita di sposa con l’amore, però ora mi dice: il mio scopo nella vita sai qual è? Quello di riuscire a lavarmi tutti i giorni! Tanto le danno da tare i figli piccoli e la casa e il marito, che la sua massima ambizione è di riuscire a mantenere un minimo di dignità come persona. Lavarsi.

La terza sorella lavora in casa e fuori, il che significa che è sfruttata due volte, perché la donna fa sempre il doppio lavoro, non è come l’uomo che quando ha finito timbra il cartellino e va a spasso. Se poi per caso sei una proletaria, per allettarti, perché hanno bisogno pure del tuo pochissimo guadagno, ti inventano i bisogni: il gioiello finto, la pelliccia semivera, la lavastoviglie ecc. Questa mia sorella è morta dalla fatica, ma resiste sperando di comprarsi per l’appunto la lavastoviglie.

Ora io dico: pensare che la vita di queste donne possa essere risarcita con un salario di massimo ottantamila lire al mese, è un insulto. Però parlare con loro, fargli capire come sono sfruttate in casa, secondo me questo è fare politica, in concreto. Per me, indipendentemente dall’essere favorevoli o contrarie al salario, che poi si vedrà, è già positivo che se ne parli, che si metta in discussione il ruolo della donna nella famiglia. Non è che io voglio fare politica andando dalle donne a dirgli: se state con noi vi facciamo avere un poco di soldi. No, è la presa di coscienza che voglio stimolare in loro, voglio che si rendano conto che questo lavoro di merda non lo fanno né per amore, né perché è nella loro ‘natura’, né perché Dio lo vuole. E gradualmente, adempiendo a un compito che sarebbe poi quello che dovrebbero avere i partiti che si dicono rivoluzionari, in un modo o nell’altro, noi femministe dovremmo portare le donne ad ottenere non le ottantamila lire al mese,’ che non risolvono niente, ma a prendere coscienza, a capire che la famiglia non è soltanto in funzione dello sfruttamento capitalista, ma è la base patriarcale della oppressione della donna. Noi donne siamo le uniche che possiamo distruggere questo tipo di famiglia storica basata sul potere dell’uomo sulla donna, e di conseguenza sul potere dell’uomo sull’uomo, e attuare quindi la vera rivoluzione.

Presa di coscienza, rabbia e ribellione: così io vedo il discorso sul salario per il lavoro domestico, proprio come discorso politico.