banca: assalto alla cassaforte del potere

febbraio 1977

siamo contente che Effe ci dia l’opportunità e lo spazio per parlare del nostro collettivo che opera in condizioni particolarmente difficili, dovendosi inserire in una realtà di lavoro dispersiva e disaggregante. Questa occasione ci ha creato, all’inizio, un certo imbarazzo perché è la prima volta che scriviamo sulla nostra esperienza di collettivo e l’idea della scadenza ci dava ansia. Invece i nostri incontri si sono svolti in modo vivace e stimolante e ci hanno dato la possibilità di conoscerci meglio e di uscire all’esterno. Più di due anni fa alcune di noi, che avevano vissuto l’esperienza del Collettivo di via Pomponazzi, decisero di riportare le tematiche femministe sul posto di lavoro. Contemporaneamente il nostro Sindacato provinciale (FIDAC-CGIL), consapevole dell’assenza quasi totale di donne dalla sua struttura, elaborò un questionario da distribuire ai lavoratori bancari sulla «questione femminile». Proprio questo ci permise di incontrarci e cominciare a lavorare insieme. Sin dall’inizio però si delinearono le diverse posizioni: da un lato le proposte di intervento femminista partendo dal nostro specifico di donna, dall’altro la rigida posizione sindacale che considerava la donna solo come lavoratore. Iniziò un lungo periodo di scontri ideologici, di caccia alle streghe causato dalla paura che la presenza di molte compagne di orientamento extraparlamentare potesse dare forza ai gruppi all’interno del sindacato e che il nostro discorso di autonomia si risolvesse, di fatto, in un separatismo, Questo conflitto ci portò ad interrompere l’attività nel sindacato. Profondamente deluse da quella ottusità burocratica, sentimmo l’esigenza di crescere come donne e di avere momenti nostri di confronto complessivo. In quella fase di confusione e di stanchezza, decidemmo di iniziare come gruppo di autocoscienza.
L’autocoscienza però ci dava delle sicurezze a livello personale ma non ci consentiva di esprimerci sul posto di lavoro. Nacque allora il collettivo e con esso altre difficoltà. Per un certo periodo di tempo, abbiamo, involontariamente, riproposto il modo tradizionale di fare politica, in particolare quelle compagne che, avendo militato a lungo nel sindacato e nei partiti, avevano assimilato la aggressività e la competitività maschili. Contemporaneamente ci siamo rese conto che non esisteva nessuno spazio di intervento all’interno dell’azienda, perché l’unico strumento politico concesso era il sindacato; da qui la necessità di rientrare per poter avvicinare meglio le donne, attraverso assemblee negli uffici. A questo punto vorremmo lasciare spazio alle testimonianze di alcune compagne che hanno vissuto e vivono questa esperienza in prima persona.
M. La mia esperienza sindacale è stata pazzesca. Dopo la grande «concessione» di avermi fatto entrare nella sezione sindacale della mia azienda, al posto di un maschio, pretendevano che io parlassi e mi comportassi come un uomo, dimostrando di avere «le palle quadrate». Io che sono timida e ho grosse difficoltà a parlare con gli altri, mi sono trovata di colpo costretta ad andare da sola negli uffici a tenere assemblee (metodo che non viene mai seguito per i sindacalisti di «nuova nomina»). Invece quando dovevamo incontrarci con le altre sigle sindacali ero sempre accompagnata da tanti bravi maschietti. Questa situazione mi portò ad uno stato di esasperazione che decisi di dare le dimissioni… con grande gioia dei compagni sindacalisti.
R. Anche io vivo un’esperienza molto difficile. Per un certo periodo i compagni del sindacato, con cui lavoro, hanno aspettato le mie dimissioni, per poter formare la cosiddetta «segreteria di ferro», in contrapposizione, chiaramente, alla mia «segreteria debole» di donna. Ho delle enormi difficoltà ad inserirmi nel sindacato in quanto sono l’unica segretaria donna nella mia sezione sindacale e risento moltissimo di questo isolamento a tutti i livelli: come donna, compagna e sindacalista. Le colleghe mi rifiutano come loro punto di riferimento per qualsiasi informazione in quanto riflettono la logica maschile, per cui soltanto il maschio può dare garanzia e fiducia. In questo momento ho anche un rifiuto nei confronti delle colleghe dopo l’esperienza di pochi giorni fa: avevamo convocato un’assemblea per sole donne alla quale non ha partecipato nessuna; ho saputo che l’assenza era stata provocata dal boicottaggio degli stessi maschi sindacalisti, i quali avevano messo in giro la voce che l’assemblea era strumentalizzata dalle «femministe».
