se la scienza è potere

la donna non conta

febbraio 1974

Il Consiglio Nazionale delle Ricerche nella sua struttura combinata di personale scientifico-tecnico e personale amministrativo presenta un quadro esemplare di quella che viene chiamata la divisione del lavoro in base al sesso. L’immagine-tipo del ruolo professionale nel cosiddetto lavoro creativo è tuttora quella del ricercatore. I valori connessi a questa immagine-tipo sono il rendimento e il prestigio anche se le uniche capacità che contano sono quelle di una manovalanza intellettuale necessaria a mantenere uno stato di subordinazione scientifica rispetto alle baronie universitarie.

Ma valori puramente sociali quali sono ora il rendimento e il prestigio del ricercatore oltre a stabilire differenze salariali e normative tra personale scientifico e personale amministrativo (classismo culturale) funzionano da blocco ideologico per l’accesso da parte delle donne nel mondo ancora mitico della ricerca scientifica. La concezione differenziale delle attività maschili e delle attività femminili è infatti alla base della diffusa accettazione che lo scienziato sia di sesso maschile. Ne consegue che «il sapere», necessariamente riconosciuto oggi come accessibile alle donne, viene dissociato sempre da un esercizio del potere, anche soltanto culturale, assegnato invece quasi esclusivamente all’uomo. Questa è la ragione per cui in una formazione elitaria quale quella dei ricercatori il numero delle donne costituisce una minoranza molto rilevante. Infatti al CNR su un totale di 1622 ricercatori 1273 sono uomini e solo 349 donne.

In base poi alle qualifiche la discriminazione tra «maschi» e «femmine» è lampante al momento delle assunzioni, regolate in genere da leggi di clientelismo accademico. Ti primo livello di carriera quello corrispondente al grado Ji «aspirante ricercatore», su un totale di 208 unità, registra 153 uomini e 55 donne. Questo dimostra che la «mortalità scientifica» dei borsisti e di tutti quelli che in istituti, laboratori e centri di ricerca lavorano come «precari» in attesa di posti a concorso, colpisce soprattutto le donne. E si capisce perché: nell’assunzione del personale scientifico semmai prevalgano criteri valutanti attitudini o capacità, questi criteri per la donna, a parità di qualificazione con l’uomo, si risolvono in stereotipi culturali che negano alla donna innanzitutto attitudini o capacità «naturali» per la scienza e la tecnologia. Potrebbe sembrare un paradosso se non fosse vero che questo avviene perché (e lo dice Lévi-Strauss!) «le ultime vestigia di trascendenza di cui disponga il pensiero moderno si arroccano proprio nei concetti biologici». Si arriva infatti a questo assurdo: la donna in quanto «femmina» viene respinta dal mondo della scienza perché non avrebbe le doti caratteriali «maschili» quali la razionalità, la tenacia, l’aggressività, l’ambizione, la competitività, il senso di responsabilità, capacità di decisione e altre «virtù attive» (ma i progressisti illuminati dovrebbero nutrire ormai dei dubbi se si tratti di doti «naturali» maschili e non piuttosto del risultato storico di una oculata socializzazione). Cosicché oggi il cliché della donna-scienziato è ancora quello della virago intellettuale che, assumendo modelli culturali maschili (conservi pure «femminilità» di aspetto), rinuncia a realizzare nella famiglia il suo presunto destino biologico. Ma in quanto «femmina» l’unico valore sociale che la definisce è proprio quello di moglie e di madre, che la esclude da una partecipazione completa alla vita produttiva. La donna nella sua duplice posizione sociale e nel suo duplice ruolo di moglie-madre e di lavoratrice viene così eliminata o si auto elimina da uno status professionale con attività, interessi e impegni tutti al di fuori della sfera familiare. L’identità della donna nel mondo della ricerca è dunque quella dell’eunuco femmina con tutta la negatività del giudizio sociale per chi deroga da quelle che sono considerate le sue funzioni primarie, a quelle appunto di moglie e di madre. Vediamo allora quali sono i compiti «naturali» assegnati alla donna per realizzare un destino che le viene imposto come altrettanto «naturale». In un articolo apparso sulla. Monthly Review nel settembre del 1969, intitolato «The Political Economy of “Women’s Liberation», Margaret Benston afferma che «per una donna coniugata senza prole il minimo irriducibile di lavoro [per la famiglia] richiede probabilmente da quindici a venti ore alla settimana; (1) per la donna con figli in tenera età il minimo è probabilmente di settanta-ottanta ore alla settimana». Ora il lavoro «naturale» della donna nella famiglia è un lavoro socialmente necessario ed è ineliminabile. Secondo uno standard valido sia per la casalinga a tempo pieno sia per la donna che ha anche un lavoro extra-domestico esso è schematicamente fissato:

