a.c.e.a. ancora una volta le cifre parlano

«la donna viene preparata a subire la realtà lavorativa in cui viene gettata».

febbraio 1977

il campione non è stato preso a caso. Intanto si tratta di un’indagine condotta in un’azienda comunale, di più è una realtà sufficientemente ampia da poter essere indicativa (totale dipendenti intorno alle 3.500 unità). Le cifre spesso sono aride, si dice; spesso, a parer mio, parlano. A questo riguardo è interessante rilevare che, al 31-3-1976, su 3.581 dipendenti ACEA, «stranamente» solo 313 sono donne. Di queste, 14 in gruppo A; 149 in gruppo B; 146 in gruppo C (le rimanenti 4 hanno la qualifica di operaie). Vedi tabella in calce. Ancora una volta le cifre parlano e permettono di rilevare che il rapporto è inversamente proporzionale all’importanza delle categorie. Ciò in quanto nell’attuale società, ancora e non ostante tutto, una donna deve già ritenersi paga di poter lavorare, non arriverà mica a pretendere di fare anche carriera!
E qui certamente il discorso si potrebbe ampliare prendendo in considerazione le molteplici cause che impediscono alla donna appunto di fare carriera, una volta entrata in qualche modo in una certa realtà lavorativa. Cause sempre complesse e interagenti che vanno ricercate molto più a monte del momento in cui la donna tenta di realizzarsi anche attraverso il lavoro: per esempio, la famiglia in cui nasce e la scuola in cui viene educata (intendendo qui famiglia e scuola più come istituti che come entità particolari) la imbrigliano in certi schemi di vita che le vengono imposti più che prospettati, senza reali possibilità di alternativa, anche nei modi meno appariscenti ma non per questo meno violenti. In questo modo la donna viene «preparata» ad accettare e a subire, più che ad affrontare consapevolmente, la realtà lavorativa in cui viene gettata. Potremmo qui approfondire l’analisi che toccherebbe il più ampio contesto sociale ma al momento non ci sembra la sede adatta per un duplice ordine di motivi: riteniamo che queste cause siano state spesso indicate, seppure mai sufficientemente (la realtà lo dimostra), e soprattutto perché, dopo questa schematica premessa, crediamo più interessante prendere atto di alcune semplici testimonianze delle stesse lavoratrici dell’azienda, abbandonando per il momento le statistiche ed eventualmente le teorizzazioni che, in quest’ambito, non si ha la pretesa di raggiungere, per attenerci semplicemente ai fatti.
Le persone intervistate delle quali non viene reso noto il nome saranno indicate con I, II, etc.

Anna: Come consideri-la posizione delle donne qui all’ACEA?
l: Io dico senz’altro che le lavoratrici dell’ACEA, rispetto ad altre aziende che posso conoscere, hanno un livello abbastanza buono di preparazione per risolvere i problemi che nella società di oggi la donna si trova ad affrontare. Secondo me quello che va educato è il collega dell’ACEA, va educato come uomo ad accettare quello che è oggi il ruolo della donna. Parlo soprattutto per l’esperienza di una vita aziendale vissuta da 13 anni a questa parte e poi anche come confronto con altri gruppi di lavoro estranei all’azienda stessa. Per esempio, solo poche donne sono andate avanti nella carriera, inoltre sono riuscite ad inserirsi soprattutto per le proprie capacità e non perché l’uomo abbia dato loro spazio. Anna: …particolarmente capaci oppure, secondo te, sono «arrivate» giacché hanno in qualche modo assecondato la logica del sistema?
l: Particolarmente capaci ma si sono anche adeguate alla logica del sistema. Anna: Poco fa accennavi al problema delle 150 ore; ti è stato sottoposto un modulo da completare e firmare nel caso che tu voglia partecipare al corso delle 150 ore a livello universitario. Mi pareva che parlassi di alcune difficoltà al riguardo, ci vuoi dire quali?