G. Per me non sono stati così negativi i rapporti con i compagni che si dimostrano un po’ più aperti e non mi boicottano anche perché in questo momento non hanno a disposizione «maschi più in gamba». Tuttavia anche io vivo una grossa dissociazione fra il modo di fare politica, e quello alternativo che mi sento dentro. I maschi sono sempre in competizione tra loro, fanno interventi lunghi, noiosi, ripetitivi, a gara fra chi risulta più bravo, emarginando chi ha difficoltà ad esprimersi o è meno «diligente» perché vive più intensamente il suo privato, Inoltre è veramente difficile ogni giorno dover mediare e nel rapporto col sindacato, per adeguarmi alla mentalità maschile e pseudo efficientista, e, ancora più difficile, nei rapporti con le colleghe, con le quali non posso mai esprimere la mia reale pratica di femminista.
D. e P. Noi invece abbiamo dovuto affrontare la difficile scelta di non poterci e volerci più impegnare nell’attività sindacale.
Abbiamo vissuto una realtà angosciante, finché ci siamo state dentro, perché dovevamo sopportare la cosiddetta «porta in faccia» da parte dei sindacalisti. Noi infatti non siamo assolutamente riuscite ad avere alcuna voce in capitolo nella nostra sezione sindacale che, sovrabbondando, allora come oggi, di «bravi maschietti» e di brave «maschiette», ha avuto la possibilità di ignorare i nostri discorsi e le nostre proposte operative (parlare noi donne alle colleghe del nostro specifico: famiglia, sessualità, lavoro, ecc..) emarginandoci e mettendoci nell’impossibilità di agire all’interno dell’azienda. La nostra realtà oggi è questa: nonostante le difficoltà descritte abbiamo avuto la possibilità, in alcune banche, di incontrarci con le donne in riunioni e assemblee durante e fuori l’orario di lavoro. Come collettivo siamo state all’interno delle banche nelle scadenze più importanti del movimento, quali l’aborto, l’8 marzo, la manifestazione contro la violenza sulla donna, con volantini distribuiti alle colleghe. Inoltre ‘ facciamo pratica di autocoscienza divise in piccoli gruppi e ultimamente la stiamo sperimentando anche all’interno del collettivo.
«La prima sensazione che provo quando dico di lavorare in banca è di vergogna».

I nostri rapporti all’interno della banca
Come siamo arrivate al Collettivo: Testimonianze.

P. La prima sensazione che provo quando dico di lavorare in banca è di vergogna. Non riesco assolutamente ad identificarmi in una condizione di privilegio che è generalmente attribuita alla nostra categoria. Ho cercato di analizzare questa mia sensazione e mi sono accorta che deriva dal fatto di avere vissuto le lotte del ’68 e di avere fatto politica in un certo modo, per cui provo un rifiuto viscerale ad identificarmi con la borghesia. Forse questo è un retaggio di moralismo politico, perché trovo assurdo rinnegare le proprie origini, ma certamente è uno dei motivi del mio mancato inserimento nella condizione di impiegata bancaria. Mi sento alienata: né la sicurezza del posto di lavoro, né gratifiche economiche mi compensano. Non creo. Sto in un ambiente mediocre e privo di stimoli intellettuali, non ho possibilità di dialogo. Nel momento in cui ho accettato di uscire da questo isolamento che inizialmente credevo imposto dagli altri, ma che in fondo io stessa volevo per un rifiuto globale di quella realtà, l’unica persona con la quale comunicavo è stata volutamente allontanata dal direttore. A quel punto ho sentito, fortissima l’esigenza di rapporti umani più autentici e cercando altre compagne sono arrivata al Collettivo.