a) nella cura materiale e affettiva o anche soltanto affetta del marito, con tutte le tensioni e i conflitti che questo ruolo comporta, poiché alla «moglie», sia essa casalinga o donna che lavora, viene richiesto di essere il rifugio emotivo di tutte le frustrazioni che l’uomo in questo tipo di società subisce quotidianamente. Attente dunque le donne a entrare in competizione con il marito o a infliggergli la frustrazione più grande che è quella di infrangere la supremazia maschile nella famiglia con un’attività che annulli o riduca i compiti e le funzioni, considerati primari, connessi alla sua missione «naturale» di angelo del focolare;

b) produzione dei figli che fa tutt’uno con il loro allevamento e la loro educazione;

c) cura materiale e conduzione amministrativa della casa. Sono compiti questi inderogabili e indispensabili per h funzionamento di qualsiasi tipo di famiglia, qualunque ne sia la collocazione di classe. In una famiglia a reddito alto dove la donna ha la possibilità di monetizzare le sue funzioni «naturali», pagandosi cioè ogni genere di servizi (dalla bambinaia alla scuola privata a tempo pieno), le resta sempre il full-time manageriale per l’organizzazione e la programmazione di questi compiti.

In base a una ricerca sulle condizioni strutturali della vita familiare, condotta da Laura Balbo (in Inchiesta n. 9, gennaio-marzo 1973, pp. 10-26), in ogni tipo di famiglia, da quella della borghesia benestante dei grandi imprenditori, dei rentiers, degli alti dirigenti e funzionari, di alcune categorie di professionisti e di intellettuali, a quella dei ceti medi (alcune categorie di professionisti, impiegati, operai, artigiani, piccoli imprenditori e commercianti), con un discorso a parte sulla famiglia dei disoccupati, sottoccupati, lavoratori a giornata e del sottoproletariato urbano, dove non è assicurato stabilmente neppure il soddisfacimento dei bisogni più elementari, risulta che «il ruolo del capofamiglia è rigido ed obbligato»: il capofamiglia non partecipa affatto o partecipa in modo marginale alla conduzione familiare, «in quanto impegni orari disponibilità sono prioritariamente organizzati intorno all’attività di lavoro». Questo equivale al fatto che una donna sposata non può mai fare di questa attività di lavoro il centro dei propri interessi. Quanto poi alle norme che proteggono la maternità sono proprio queste a stigmatizzare il fatto che i’a donna nella ricerca non dà garanzia di continuità nel suo lavoro e quindi nella carriera. I suoi valori sociali (peraltro fittizi oggi per tutti) non possono essere dunque il rendimento e il prestigio come per il ricercatore che scarica su una moglie o sempre su una donna (sia essa la madre affettuosa o la domestica devota) tutta la burocraticità e l’assistenza psico-emotiva della sua vita quotidiana. Le «virtù attive» cosiddette «naturali» dell’uomo possono essere riconosciute come doti «femminili» nella misura in cui le ritroviamo deviate da una attività di lavoro e finalizzate all’organizzazione della vita familiare. Le «operatrici di miracoli» sono quelle che riescono con un part-time scientifico, ma con un dispendio di energie intellettuali superiore a quello dell’uomo (e quindi con superiori capacità) ad ottenere risultati almeno equivalenti a disparità di condizioni. Part-time scientifico può significare rinuncia a ricerche che richiedono totale disponibilità di orari di lavoro, eliminazione da programmi a lungo termine che non possono essere interrotti da gravidanze o da altri incidenti familiari (come le malattie infantili o le crisi del servizio domestico), de-responsabilizzazione quindi nella gestione della ricerca e inevitabile processo di dequalificazione. Tutto questo tenendo sempre presente lo schema delle due culture, quella tecnologica e quella umanistica, per cui la nostra educazione che, come dice John Stuart Mill, è «un’educazione dei sentimenti più che della comprensione» ci porta a scegliere già nell’ambito di una programmazione di studi che divide le discipline «maschili» da quelle «femminili».

