«che fare?» apriamo il dialogo sulle 150 ore

capire la scienza come ideologia, come controllo sulla donna sul suo comportamento

febbraio 1977

la «Lettera aperta a Tina Anselmi» di Doriana Giudici pubblicata su «Effe» di novembre, ponendo degli interrogativi polemici sull’occupazione femminile, sull’organizzazione del lavoro, sui problemi della salute, sottintendeva, a mio avviso, un discorso più generale su cui è importante riflettere.
Di casi specifici riguardo a licenziamenti di manodopera femminile, ad ingiustizie e supersfruttamento sul posto di lavoro ne veniamo a conoscenza tutti i giorni e tutti i giorni la nostra rabbia e la nostra volontà di lotta cresce. Ma questo non è sufficiente ed anzi può rischiare di rimanere fine a se stesso se non lo si guarda in un’ottica di analisi politico-economica tutta volta alla conquista di sempre più vasti spazi di potere di intervento. Quando leggiamo nella «Ideologia tedesca» che «la trasformazione dei poteri personali in oggettivi, attraverso la divisione del lavoro, non può essere abolita togliendosene dalla testa la rappresentazione generale, ma solo se gli individui assumono nuovamente sotto se stessi questi poteri oggettivi ed aboliscono la divisione del lavoro» — non possiamo non sentirci coinvolte, proprio perché donne e quindi doppiamente vittime della divisione del lavoro, nella ricerca di una metodologia di analisi della realtà che ci consenta di superarne le contraddizioni.
Ma come possono le lavoratrici appropriarsi degli strumenti conoscitivi adeguati per operare questo processo di sintesi?
Come utilizzare l’esperienza quotidiana di donna-che-produce e di donna-che-la-vora-in-casa per un progetto che vada al di là della semplice denuncia e testimonianza?
Il tema che si pone, e non a caso, è quello della scienza e del suo significato operativo in una società capitalistica. Nell’ambito delle 150 ore, di cui già da tre anni la FLM è stata iniziale promotrice, questo discorso è il nodo principale con cui bisogna fare i conti prima ancora della proposizione di un qualsiasi tipo di studio e di intervento nella realtà. Infatti, dato per acquisito oramai che nella scienza è pesantemente presente l’ideologia dominante della società, il problema che si pone allora è quello del controllo sociale della scienza, che implica l’individuare i legami esistenti tra il modo di produzione, i rapporti tra le classi, i fini sociali e i valori dominanti da una parte, e i metodi, le scelte, gli scopi delle diverse discipline scientifiche dall’altra. Il tema essenziale è quello di come usare gli strumenti che la scienza ci offre, non nel senso di rispondere ad un generico o magari particolare «cui prodest?» sociale, ma nel senso di vagliare criticamente il metodo, il rapportarsi cioè di queste metodologie e tecniche alla parcellizzazione della scienza nel capitalismo.
Nel momento in cui ci rendiamo conto che il sapere è frantumato in branche e sub-branche i cui strumenti sono a loro volta settorializzati e, in ultima analisi, non riconducibili fuOri dello specifico campo di cui fanno parte, dobbiamo riconoscere il collegamento con l’uso capitalistico del sapere. Infatti l’accumulazione capitalistica è possibile proprio quando il reale è scomposto in tante frazioni ognuna delle quali è affidata a scienze parziali, incapaci di fornire una visione esaustiva della realtà tutta a chi tende a trasformarla, ma capace, invece, di dare al capitale tutti gli strumenti conoscitivi utilizzabili per la propria riproduzione.
Queste considerazioni sono il frutto di lunghi e non sempre facili rapporti — proprio per la diffidenza verso la cultura
degli «addetti ai lavori» — di quelli che della «comunità scientifica» fanno parte con. quelli che ne sono soltanto oggetto passivo di studio. Per superare la dicotomia le 150 ore rappresentano un mezzo importantissimo, perché la dialettica, pur con tutte le difficoltà che i rapporti di potere all’interno di un sindacato presentano, nasce e si sviluppa dalla realtà e alla realtà ritorna arricchita da momenti di riflessione e sistematizzazione teorica.
Il rigore scientifico, in quest’ottica, è d’obbligo proprio quando ci scontriamo con i vissuti di ogni giorno; quando le compagne del tale consiglio di fabbrica denunciano la pesantezza dei ritmi, denunciano gli aborti bianchi, denunciano la loro subalternità come forza-lavoro femminile; quando le lavoratrici a domicilio raccontano che cosa significhi sulla pelle il decentramento produttivo, che cosa significhi lavorare senza termini di orario, che cosa significhi perdere, se mai era stata conquistata, la propria personalità di donna e diventare disumanizzata produttività.
Il discorso è certamente lungo e necessita degli apporti di ogni donna che, vivendo nel mondo del lavoro o essendone esclusa, voglia confrontarsi con questi problemi e impadronirsi della logica che li lega tutti quanti. Il disagio psichico, che può essere espressione di una imposizione di ruolo — l’immagine di una donna che deve vivere in funzione di una logica a lei estranea — è soltanto il primo passo verso la comprensione, scientificamente intesa, della funzione che ha la scienza come ideologia, come controllo della donna e del suo comportamento, come costruzione di un modello a cui debba corrispondere: una donna che produce, che accetta il suo ruolo — anche quello di essere esclusa dalla produzione quando non è più necessaria —, che sta al proprio posto nella famiglia, che sappia comportarsi secondo le circostanze.
Queste non sono solo proposte programmatiche nella misura in cui da tempo ci si sta muovendo in questa direzione (a Roma stessa stanno partendo delle ricerche 150 ore sull’occupazione femminile che hanno proprio questo taglio), ma mi sembra che se tutte quante non riflettiamo ogni giorno su queste cose e non diamo un contributo fattivo, non riusciremo mai ad elaborare una politica d’intervento rigorosa e vincente.