anno nuovo violenza vecchia

attualità: cosa vuol dire per un giornale come il nostro seguire l’attualità?
Il problema è sorto tra noi ed ha suscitato dubbi e difficoltà.

gennaio 1978

«sequestra e sevizia una dodicenne». Con questo titolo il Gazzettino indica in Giancarlo Boscolo, 46 anni, impiegato delle poste alla stazione di Mestre, il violentatore di una donna di dodici anni. L’Unità riporta la stessa notizia. Perché riporto altre fonti? La mia cautela è ispirata dalla necessità di evitare denunce penali causate dall’attribuzione non dubitativa della responsabilità della violenza effettuata dal «presunto» violentatore. Il Boscolo è attualmente detenuto sotto l’accusa di atti di libidine e violenza carnale.
I fatti: Il Boscolo fa salire in macchina la ragazza, a Marghera, e la porta nella casa della sorella assente.
La trattiene per tutta la notte.
Il consenso a questo stupro lo dà tutta la cultura maschile, dalle canzoni sulle pastorelle medioevali obbligate a giacere con virili «cavalieri», a tutta la successiva produzione letteraria e cine matografica. (Grazie, Lattuada).
Giancarlo Boscolo, arrestato la mattina dopo dalla polizia femminile, per il momento è in carcere. Ci resterà, probabilmente: la legge prevede che in caso di violenza a una donna sotto i quattor dici anni non ci siano attenuanti. Magra consolazione: cosa significa una legge che ci tutela finché siamo ancora del padre, e, una volta cresciute, si zittisce, definendoci quindi terra di nessuno e di tutti, fuorché nostra? Quanta
efficacia ha una legge che viene applicata solo in seguito a denuncia di parte, al contrario di quelle che tutelano la proprietà privata, la religione e lo Stato? Cosa ce ne facciamo di una legge che prevede mille scappatoie, e che fa parte di un codice di leggi che sono ancora contro la donna? A cosa ci serve una legge che è contraddetta dal modo di vivere maschile? Che peso ha una legge, quando non ci è nemmeno concesso camminare tranquillamente per strada, in una cultura in cui il termine «passeggiare» riferito ad una donna ne indica l’immediata disponibilità ad ogni violenza maschile? Giancarlo Boscolo ha messo in pratica ciò che è normalmente consentito.
Il suo sarà un processo politico. Dietro ad una dodicenne ci sono tutte le donne. Nel 1977 ci sono state 8 denunce per violenza solo a Venezia. E nelle campagne? E quelle taciute? E quelle che ognuna di noi conosce, personalmente o per sentito dire?
La notizia di una violenza non è una vergogna per la donna, ma per l’uomo. Sull’opportunità o meno di pubblicare l’articolo sulla violenza di Mestre, sono emerse differenti posizioni, sia a Mestre dove è accaduto il fatto, sia alla riunione delle collaboratrici. L’attualità da riportare su Effe è solo quella interna al movimento, o anche quella esterna, e deve quindi comprendere anche quei fatti di cronaca locale, di cui danno notizia i giornali maschili, ma su cui noi possiamo informare in modo diverso? Altro interrogativo che rispecchia il precedente: nel caso di una violenza, dobbiamo analizzare come ci poniamo noi di fronte al fatto, o darne notizia? Da quando abbiamo riconosciuto che autocoscienza ed interventi esterni sono complementari ed inscindibili, mi sembra improponibile eliminare uno dei due contenuti. Quando saremo riuscite a trovare un modo di comunicare e fare informazione che li comprenda entrambi, avremo forse trovato il modo di fare informazione femminista. In che modo i giornali maschili riportano la notizia di una violenza? Possono porsi dalla parte del violentatore ed insinuare arbitrariamente che è stata «lei» a provocare. Possono dare maggior risalto al nome della donna violentata, piuttosto che a quello del violentatore. Possono pubblicare il nome di donne minorenni (anche se non è consentito dalla legge). Possono pubblicare la foto della violentata e non quella del violentatore. Possono preferire quella di assassini, ladri, o ragazzi implicati in reati politici, il che dimostra come la violenza alle donne ancora oggi non venga ritenuta «notizia», il che riflette la concezione a livello giuridico che la violenza alle donne non sia reato, o lo sia in misura minore. La foto di un maschio su Effe: cacovisiva. In mezzo ai nostri disegni dalla grafica sottile, tra i nostri articoli rara-, mente aggressivi, tra le nostre foto che documentano momenti di felice aggregazione, metteremo la foto di un «brutto» violentatore? Ma siamo davvero così felici come ci descriviamo? Cos’è la denuncia, se non esternare ad alta voce la nostra repressione, e i nomi dei responsabili della stessa? Come ha detto giustamente una compagna: dobbiamo colpire nella generalità, ma anche nello specifico. È bello pubblicare la foto di un brutto violentatore. Non è un caso che sui giornali maschili appaia Andreotti, o chi per lui, nel momento del suo massimo potere, e non appaia invece un violentatore comune, l’altra faccia dell’Andreotti pubblico. O diamo notizia delle violenze solo quando il movimento si è mobilitato, per paura di ammetterci quante volte il nostro intervento non c’è stato? Si può parlare di una violenza ad una donna solo dopo aver ottenuto il consenso di lei? E nel caso di una dodicenne? Abbiamo interiorizzato anche noi la concezione che per lei sarà una vergogna?
Nel caso della donna di dodici anni ho evitato di chiamarla bambina: «bambina» la chiama il Gazzettino, perché una lacrima venga versata, e subito asciugata, su un fiore macchiato. Per me è stata violentata in quanto donna, e il crescere non la salverà da altre violenze. Vengono violentate donne di ottant’anni: è un reato minore che merita una quantità minore di lacrime? E ancora: bisogna tenere in considerazione il parere della moglie del violentatore, che verrebbe coinvolta nel caso? Preferiamo vederla felicemente ricongiunta al marito e padrone, una volta che «i vicini» abbiano dimenticato? E gli altri venticinque milioni di mogli? Resteranno nell’illusione che il loro marito, «queste cose non le fa»?
E allora: chi violenta le donne? Arriviamo all’assurdo che sono le donne che diffondono la notizia, elemento indispensabile alla mobilitazione, a violentarle?
Non ci piace lasciarli tornare al loro rispettabile lavoro di impiegati dove, con la complicità del silenzio, un collega gli batterà una mano sulla spalla e gli chiederà: — Com’era? Dai, racconta.