cronaca di un processo per stupro

Il 14 maggio ci sarà la seconda udienza del processo contro Claudia Caputi, accusata di simulazione di reato e di calunnia in merito alla seconda aggressione subita, il 30 marzo 1977. Era allora in corso il processo contro quei giovani dell’Appio Tuscolano che l’avevano violentata in 17 su un prato della Caffarella a Roma.
In questo prossimo appuntamento al tribunale di Roma, i giudici ascolteranno i testi proposti dalla difesa, per dimostrare l’attendibilità della lettera memoriale scritta da Claudia e le inadempienze della magistratura,che si è ben guardata dal verificare le denunce di Claudia, ma ha preferito trasformarla in mitomane,«strumentalizzata dal movimento femminista per farla diventare un simbolo dell’oppressione della donna».

maggio 1979

sono passati due anni da quei fatti. Molte cose sono cambiate per noi e per Claudia. Noi possiamo scegliere di tornare dentro il palazzo di giustizia insieme a Claudia, possiamo scegliere di fare i conti con quella vicenda, con quel pezzetto importante della nostra storia* politica di movimento. Claudia comunque il 14 sarà in tribunale, non può scegliere. Non è un “caso”, è una persona, una donna, che ha vissuto anni difficili e crudeli prima di aver incontrato il movimento, che ha vissuto due anni difficili e crudeli dopo aver incontrato il movimento delle donne. E che non può sfuggire quell’appuntamento con la “giustizia”, che è conseguenza di una scelta di denuncia che aveva intrapreso insieme con noi. Noi possiamo scegliere, e continuare a ri-, muovere i problemi che la storia di Claudia ha suscitato in ciascuna di noi, a rimuovere lei, questa ragazza diventata ingombrante e scomoda per il “movimento” oltre che per i suoi oppressori. Dobbiamo però capire che quei problemi ritornano.

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Omertà, complicità, reticenza, paura. Come a Castel Tesino, in provincia di Trento, dove una ragazza è stata usata per divertimento da un gruppo di uomini per più giorni, con la complicità dell’intero paese, uomini e donne. Come alla casa dello studente Civis di Roma, dove un’altra ragazza è stata violentata più e più -volte da un gruppo di studenti e amici, nell’omertà, nel farsi i “cazzi propri” di molti altri, studenti e studentesse, perché «lei sembrava che ci stesse».

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La prima udienza del processo contro Claudia è stata il 2 aprile. Nessuno ci aveva detto a che ora sarebbe cominciato il processo, Siamo in aula in poche dalle 9 di mattina. Claudia si nasconde ai giornalisti circondata da compagne.

Un signore grasso è dietro il banco degli imputati: è accusato di aver ucciso un uomo in un incidente automobilistico. Gli avvocati presentano una cartina dell’incrocio stradale. Una donna anziana vicino alla gabbia si tormenta, visibilmente agitata. A un certo punto grida, piange, si rotola sul pavimento. I/uomo morto nell’incidente stradale è suo figlio. Le compagne assistono atterrite alla scena. Alle altre, come a me, si riempiono gli occhi di lacrime. La madre continua a gridare “figlio mio”. Guardiamo con odio i giudici, l’imputato grasso, tutti. Un avvocato seduto vicino a me, commenta: «Sarà dolore? O è la solita sceneggiata per risarcimento danni?…». Resto agghiacciata. Poi rifletto, l’incidente era avvenuto nel ’72; sono passati sette anni. Ora la disperazione mi sembra meno autentica. Mi vergogno del mio cinismo. Penso infine che l’una cosa non esclude l’altra: il dolore e il bisogno di soldi.

Molto più tardi, dopo altri processi, è il turno di Claudia. Sono state ore brutte di attesa per lei. Siamo scappate al cesso, in quello sbagliato, vicino alle camere di consiglio, per fumare una sigaretta e sfuggire alla crudeltà dei fotografi. Claudia ha la faccia da bambina imbronciata e impaurita, tra il ridere nervoso e il piangere. L’avvocatessa Lagostena Bassi chiede al presidente di allontanare i fotografi. Si riuniscono per decidere. Tornano in aula, con le facce severe che devono avere i giudici. Per garantire la pubblicità al processo i fotografi possono restare. Molte compagne protestano, qualcuna grida. L’odio verso giudici, fotografi e tribunale sale denso dai nostri posti. Ma come, dice una vicino a me, il giudice non era un democratico? Appunto. Solo poche settimane fa protestammo tutte perché a Trieste un processo per violenza carnale fu fatto a porte chiuse. In quell’occasione una compagna che si era rifiutata di lasciare l’aula fu denunciata e processata per direttissima. Sessanta giornalisti appoggiarono la protesta delle donne rivendicando la pubblicità e il controllo pubblico sui processi per violenza carnale.

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Il fatto è che siamo fatte così, vogliamo sempre tagliare il mondo in due. Il maschile e il femminile. I buoni e i cattivi. 1 borghesi e i proletari. I reazionari e i progressisti, Così abbiamo fatto anche con Claudia: all’inizio l’identificazione era stata facile tanto lei appariva astratta, spersonalizzata, eroina secondo i canoni, vittima e pura. E poi di fronte alle ambiguità, di fronte alla parola prostituzione, la paura, il rifiuto, l’estraneità, la crisi.