I: Le difficoltà mie personali, e che penso investano parecchie colleghe soprattutto sposate, come nel mio caso, in pratica consistono in questo. Quando sono stata informata dalla collega incaricata, ho accolto con entusiasmo l’idea senz’altro validissima ai fini di una esperienza ulteriore. Però il modo in cui io sono inserita nell’ambiente di lavoro non mi consente di partecipare pur sentendone l’esigenza. Anna: Ritieni ad esempio che tuo marito, volendo, potrebbe invece parteciparvi?
I: A lui lo consente soprattutto la società e secondariamente la sua mentalità per cui egli afferma: «meglio che sappia prima io e poi dopo tu…».. Anna: … e poi te lo racconto! Tu quanti anni hai?
Luciana: Trentadue.
Anna: Da quanti anni lavori in azienda?
Luciana: Da 8 anni. Vorrei dire, a proposito di quanto diceva la mia collega che, su 27 iscrizioni ai corsi 150 ore, soltanto 10 sono da parte di donne. Inoltre, per gli uomini non è emerso alcun dubbio sulla possibilità di frequentare; le donne hanno manifestato la propria adesione con molto entusiasmo ma non sono certe di poter frequentare. Ecco, questo già rileva una grossa differenza.
Rosa: Ho 33 anni e lavoro qui da 14. Qui da noi, sul piano teorico, siamo tutti uguali. Il contratto, a parte il grembiule, prevede parità di diritti e di doveri tra uomini e donne. In pratica questa uguaglianza non esiste assolutamente. Questo in parte perché noi donne, prima ancora degli uomini, dobbiamo essere convinte di dover avere gli stessi diritti. Purtroppo spesso molte di noi si comportano come se avessero dei dubbi circa questa parità o meno. Dubbi, secondo me, che ci derivano dalla forma di educazione ricevuta già dall’infanzia. Tra le altre cose, in una famiglia media, se si deve scegliere chi deve studiare, si pensa sempre prima all’uomo quindi anche la possibilità della preparazione di base non ci viene mai data nella stessa misura. Per questi motivi è importante soprattutto convincere se stesse per far accettare anche agli altri, in questo caso agli uomini, che noi donne possiamo raggiungere gli stessi traguardi, una volta che si parte dalle stesse possibilità di base.
Anna: Che cosa pensi del movimento femminista relativamente ai problemi che ha portato avanti e del modo in cui di volta in volta lo ha fatto e continua a farlo?
Rosa: Non posso rispondere in modo preciso perché prima che una si arroghi il diritto di dare un giudizio deve inserirsi nelle cose, frequentarle, deve quantomeno acquisirne una buona conoscenza. Ogni volta che sento parlare di femminismo sento pubblicizzare solo i suoi lati negativi. Io invece sono convinta che se oggi esiste una legge per la tutela della lavoratrice e se si è arrivati a qualche riforma lo dobbiamo all’impegno dei gruppi femministi. Forse hanno anche commesso degli errori… Del resto il mondo sbaglia da millenni poiché, se la donna si trova in questa situazione, vuol dire che sono millenni, che il mondo sta sbagliando. Quindi posso anche perdonare qualche piccolo errore commesso eventualmente dalle femministe, in considerazione dei grossi frutti arrecati che, seppure ancora non si possono vedere pienamente, certo rappresentano uno spiraglio che dovrà portare inevitabilmente ad alcuni risultati concreti.
II: Ho 36 anni e lavoro in ACEA da 13. Sono sposata, ho una bambina di un anno e mezzo che mando al nido aziendale.
Anna: Quindi avete un nido aziendale, cosa che non in tutte le aziende esiste… Da quanto tempo funziona? 2° Da due anni. Abbiamo ottenuto il nido aziendale dopo grandi battaglie. Ti risulta Luciana che gli uomini abbiano combattuto al nostro fianco per avere il nido?
Luciana: No.
II: Il punto principale è questo: quando noi abbiamo fatto la battaglia per ottenere l’asilo nido, nessun uomo oppure pochissimi e raramente ci sono stati accanto. Dopo che abbiamo raggiunto lo scopo ci hanno accusato di non averlo ottenuto anche per loro, cioè per i loro figli.
