sopravvivere in borgata

novembre 1973

Quello che mi dispiace è che per mia figlia non è successo niente. Ha abortito. Niente. Quello che si ricorda è i tre giorni a Londra. La vacanza! Io glielo dico: pensa i soldi che abbiamo dovuto trovare in parte a prestito, in parte con la colletta tra i compagni. Molti si sono privati di cose necessarie. Perché tu abortissi a Londra in una clinica pulita disinfettata, non come me a San Basilio. Vorrei che lo capisse che l’aborto non è una festa, neanche nella clinica bella. Io figli ne ho sette, ‘a trentatré anni. Lei è la prima. Avevo quattro anni e mezzo quando un amico di mia madre ci si è provato, mi sono messa a piangere, a gridare, mi è andata bene. In borgata succede. A tredici anni e mezzo, poiché a quell’epoca quando il figlio compiva tredici anni levavano al padre gli assegni familiari, praticamente mi hanno venduta: sposata. Non era mio padre, perché io sono bastarda, era uno che quando avevo otto anni aveva sposato mia madre ed allora mia madre mi aveva tolta dal collegio. Comunque avevo tredici anni e mezzo. Mio marito era un. radiotecnico. Aveva ventisei anni. Mi ci ero affezionata subito. Solo che mi veniva da piangere quando sentivo che faceva certi discorsi, di me, se gli chiedevano come faceva a sposarsi una ragazzina, rispondeva, «Posso vantarmi che è vergine, io, e voi, potete?». Qualche volta finiva a botte, cogli amici suoi.

La prima notte l’ho mandato al pronto soccorso, con un unghiata dentro l’occhio sinistro. Una notte di terrore. Dopo un anno, la prima figlia: questa. Nessuno mi aveva spiegato niente. Pensavo che i figli nascevano sforbiciando la pancia della madre. Io ero figlia unica, poi, dopo quello che era successo a quattro anni ero stata in collegio. Non sapevo, pur essendo una di borgata. Vivevamo con mia suocera. Non mi disse niente. Quando cominciai ad urlare per i dolori, si prese paura e corse dall’ostetrica. Mio marito era al lavoro. Quando tornarono, mia suocera e l’ostetrica, avevo partorito da sola.

Con questo marito ci sono stata cinque anni. Ho fatto tre bambine. Dopo lui è morto di linfogranuloma. Mi bastonava sempre. Da ragazzo aveva fatto la poliomelite, era sciancato, e avere una moglie come me, tanto più giovane, per lui era come una rivincita. Era l’unica cosa per cui poteva essere invidiato. Si vantava di me con gli amici, ma per me botte e insulti. Mi diceva: — A letto non vali niente, sei una schiappa, un ciocco…

Eppure, mi aveva insegnato lui. Perciò cominciò a portarmi all’Ambra Iovinelli a vedere le ballerine: — Impara, impara da queste, guarda come si muovono, guarda come si spogliano.

Intanto lui per eccitarsi si faceva toccare dai froci, a me mi metteva in mezzo ai soldati, perché diceva che in questo modo dopo avrei fatto meglio l’amore con lui.

Ho resistito due volte per paura, la terza sono uscita dal cinema e me ne sono andata via da sola. Pare niente, ma a quell’epoca non ero capace di camminare sola per la strada, altro che per andare a fare la spesa. Quando si è ammalato di cancro, l’ho curato fino all’ultimo a casa. Allora era molto buono. Ma io non potevo più crederci alla bontà. Io vedevo che era la paura di essere abbandonato. A diciannove anni così sono rimasta vedova con tre figlie. Ed allora ha cominciato il fratello: dice che non mi poteva lasciare sola con tre bambine, che mi sarei presa fatalmente un uomo e che quest’altro uomo, che non sarebbe stato niente per le bambine, le avrebbe, sì, avrebbe fatto a loro le cose che gli uomini di mia madre facevano a me… Invece lui era lo zio… La mentalità loro, degli uomini, è che noi siamo prede: dicono che hanno paura del male che ci possono fare gli altri, ma loro stessi, quando riescono a farci prede, non si comportano diversamente. Così mi lasciai convincere e mi accompagnai con questo fratello di mio marito, ma con la condizione di non sposarci. Del matrimonio mi era rimasto il terrore.