Quanto poi alla dinamica sociale che condiziona le scelte professionali, per il CNR c’è da dire questo: mancandovi quasi totalmente una politica della ricerca e senza una interazione organica con le strutture economiche del nostro sistema, la scelta professionale del personale scientifico prescinde dalle leggi del mercato del lavoro che regolano il rapporto tra domanda e offerta. Essa è in certo qual modo tutta «soggettiva», nasce cioè da istanze promozionali individuali anche se oggettivamente è determinata dalla provenienza sociale e da un genere di «vocazione» indotta da una università che ancora oggi nella sua apparente liberalizzazione «laurea» solo una ristretta élite di studiosi che, di, solito, si costituisce a scuola o setta del barone, assicurandosi così fin dai primi anni di apprendistato universitario lo sbocco professionale nella ricerca o nell’insegnamento accademico. Chi sono dunque le donne che rientrano in questo tipo di scelta professionale? A parte il loro numero quasi inconsistente, a parte quelle del settore umanistico che più di quelle del settore scientifico sono attese al varco di un destino altrettanto biologico, quello dell’insegnamento (prolungamento nella scuola del ruolo di madre-educatrice che il sistema per non pagarne i costi già ha assegnato alla donna nella famiglia), ma avendo un’attività unicamente di studio (non sono per esempio archeologhe «militanti») riescono ad accomodarla meglio all’interno di una organizzazione familiare, queste donne dunque sono il prodotto culturale di una società che nel suo radicale razzismo sessuale privilegia, promuove e istituzionalizza la particolarità. Poiché se è un vizio organico essere donna, la particolarità di chi tra i «negri» riesce ad entrare nel mondo dei «bianchi» propone modelli integrazionisti che, richiedendo la rinuncia alla propria identità, funzionano da repressione oggettiva alla liberazione delle altre donne e servono a mantenere lo stato attuale di discriminazione sessuale nel mondo del lavoro. Le professioniste della ricerca scientifica (quelle dell’insegnamento accademico si ritengono meno «prestigiose» anche per il processo di proletarizzazione dell’università di massa) sono le donne che, soggettivamente e oggettivamente con consapevolezza e no, sanciscono il fatto di «non essere come le altre», presentando un’immagine artificiosa di «donna moderna» che armonizza professione e famiglia o l’immagine, ormai non più tanto accettata, di vestale della scienza. Sono donne queste la cui vita è tutta uno sforzo promozionale (ma se sono sposate la loro «promozione» arricchisce solo lo status sociale del marito) e che quasi sempre non si rendono conto neppure di quello sforzo sostenuto per arrivare solamente là dove i problemi di una scelta professionale cominciano appena a porsi per l’uomo. Sono donne che, ingabbiate in una narcisistica realizzazione di sé, non hanno riflettuto ancora sulla loro” condizione di donna.

Al CNR all’ultimo e più alto livello di carriera quello di direttore di ricerca troviamo 6 donne su 56 uomini. Il grado di direttore di ricerca è una classe di stipendio a cui quasi sempre non corrisponde la direzione effettiva di un laboratorio, di un istituto, o di un centro, diretti invece per la maggior parte da professori universitari, da alcuni dei 56 direttori di carriera ma da nessuna delle 6 donne. L’unica direttrice di laboratorio (una delle strutture di ricerca più importanti del CNR) è la Levi-Montalcini, una scienziata richiamata dall’estero per l’eccezionalità dei suoi meriti scientifici, che erano però già passati al vaglio ufficiale di riconoscimenti scientifici altrettanto eccezionali. La Levi-Montalcini non è sposata: ha dedicato tutta la sua vita alla ricerca. La sua «presa del potere» nel laboratorio di biologia cellulare del CNR avvenne in modo alquanto inconsueto e sconcertante: presentandosi per la prima volta al personale di ricerca che doveva dirigere non parlò di cellule, ma della condizione della donna.

Ma rispetto alla «eccezionalità» di una coscienza politica di donna in una scienziata quale la Levi-Montalcini, la mancanza di questa coscienza in donne con uno status professionale privilegiato (come le donne nella ricerca) è indicativo della loro reale e generale soggezione e subordinazione al valore-uomo che motiva la loro spinta promozionale di fondo. Per questo la scienziata senza una coscienza politica di sé come donna e quindi come oppressa si assume oggi una delega sociale di oppressione di tutte le donne a cui questo sistema capitalistico e «maschile» nega soluzioni individuali sia pure solo di «emancipazione». Al CNR le «simboliche» 6 direttrici di ricerca (e le restanti aspiranti tali), pur con tutta la conflittualità della loro condizione, rappresentano un modello culturale anomalo rispetto a quello trasmesso alle donne del nostro paese e un modello irraggiungibile. Non è certo casuale il numero irrisorio di quelle che lo realizzano e in maniera contraddittoria e con mutilazioni di ogni genere. Al CNR questo modello culturale classista e razzista di «donne che non sono come le altre» si contrappone come agente di frustrazione sociale a quello «tradizionale» di una massa di personale femminile inquadrato ai livelli più bassi della carriera amministrativa, dove le donne sono in percentuale il 63,27%. «Le segretarie» (comprendendo in quello che nella nostra società viene considerato «il mestiere femminile per eccellenza» tutto il personale subalterno di impiegate gerarchicamente ordinate alle dipendenze quasi sempre di un «capo») sono donne a cui sarebbe insultante parlare di «emancipazione per mezzo del lavoro». Senza qualifica professionale, malpagate, alla faticosa routine domestica (perché sono loro che più pagano la mancanza di servizi sociali: al CNR manca tutto!) assommano la routine noiosa e talvolta avvilente del lavoro di ufficio. La subordinazione al «capo» riproduce la subordinazione al marito. Spoliticizzate, con scarsissima o nessuna partecipazione alla vita sindacale, spesso vengono «privatizzate» dai loro stessi compagni che in un’attività nel partito e nel sindacato, sempre a spese della donna, riescono o a ricomporre il loro sociale o semplicemente a praticarlo per risarcirci della loro insoddisfacente collocazione nelle «classi» di lavoro.