G. In realtà non si trattava ancora di un collettivo funzionante perché avevamo ed abbiamo’ tuttora molte difficoltà a riportare all’esterno i nostri contenuti, a confrontarli con l’ambiente in cui lavoriamo, in particolare con le stesse colleghe.
D. Venivo da un’isola rossa. Un mondo completamente diverso: manifestazioni, compagni e lotte studentesche, discorsi avanzati e tanto comunismo. L’impatto con il mondo del lavoro è stato traumatico, vivevo in pieno il mio isolamento.
Per la prima volta avevo il contatto con il «diverso» e la mia reazione è stata estremamente violenta. Nel mio ufficio ero solo capace di contrappormi in modo aggressivo: non dialogavo, mi scontravo, continuavo la mia militanza politica all’esterno e tutto il mio discorso finiva lì. Sono riuscita a cambiare il mio atteggiamento solo nel momento in cui mi sono avvicinata al femminismo e scoprendo un modo nuovo di rapportarmi alle donne, l’ho messo in pratica anche sul posto di lavoro. Ora questo rapporto è estremamente difficile e contraddittorio: prima sentivo le colleghe diverse ed opposte a me, senza la minima possibilità di dialogo, adesso comincio a capire che cosa vuol dire essere donna in questa società sotto diversi aspetti e a vari livelli di coscienza e ricerco quanto di loro è in me e quanto di me è in loro. Perché e ora mi sembra giusto dedicare la maggior parte del mio tempo alle donne e creare ed elaborare con loro, è giusto che io parta da lì, dalla mia realtà lavorativa, tra persone che, senza averlo scelto, dividono con me buona parte della loro vita. Mi rendo conto ora quanto sia deleterio non confrontarsi mai con il «diverso», rinchiudersi in sé stesse senza mai rapportarsi alla realtà.
Guardandomi intorno sono riuscita a rompere il mio isolamento, a partecipare alla vita del Collettivo, a scoprire
altre donne che hanno i miei stessi problemi e hanno vissuto le stesse mie esperienze sul posto di lavoro.
Ma essere femministe in banca vuol dire anche avere il coraggio di non rifiutare la realtà di donne che non capiscono la loro condizione, che si attaccano al loro ruolo di madri felici e di mogli esemplari, tutte estremamente borghesi ed inserite, estremamente «per bene».
S. e O. Abbiamo sentito la necessità di avvicinare le nostre colleghe in quanto donne come noi e con gli stessi problemi di tutti i giorni, chiaramente impostando un discorso alternativo a quello di sempre che era quello del vestire, dell’uomo, etc. anche perché ci riusciva molto difficile la doppia vita di lavoratrici e di donne femministe. Inoltre c’era la necessità di vivere i rapporti con le nostre colleghe in maniera più sincera e di stare insieme con solidarietà,
E’ stato molto entusiasmante organizzare il primo incontro con queste donne, scoprire la loro disponibilità ad affrontare insieme i rispettivi problemi e sentire con gioia che in alcune di loro c’era l’interesse di voler leggere «effe» … ed ecco nascere in noi la voglia di fare, di dire, di cercare ed infine di distribuire il nostro giornale e così, abbiamo atteso con trepidazione confidando tutte e due sui «poteri magici» di «effe» e noi: «Vedrai che dopo che avranno letto questo numero di ” effe ” capiranno tante cose — sicuramente —-! Certe cose sono talmente lampanti che non possono non sentirle!».
Dopo tanta attesa, tanta speranza venne il momento della verità… e loro: «Sai, più leggo questo giornale e meno mi convinco. Sì, perché in fondo, non bisogna generalizzare: quello che accade ad alcune, non è detto che accada a tutte». A questa risposta ci siamo sentite «di merda». E giorno per giorno lo scoprire la loro non disponibilità verso i nostri discorsi alternativi ed il loro compiacimento nel vedersi donne nello stesso modo e con gli stessi ruoli di sempre ci ha portate a chiuderci nuovamente. Ed ora a distanza di tre mesi, stiamo vivendo in un clima che è peggiore di quello di prima: pettegolezzi, cattiverie e persino compatimento verso di noi che per loro siamo insoddisfatte e cerchiamo altrove la nostra realizzazione.
Pensieri:
«Essere femminista vuol dire non essere femminile».