Anna: Anche attualmente questo servizio esiste soltanto per le lavoratrici madri?
II: Sì.
Luciana: Il fatto grave è che, quando noi donne ci siamo impegnate in questa lotta, gli uomini ci hanno addirittura denigrate da un punto di vista economico, in quanto tutti i servizi sociali costano e loro disapprovavano la nostra richiesta per questo… Non avvertivano il problema.
Anna: Eppure ritengo che tra i vostri colleghi ci fossero uomini sposati e con figli.
Luciana: Noi abbiamo iniziato la battaglia per l’asilo-nido quando questo era previsto per le aziende con un certo numero di dipendenti; lo abbiamo ottenuto soltanto dopo, quando la legge è caduta in prescrizione essendo entrata in vigore quella per gli asili comunali. Gli uomini non ci sono stati accanto in questa vicenda ma ci hanno veramente combattute. Ce li ritroveremo adesso accanto perché noi donne abbiamo spinto affinché l’asilo nido fosse aperto anche ai figli dei dipendenti. Perché nei loro confronti, come lavoratrici, non riteniamo giusta la distinzione tra figli di uomini e figli di donne dipendenti ACEA.
Anna: Ritieni che si possa costruire qualcosa insieme agli uomini oppure, per ottenere il riconoscimento dei vostri diritti, pensi di dover capovolgere l’attuale realtà esistente?
Luciana: Per quanto mi riguarda, l’etichetta di femminismo deve servire soltanto per mettere in evidenza il fatto che la donna vive veramente una situazione particolare, differenziata da quella dell’uomo. Per esempio, poco fa, tu hai usato la parola ghettizzazione che probabilmente in sé è un po’ forte ma in molti casi riconosco l’utilità di usarla, in quanto è vero che la donna è stata e continua ad essere veramente emarginata. Questo per modelli culturali, per una storia che ci portiamo dietro. Perciò le femministe rappresentano, secondo me, un momento di spinta. E, seppure talvolta assumono posizioni che io non condivido, non importa; riescono comunque a mettere in evidenza certi problemi interessanti.
Anna: Quali possono essere le posizioni che tu non condividi?
Luciana: «Questo oggetto è fatto a misura d’uomo quindi va buttato via» oppure «qui dentro c’è un uomo e siccome, compagne, siamo tutte contro i fascisti, l’uomo per noi è un fascista, quindi l’uomo va cacciato via». Espressioni sentite in un convegno di femministe. Ecco, queste cose non le condivido.
Rosa: Anche perché a volte anche l’uomo ha un ruolo pesante: deve essere a tutti i costi il forte, il bravo, il coraggioso fin da bambino.
Anna: Quindi, secondo te, anche l’uomo è vittima di questo tipo di cultura che differenzia l’uomo dalla donna. Anche se magari meno… vittima.
Rosa: È il tipo di educazione che porta loro dei vantaggi rispetto alla donna… È chiaro che l’uomo vi si adagia e trova che tutto sommato è giusto; poi questo diventa legge, normalità.
Luciana: Comunque, nonostante tutti i vantaggi, io credo che l’uomo non viva appieno tutte le possibilità che potrebbe vivere. Per quanto riguarda, ad esempio, il rapporto con la famiglia, l’uomo che deve soltanto portare i soldi a casa gode di ciò che la famiglia può dare, come affetto dei figli ed altro.
Anna: Quindi secondo voi il vecchio schema di vita è una limitazione anche per gli uomini. Ritenete allora di voler costruire un nuovo modello di vita accanto all’uomo ma non escludendolo, mi pare di capire.
II: Sì. Infatti tra me e mio marito già esiste questa collaborazione. Amiamo moltissimo la nostra bambina, che ci siamo sofferta, e mi aiuta concretamente nel allevarla.
Anna: Ti aiuta come se fosse un regalo o lo fa ritenendolo un suo dovere sia nei confronti tuoi che di tua figlia?
