convegno donna, arte, società

all’ombra del totem fallico

tante le contraddizioni e le ambiguità in questo convegno svolto a Milano “I 14 e 15 gennaio che emergono da queste quattro testimonianze.

febbraio 1978

Donatella
Era la prima volta che ci incontravamo per parlare della nostra creatività. Mi aspettavo di poter mettere a fuoco con altre donne molti problemi non risolti. L’incontro c’è stato ma non si è realmente parlato. Tutto era già prestabilito. Non bisognava uscire fuori da certi binari. Circondate da giornalisti, fotografi e telecamere, ci poteva essere un reale confronto? Il comitato organizzatore in cattedra, le voci amplificate dal microfono, la lista per parlare, non c’era certo posto per certe inibizioni, cose da femminismo prima maniera, ormai superato: dobbiamo essere donne professioniste emancipate, basta con le insicurezze e le incertezze, con il mettere e metterci in discussione: dobbiamo competere con gli uomini, creare e produrre, soprattutto produrre, ma cosa non si è neanche considerato. C’era bisogno di promuovere un convegno per affermare queste cose?
Riunirsi tra donne per parlare è importante, ma basarsi su una condizione sociale per rivendicare solo un maggior potere contrattuale all’interno di un intero sistema culturale, linguistico ed economico che ci emargina, significa negare qualsiasi possibilità rivoluzionaria al movimento delle donne. Invece di cercare insieme nuove parole, nuovi segni indipendentemente dalle strutture culturali già esistenti e pesanti anche per gli uomini, si cercano dei facili incastri e dei tranquilli posti a sedere. Perché donne, non dobbiamo certo negarci la possibilità di esprimerci in un ambiente sociale che inevitabilmente ci coinvolge e in cui nonostante tutto siamo dentro, in mezzo anche noi. Non viviamo altre realtà, perché ancora non le abbiamo create. Ma siamo dentro e siamo fuori allo stesso tempo, parliamo e stiamo zitte, esistiamo ma a volte siamo trasparenti e sotterranee. Questo è importante perché vuol dire che c’è un’altra dimensione che deve uscire fuori, che bisogna cercare nuove parole e nuove forme e nuove strutture.
Al convegno di queste cose non si è parlato quasi per niente. Ci sono stati solo alcuni interventi in questo senso, ma poi non si poteva realmente discutere sulle cose che venivano dette, né tanto meno cercare di parlare in prima persona, individualmente, portando tutte le nostre possibili esperienze nel campo della creatività. Le organizzatrici del convegno si preoccupavano che tutto rimanesse su un piano di estrema impersonalità ed efficentismo.
La situazione mi si è presentata quindi, da un lato, come l’espressione del bisogno di un gruppo di donne di pubblicizzare una condizione di emarginazione della donna nell’arte, promuovendo una richiesta di maggior potere alle donne, servendosi anche della passerella di alcuni nomi di alto prestigio che potessero fornire una vernice professionistica di un certo livello; dall’altra donne interessate al problema ma secondo una prassi molto diversa.

 

Ela
Mi sono trovata tra le parole e invece desideravo immagini, suoni, colori, movimento… ma le parole erano lì e riempivano lo spazio, organizzate in interventi prenotati, cronologicamente ordinati… le parole esprimevano più o meno esattamente le idee, ma le idee comunicate verbalmente si sovrapponevano, si dilatavano, si organizzavano secondo regole prevedibili… la trasmissione era limitata entro un’area circolare, con un movimento che si riproduceva all’infinito e ritornava sulle parole, sulle idee già dette, con le regole già fissate… il microfono rendeva la comunicazione più distaccata, metallica, corretta e formale… le donne che volevano usare le parole dovevano prima servirsi di un foglio su cui scrivere il proprio nome, in modo che le proprie parole non si sovrapponessero ad altre, e la comunicazione fosse più chiara… le parole o i gruppi di parole più utilizzati sembravano essere «creatività» «rapporto con le istituzioni» «professionalità» «linguaggi diversi» «circuiti ufficiali»… ad un certo punto ho immaginato cosa sarebbe successo se ogni parola avesse avuto un peso fisico, equivalente a un cubetto di porfido o una palla di polistirolo… ne saremmo state uccise… e allora ho avuto voglia di distruggere, negare tutto il prevedibile, il pesante… ho pensato e detto che forse per poterci esprimere ancora dovremmo attraversare un momento di vuoto… cancellare i codici, gli strumenti, le strutture che abbiamo all’esterno e all’interno… ma saper distruggere forse è più difficile che saper creare… il nuovo può anche essere il nulla… ho pensato a Cooper e a suoi momenti di morte mentale… ho pensato a Kafka e al suo drammatico rapporto con la comunicazione scritta, al contatto coi fantasmi a cui ci rivolgiamo, e non solo col fantasma del destinatario del messaggio, ma anche col nostro che si sviluppa nelle frasi che pronunciamo, o nelle lettere che scriviamo… pensieri, parole e idee non giungono a destinazione, ma vengono bevuti dai fantasmi lungo il tragitto, e con tale alimento questi si moltiplicano in modo inaudito…

 

Elvira
Un giorno nacque
e fu sola
agli  altri
un giorno trasgredì
disse mutazioni direzione pro-
fondo, lonta-
no, oltre
e tutte
Quando
all’interno della norma bianca
(norma capitalistica)
essere significò essere attenti
(non al battito del muscolo cardiaco)
non c’era tempo
(non allo spasmo del plesso solare)
non si ebbe più fame e sete
(non al brivido e schianto nervoso della pianta)
bisognava abituarsi alla nocività
significò essere attenti alla lucidità
del pensiero
IL PENSIERO ERA STATO CONTAMINATO
eppure bisognava ricominciare.

 

Moira
Convegno: una presidenza/le convenute. Tema: donna-arte-società. Non sento più l’esigenza primaria di metacomunicare, analizzare, sintetizzare su o intorno ad un convegno. Sento il profondo desiderio di annullare quei luoghi spazio-temporali chiuse in stanzoni edili-cementate. Ripenso al suono noioso e nodoso delle parole apparentemente trasgressive, che sotto la «luce e il vessillo» del produrre, creare: oggetti, merci, scambi, nascondono la manipolazione-inganno del potere maschile, non inteso come fisicità, ma come segno, codice, messaggio dello stare e vivere del capitale e che le donne in modo singolo hanno integrato nel loro inconscio collettivo del lavorare insieme.
Desiderio, bisogno, cambiare la vita sono unità difensive nelle quali riconoscere un modo di essere, di parole, di fare modalità giuste di per se stesse e di risposta ad uno statu quo ante. Il quotidiano ideologico tiporta tutto nel calderone di difesa del proprio territorio, dello spazio esistente, della giustificazione nello stringere la mano alle istituzioni, nel sottile interesse di non mai creare uri «altro» storico o precisando un soggetto donna concreto e tangibile. Avrei preferito confrontarmi sulle “produzioni delle «artiste» e ivi rompere i concetti astrusi e romanticamente onirici, le immanenze materialistiche connesse all’opera d’arte come il dio padre fallo ha sempre voluto. Mi rendo conto della fatica insita nella rottura della ricerca di un altra strada, ma facciamola finita con i giochi del vero e del falso: non interessa.