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Ci siamo mobilitate in migliaia (ricordate? era il famoso ’77) per denunciare la violenza carnale subita da Claudia. Abbiamo cercato di costituirci parte -civile contro i colpevoli. Abbiamo sfidato la polizia sotto la sede della RAI, invaso il palazzo di giustizia. Abbiamo organizzato in un pomeriggio un corteo di migliaia di donne appena si è sparsa la voce che Claudia era stata aggredita e aveva subito violenza una seconda volta. Ma Claudia, tagliuzzata, atterrita, dall’ospedale racconta una versione dei fatti che non convince nessuno. Il pubblico ministero, Paolino dell’Anno, ne approfitta subito per inviarle un avviso di reato per simulazione. Tanto per garantire obiettività al processo contro gli stupratori della Caffarella. Claudia nella sua lettera-memoriale spiegherà poi che ha mentito perché aveva paura, perché era stata minacciata di morte. D’altra parte poteva intuirlo anche un reazionario misogino come dell’Anno: lo sfregio ha antiche tradizioni negli ambienti della malavita come avvertimento mafioso e punizione di chi tradisce. Non sono stati quelli dell’Appio Tuscolano ad aggredirla. Claudia quel giorno è andata a un appuntamento per sentire «gravi comunicazioni che la riguardano», fissatole da quel Vito Gemma che l’aveva fatta vivere in casa sua, come serva e amante, dopo che aveva risposto a una sua inserzione su “Confidenze” in cui si cercava una ragazza “alla pari”. Ma di che cosa hanno paura Vito Gemma e ì suoi amici?

il memoriale ignorato dalla magistratura

Dal “memoriale” di Claudia esce a pezzetti una storia. Un quadro di violenza al cui interno la violenza carnale è un episodio e forse non il principale. Per capire bisognerebbe partire da Villalago, il paese dal quale aveva voluto scappare insieme alle sue sorelle. L’inserzione di Vito Gemma le aveva aperto le porte della grande città, il padre — pur avendolo incontrato — non aveva avuto obiezioni. Le amicizie di Vito Gemma sono tutte nel giro romano della prostituzione e dell’eroina. Claudia scrive di bustine bianche che il suo ospite-padrone teneva in casa, di una bisca da lui frequentata. Fa nomi, racconta episodi. Parla di Maria, una prostituta dell’Eur, ora cieca e inebetita, dopo essere stata aggredita e massacrata con martellate in testa. Racconta i suoi tentativi di fuga, di una volta alla stazione Termini in cui in soccorso suo e di un’altra ragazza intervennero due agenti della Polfer. Parla di un processo che il Gemma deve subire per sottrazione di minore. Claudia elenca ciò che ha visto, per caso, nel periodo passato dal Gemma. Cose di cui non aveva capito tutto il significato. Fiduciosa forse ancora nella giustizia della giustizia, nella solidarietà del movimento. Ma per la giustizia è una mitomane, o peggio un burattino-nelle mani di spregiudicate femministe. Per il movimento, o per lo meno per una sua grossa parte, Claudia è diventata oggetto di riflessione e di autocoscienza. Si riscopre, attraverso di lei, la complicità di ciascuna con il mondo e la sessualità maschile, si riflette sull’utilità o meno di ricorrere ai tribunali maschili per denunciare e lottare contro la violenza carnale. Dell’altra violenza, di quella cominciata a Villalago, di quella subita da tante, diverse da Claudia e da noi, ma con storie simili, si parla poco. Ci si sente impotenti, incapaci di andare al fondo, senza strumenti di lotta. Ma la ruota gira e Claudia non può scendere: è diventata un personaggio, un simbolo, Sradicata da Villalago, sradicata dal rifugio opprimente della casa del Gemma, sradicata tra le donne del movimento. Ma dove è finita la politica è cominciata una solidarietà più silenziosa e più personaljzzata, di donne e compagne che hanno cercato di aiutarla nelle varie città d’Italia dove ha tentato di costruirsi un anonimato difficile. Una giornalista di Panorama e un gruppo di redattrici di Lotta Continua, cercano di verificare ciò che Claudia ha scritto. La bisca esiste. Maria Lalli esiste e conosceva quella Ida Pischedda, che fu trovata uccisa e bruciata. Il processo contro il Gemma esiste (e non è l’unico) per aver sottratto il bambino di Olimpia Locci, Gli agenti della Polfer confermano. I nomi che Claudia fa corrispondono a personaggi che già hanno avuto a che fare con la legge per traffico di droga… Ma la magistratura non fa alcuna indagine, ignora lo squarcio inquietante che emerge da ciò che Claudia ha scritto su un mondo che sarebbe suo compito indagare e perseguire.

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Si arriva così al processo che probabilmente si concluderà il 14 maggio. L’imputata è Claudia, umiliata a raccontare ancora una volta che sì, effettivamente il giorno della seconda violenza aveva le mestruazioni, ma la obbligarono a togliersi il tampone e poi la fecero lavare e gliene diedero uno nuovo. Con i fotografi e i giornalisti che la guardano ridacchiando perché a loro la cosa pare incredibile — vedete che mente — quando non riesce ad andare avanti e tra le lacrime dice che non vuole più rispondere ad alcuna domanda, che conferma quanto ha già deposto. Due anni fa scrivemmo su uno striscione: Claudia non è sola. Non risolviamo i suoi problemi mobilitandoci per andare in tribunale; ma anche quello conta. Se non altro per affermare che siamo cresciute e che, forse con più modestia, senza pretendere di avere soluzioni né ergerci a paladine delle ragazze sfruttate dal giro della droga e della prostituzione, siamo disposte a riconoscere la complessità e la contradditorietà della storia di Claudia e cioè della storia di ognuna.