II: A questo riguardo io mi ritengo una donna fortunata; mi aiuta volentieri, senza regalarmi niente. Però certi lavori domestici lui non è capace a farli perché non li ha mai fatti, non mi soddisfa e perciò io stessa preferisco che si dedichi ad altri.
Anna: E non pensi che potrebbe imparare a farli,, cioè che un tuo diverso atteggiamento potrebbe educarlo in modo tale che, seppure non subito, in un secondo tempo tu potresti esserne soddisfatta? Oppure ti va bene così?
II: Tutto sommato mi va bene così perché non lo devo spronare e lo fa spontaneamente.
Anna: Allora ti senti soddisfatta soprattutto nel confronto con le tue amiche, con le tue colleghe anche se poi…
Rosa: … magari l’uomo che «aiuta» troverà sempre il modo o il momento per far pesare come un regalo la sua collaborazione che dovrebbe essere dovuta.
III: Io da 15 anni lavoro all’ACEA. Ho un’esperienza sindacale e, proprio per questo, posso dire che, quando abbiamo iniziato la battaglia per gli asili nido, come sindacato ci siamo trovati di fronte ad un muro e le donne non mi hanno aiutato molto, se non alcune che erano arrivate a prendere coscienza perché venivano anche loro da esperienze politiche, sindacali o altro.
Anna: Quindi hai incontrato difficoltà da superare anche da parte di alcune donne?
III: Come no, ho trovato delle grosse difficoltà però alla fine anche loro hanno cominciato a prendere coscienza e ci hanno dato una mano. Appena risolto il problema però, tutto è tornato come prima.
Anna: Nel senso che le donne in questione, superato il momento particolare e contingente, sono rientrate nel loro ruolo tradizionale? E non ritieni che il tornare su posizioni arretrate possa essere dovuto a motivi di insicurezza. Credo che sia difficile, specialmente per un certo tipo di donne, rompere con i vecchi schemi, anche e soprattutto quando si vive in determinate realtà. 3″: A me sembra che le donne siano rientrate perché si sono sentite sicure di aver raggiunto una certa tranquillità economica; per esempio, l’asilo nido non è molto frequentato. Anna: Le altre quale atteggiamento hanno tenuto?
Rosa, Luciana, III: Firmavano petizioni; venivano alle riunioni.
Rosa: A volte non basta avere coscienza di avere diritto a certe rivendicazioni, bisogna anche saper parlare, nel senso che a certe donne manca la preparazione, il coraggio. Io cerco di esprimermi anche se ho una cultura di base semplice, mi piace parlare semplicemente. Citare testi, libri e altro è un modo per emarginare molti e per consentire ancora una volta soltanto ad un’elite la possibilità di capire. È necessario parlare in modo semplice, in modo che possa capire soprattutto la persona semplice.
Anna: Certo questo è un grosso problema, dove vale la constatazione del linguaggio per i soli «addetti ai lavori».
III: Io vorrei parlare di un’altra battaglia, quella condotta sulla reversibilità della pensione. Si iniziò per una collega che doveva appunto andare in pensione; c’è da dire che chi mi stava vicino erano solo quelle poche che si trovavano nella stessa condizione. Fu deciso alla Camera dei Deputati di raccogliere 5.000 firme che non ho mai raccolto perché non ci sono riuscita. Per questo dico che le donne agiscono se pressate da una necessità impellente ma si mettono tranquille una volta superata la necessità stessa, salvo poi a muoversi nuovamente alla prossima occasione.
Anna: Mi sembra che tu stia dicendo che molte donne non sono abituate ad avere un impegno quando non ci siano problemi e gratificazioni immediate… costringere noi stesse ad un impegno costante ed a considerare i problemi sempre nel complesso quadro sociale dovrebbe essere uno sforzo di autoeducazione che noi donne dovremmo fare.