Essere noi stesse nel nostro ambiente di lavoro è difficile. L’ostilità è pesante sia da parte, degli uomini che delle donne. Essere bancari significa essere un compendio di borghesismo e di mediocrità.. Non è un mondo di lavoro in cui ci sono persone che hanno problemi di sopravvivenza, ma bisogna fare una rivoluzione di costumi, di mentalità che è molto più lenta in quanto meno sentita: non è ritenuta impellente e necessaria. E’ facile lottare per uno stipendio più alto, è difficile lottare per la nostra dignità di essere umani. Estremamente più difficile è quindi parlare di femminismo. Ti senti una marziana.
Le donne da noi sono ad un livello di falsa emancipazione. Lavorano, guadagnano, sono indipendenti, non hanno mariti che le picchiano, sono soggette a strumentalizzazioni meno macroscopiche ma altrettanto forti. Sono relegate in uffici in cui svolgono i lavori più RIPETITIVI e più noiosi: lavori che gli uomini rifiutano di fare. Svolgono mansioni che in genere richiedono pazienza, perché è una dote tipicamente femminile e quindi diventa naturale e logico attribuirgliele. Fare carriera per le donne è quasi impossibile, se non al prezzo di assumere un modello tipicamente maschile. Le vediamo muoversi, a volte, e ci prende un senso di vero disagio: sono disponibili ad una prostituzione continua; il sorriso verso l’uomo è una regola, l’abito carino, il trucco, i capelli a posto sono un obbligo, piacere agli altri è un dovere. Hanno un ruolo tipicamente cancellare verso i colleghi di lavoro.
La maternità, tanto esaltata dal nostro mondo borghese, diventa un peso ed un fastidio per l’azienda. La donna incinta viene vista come un essere che non produce più o che certamente produrrà molto meno.
Anche la donna libera si muove male: è inevitabile che con lei ci si possa «provare». E la donna femminista che rifiuta i ruoli è un’esaltata, un’insoddisfatta, che è così in quanto non ha un rapporto valido: «Se ti dessero una bella “sbattuta” questi discorsi nevrotici da femminista non li faresti: cerca quindi di scopare di più e di pensare di meno».
Di lei si diffida, è vista male anche dalle altre donne. I suoi discorsi non vengono accettati, vengono interpretati come alienazione o fuga intellettuale. Non risponde ad una immagine loro. A volte non è madre, non è moglie e quindi è ancora più difficile l’intesa. E’ una eterna ragazzina che rifiuta le sue responsabilità. E’ evasiva e poco realista, rifiuta — e questo è un giudizio comune — di diventare donna.
«È stato molto entusiasmante organizzare il primo incontro con queste donne»
«La maternità tanto esaltata diventa un peso e un fastidio per l’azienda».

essere femminista vuol dire non essere femminile
Come esprimere che rifiutare di essere donne in senso tradizionale vuol dire volerlo essere veramente? Come esprimere che non accettare più d’essere per l’uomo come a lui piace che noi siamo, non vuol dire rifiutarlo ma semmai criticarlo? Come spiegare che questo essere femministe non è una fuga da noi stesse, ma una ricerca della nostra vera identità falsarla ed impoverita da secoli di storia: una storia in cui solo l’uomo ha vissuto come protagonista? Ed anche il compagno di sinistra è ben deciso a mantenere il suo ruolo di protagonista, anche se, verbalmente, sembra più disposto a dare spazio alla donna. Questo atteggiamento è riscontrabile nella pratica che viviamo anche all’interno del sindacato. Gli strumenti che dobbiamo usare non sono i nostri. Ci sentiamo considerate come soggetti politici solo nella misura in cui assumiamo un ruolo di militanti, non capiscono che la nostra crescita personale è contemporaneamente crescita politica: non accettano la nostra esigenza di separatismo. Inoltre non hanno raggiunto un rispetto assoluto per la donna in sé, ma soltanto relativo a quelle donne che, .facendo politica, fanno parte del loro mondo, mentre conservano spesso atteggiamenti reazionari di superiorità e di gallismo con le altre. La considerazione che dicono di avere per la donna è forzata perché acquisita razionalmente come necessità intellettuale, e non sentita in modo spontaneo e naturale con le conseguenze che sappiamo nei rapporti interpersonali.