E ti dico che sono stati due anni bellissimi, finché non siamo stati sposati. Non era un padrone, capisci? Potevo parlare, dire quello che pensavo, tutto. Quando tentava di fare il padrone con me, gli dicevo: prendi la valigia e vattene. E lui doveva andarsene e poi tornava a chiedermi di farlo rientrare a casa. Non era il padrone, non eravamo sposati. Abbiamo avuto una bambina. E questo fatto è stata la mia rovina. Come, mi diceva, tu che sei stata bastarda, vuoi che tua figlia sia bastarda pure? Senza il nome del padre. Per questo ci siamo sposati ed è cambiato tutto. I figli sono diventati sette, con tutto che abortivo pure, lui mi dava pochissimi soldi, dicevo: il bambino non ha scarpe, e lui: vai a battere sul raccordo anulare se gliele vuoi

comprare. Io la mattina mi alzavo alle quattro per fargli il pranzo da portarsi sul lavoro, la sera l’inverno l’aspettavo col caffè caldo bollente, eppure ero stanca anche io. con tanti figli e pochi soldi. Lo facevo perché lo rispettavo, rispettavo chi faticava per tutti noi fuori di casa (va bene che io faticavo lo stesso dentro), ma lui credeva che fosse per trucco e per paura: per levargli i soldi dal portamonete, per ingraziarmelo, per nascondergli l’amante. Quando ho capito questo, non mi sono più alzata alle quattro, né niente… A questo punto erano soltanto botte. Quando sono arrivati i compagni in borgata, per fare un’inchiesta sulla salute io ho capito che non era una vita sfortunata, la mia, ma una vita piena di ingiustizie. E che con la salute, con le scuole dei bambini, eravamo noi sole donne a combattere. A pigliarsi il figlio in braccio, ammalato, e ad arrivare fino a Roma per farlo visitare perché in borgata non c’era neanche un ambulatorio; a supplicare il preside perché pigliasse il figlio a scuola, e, se te lo pigliava, magari perché aveva la speranza di toccarti, non potevi essere soddisfatta lo stesso perché per uno, il tuo, che poteva andare a scuola, o all’asilo-nido,, trenta restavano fuori… Dovevano andare a una scuola più lontana, o restare a giocare, i piccoli, nello scolo delle fogne.

A questo punto mi sono data da fare per aiutare i compagni, però stavo molto attenta: voi non mi dovete strumentalizzare, gli dicevo, perché a me mi hanno strumentalizzato tutti, cominciando da mia madre, che restando incinta di me voleva farsi sposare da mio padre, ma gli è andata male. Invece mio marito cercava di sapere se i compagni erano ricchi, e mi spingeva a chiedergli soldi, nella sua mentalità credeva che cercavano con me quello che cercano gli uomini come lui… E dopo così gli potevo portare via un pò di soldi. Finché un giorno l’ho lasciato. Ho preso tutti e sette i figli e me ne sono andata di casa.

È stato quando la bambina di quattordici anni mi ha detto che la notte andava a dare fastidio a lei e alle sorelle, nel letto. La più grande non mi aveva detto niente. Succede regolarmente nelle borgate e tutte le mogli ci si adattano,

per non perdere il marito: loro sanno di essere invecchiate, con parti, aborti, botte, gli hanno insegnato che l’uomo ha bisogno di roba fresca.

Se fosse stato prima di incontrare i compagni, forse mi sarei rassegnata pure io. Non è che prima ero scema e dopo sono diventata intelligente. È che prima credevo che era la sfortuna, dopo ho capito che era l’ingiustizia. Quello che mi dispiace è che non riesco a fare capire le stesse cose alla ragazza.

Per lei, l’unica arma che ha una donna è il corpo. L’unica arma, l’unico bene, tutto. Offre la bellezza e vuole in pagamento la sicurezza, i bei vestiti, i dischi. Si è messa con questo ragazzo, dal quale, anche se io gli avevo spiegato tutto, s’è fatta mettere incinta, non perché gli vuole bene: ma perché vuole essere sposata. Lei vuole essere sposata. Speravano che con la storia del bambino, io li avrei fatti sposare e me li sarei presi in casa tutti e tre, tre più sette, dieci. Ho detto no. E non per cattiveria. Perché lui in casa mia praticamente ci sta già, piuttosto che mandarli in giro a fare l’amore di nascosto, nelle marrane, esponendo lei a tutti i pericoli, a tutte le umiliazioni, gli ho detto chiaro: venite in casa, però state attenti. Invece niente… Come ho detto, avevo accettato lui in casa, ma non volevo che mia figlia si legasse già con un matrimonio, fatto più per sfiducia che per amore.

Quando glielo ho detto, che non li avrei presi in casa sposati, col bambino, mi hanno scaricato la responsabilità dell’aborto sulle mie spalle: io dovevo trovare il come e il quando, io dovevo trovare i soldi. Ho accompagnato mia figlia a Londra: ci è costata 110 mila lire la clinica, 120 mila il viaggio. Avremo cambiali fino all’anno venturo, Ma per lei… una vacanza.