Luciana: È vero che qui c’è un livello retributivo abbastanza elevato per cui la gente è portata a vivere tranquillamente la propria vita, però non direi che da parte delle donne ci sia una chiusura ai problemi, anzi il contrario. Ormai tutte le settimane facciamo degli incontri tra donne, ci siamo dette che siamo poco informate e che vogliamo esserlo di più anche informandoci a vicenda. Molte partecipano a queste riunioni dalle quali emergono dei problemi. Per esempio quello di far accettare che, nei 5 mesi di puerperio in cui, per legge, la donna deve essere allontanata dall’azienda per svolgere quello che è un servizio sociale, non venga ritardata la carriera, non perda cioè la propedeuticità. In questa nostra richiesta gli uomini e, più in generale il sindacato, non ci hanno sostenuto affatto, stralciando, dal tipo di accordo che andavamo facendo con la direzione, la postilla che stabiliva quanto previsto dalla nostra richiesta. Questo ritarda evidentemente la carriera ed anche il raggiungimento di un livello retributivo ulteriore da parte delle donne.

A queste testimonianze, che rivelano una situazione allucinante nel senso di terribilmente discriminante a scapito della donna, crediamo utile aggiungere alcuni altri particolari.
È del 6-10-1973 la seguente lettera firmata dal direttore generale e indirizzata ai capi servizio e ai capi ufficio e p.c. al vice-direttore elettricità, al vice-direttore amministrativo, al vice-direttore idrico:
«Nonostante siano state impartite precise disposizioni sull’uso obbligatorio del grembiule da parte del personale femminile dipendente, devo rilevare che detta prescrizione non trova frequentemente rigorosa applicazione. «Invito pertanto i Sigg. in indirizzo a voler richiamare il personale inadempiente e comunicare con tempestività all’ufficio del Personale, per gli opportuni provvedimenti disciplinari, le eventuali inosservanze che si dovessero ancora verificare in tal senso». Ciò che va sottolineato in proposito è che le «precise disposizioni» non vengono impartite da un cervellotico direttore generale, magari antifemminista: sono addirittura contenute nell’art. 29 del contratto di lavoro, approvato con il beneplacito delle forze sindacali (come tiene a far osservare il direttore generale fi.), che «prevede ancora l’obbligo per il personale femminile (a prescindere dal lavoro da svolgere) di coprire sotto un grembiule la vergogna di essere donne».
Questo è quanto, tra le altre cose, afferma con amara ironia Rosa Pinto, una delle dipendenti, in un numero del giornaletto aziendale Aceacittà del ’76.
Affermazioni alle quali è stato risposto con acido sussiego, sui numeri seguenti dello stesso mensile, da parte di due uomini: un collega della Pinto, Giovanni Genovese, ed il direttore generale fi. dell’ACEA, Luigi Pediconi. È del tutto superfluo riportare il benché minimo stralcio di quanto scritto dai due uomini che hanno tenuto un atteggiamento grossolanamente reazionario.
Quel che più ci colpisce è invece la risposta di una collega della Pinto, certa Maria Fiorella Centi, ella stessa con molte probabilità sottoposta, in quanto femmina, allo stesso tipo di pressioni.
Pure costei ritiene doveroso replicare con (isteriche) affermazioni, per altro non confortate da valide argomentazioni, completamente identificandosi con il «potere» in quanto dirigenza dell’ACEA, in quanto posizione maschilista.    
L’atteggiamento della Centi può, ad un osservatore superficiale, apparire addirittura contraddittorio per il semplice
fatto che è tenuto da una donna; in realtà è perfettamente in linea con gli schemi culturali in base ai quali questa
impiegata «modello» è stata «costruita» ed entro i quali è rimasta ingabbiata.
La nostra pertanto non vuol essere la denuncia di fatti a molte di noi per fortuna ormai noti, né l’analisi condotta con criteri scrupolosamente scientifici. Vuol essere semplicemente uno stimolo per quelle di noi che non sono ancora abituate a porsi criticamente di fronte anche e soprattutto alla realtà quotidiana che, proprio con la forza della sua «routine», ha la possibilità di schiacciarci maggiormente degli accadimenti eccezionali: vuol essere un invito per le altre a contestarsi quotidianamente, non in un modo sterile utile soltanto ad arrivare alla paranoia, ma facendo il massimo sforzo di coerenza in rapporto alla propria scelta di vita.