di mio figlio

gennaio 1977

le mie unghie raschiavano spaventosamente sul cemento armato della città roccaforte, bastione difeso dalla «Ragione».
La «Ragione» degli uomini mi porta sofferenza, mi fa impazzire, mi spinge al suicidio, le mie lacrime, non smettono più di formare quei larghi fiumi dove scorre via la mia forza. Rinascerò da tale annegamento? A tratti coglievo un tesoro, era come formare dei cerchi dove difendevo il mio lento rinascere. Sì, formavo dei cerchi intorno a me dove serpeggiavo cercando un rifugio fuori dalla logica che opprimeva ogni istante della mia esistenza.
Mai come adesso avevo tanto sofferto mai però avevo tanto amato né tanto desiderato continuare la mia lotta.
Ero in piedi sull’alto di una scarpata, guardavo muoversi le onde che malmenano la città. Stranamente gli sguardi mi credevano nel fondo di un pozzo e calcolavano con malizia la mia impotenza.
Voglio rivederti come ti ho visto spesso; ridevi beato, io ti contemplavo senza saperti, ma gaia di essere amata da te.
Ti addormentavi nel bel mezzo delle canzoni naive che canticchiavo. Tutto era semplice. Ed io avevo partorito il silenzio. Il mio silenzio era fatto dei tuoi gridi, della tua fame, della tua allegria, dei cambiamenti che si operavano lungo la tua crescita. Il mio silenzio radicato nella tua camera, addobbato con i tuoi giocattoli multicolori, il mio silenzio ignorato. Il mio silenzio ignorato nel bel mezzo di questo cielo azzurro spietato che non era né gioia né speranza né aveva un rapporto con la nostra casa. Mio dolce amore, scavavo nei rivoli che formavano le mie lacrime, vi trovavo dei  sospiri  nei  quali  si  compiva un sacrificio che il resto del mondo assaporava come si fosse trattato di un benefatto.
Gli anni passavano. 1 giornali si ammucchiavano negli angoli. Delle donne si gettavano dalla finestra, delle donne gemevano nel profondo della terra. La case gridavano nel silenzio dei sobborghi.
Tu solo mi hai consolata in mezzo a questo selvaggio abbandono. Tu solo che mi volevi e mi sceglievi un istante dopo l’altro; ti addormentavi nel più profondo dei miei occhi e le tue guance erano più rosa delle rose e più tenere dei loro petali e ti accarezzavo come in un sogno. Intorno a noi la fortificazione s’innalzava costruita d’idiozia stratificata, di gemiti e di stridori tali da rendere il silenzio più spesso ancora, quasi tangibile.
Andavamo avanti vincitori, mano nella mano mio piccolissimo poiché malgrado tutto ci amavamo? Dopo tutto mi hai veramente scelta? miei pensieri erano vaghi al momento della tua nascita. Guardavo il mio corpo a partire dall’interno, non pensavo a niente di preciso, tutto scorreva chiaro; le mie battaglie le conducevo piuttosto contro la presenza maschile che mi ha accompagnata fino adesso: come uno schermo mi trasmetteva immagini e sensazioni dalle quali dovevo attingere senza riluttanza. Tutto era falsato attraverso la mediazione di questo cervello che si voleva piramide, mostro, assoluto.
Ecco che adesso le mie mani sono morbide. Le mie unghie tagliate corte danno alle mie dita un’apparenza infantile, i miei capelli sono ingombranti ma settori, io li faccio scivolare tra le mie dita per esaltarne questa corrente di vita che trasmettono alla mia pelle.
Prigioniera di me stessa, dovrò gettare molta acqua sull’amalgama polveroso e prefabbricato che paralizza ed asfissia le bocche di aria che mi permetteranno di scivolare piano verso il sole?
Ricostruirmi oppure uscire da me stessa, svestita nuda assolutamente, mille sguardi non si poseranno su di me perché non mi vedranno. Essere sola e nuda mi emoziona e desidero una tempesta che mi strappi d’un colpo al mio passato. Ma nessun vento freme abbastanza forse intorno a me vero so bene che la foresta mi chiama e mi sostiene silenziosa ma lontana. I miei piedi danzano ancora per enticare, la mia testa è ancora un’entità staccata dal corpo e propone dispone senz’ascoltare il resto.
Città, la città. E’ ancora un allarme, una sirena che impone decide racchiude tutte quelle vite in un unico suono pesante di significato. I gesti si accumulano, vuoti. 1 pensieri sono guasti dall’assenza di vita propria. Tutto è costruito secondo un valore, una forma nella quale nessuno ritrova, né la certezza della propria esistenza, né un rapporto tra la costruzione ed il volervi aderire.
Questa città è un labirinto con visi spaventosi come sulle cattedrali del medioevo. Vogliono farmi paura? Mi rannicchio in fondo alle mie tasche, dita piegate.
A volte divento topolino per trotterellare senza essere vista. Altre volte sono gigante e con una falcata, stivali di cuoio, salto sopra tetti e cupole, apro la bocca per ridere forte di questa povera sperduta: la città come un ragno immenso che tessa senza pausa.
Eri lì, nel mio corpo, come un punto interrogativo. Ti ho scelto e voluto e lasciato che mi riempissi, voluminoso e possessivo e hai bevuto il mio sangue che si rinnovava per te e respiravi con me.
Era ancora facile. Niente di più chiaro e tranquillo che la tua presenza all’interno, insieme talmente insieme, che non immaginavo che questo taglio sarebbe stato così fatale, così duro. Non sei tu ad esserti tagliato da me, ne io che spingendoti verso la luce ti ho allontanato. Tutto quello che si è svolto allora ci ha separati. Tutte le parole, tutte le parole, tutte le parole. L’idea di «madre» mi ha allontanata da te. Mi hanno vestita di nuovo, non ero più me ed improvvisamente non ti volevo più. Le frasi si attorcigliavano attorno a me per strangolare quello che rimaneva estraneo a quel nuovo abito: madre, a tutti gli effetti, mai più io, io soltanto e libera di amarti, teneramente, libera di darti. Ma non ero libera di amarti perché me .lo imponevano. Non ridevo più. Non volevo sentire il tuo pianto però lo distinguevo fra tutti gli altri pianti di bambini.
Non volevo riconoscerlo né sapere quello che chiedeva. Volevo il mio viso e sapere se ero cambiata. Pensavo non riconoscermi nello specchio. E ‘il mio viso non era più me nel riflesso vago. I miei occhi non vedevano nient’altro che quell’immagine di me stessa abbandonata qualche tempo prima. Avrei dovuto chiedere delle matite colorate per disegnare sui muri della mia camera, degli schizzi, dei visi, i miei visi affogati lontano mi chiamavano invano. La notte era piena delle mie lacrime.
Fabbrica di sorrisi, per lo più ragionevoli,  io  sorrido.  Dì  questo  tempo passato rimane il mio ricordo di te ed i sorrisi di cattive fotografie. Lungo tutti quei sorrisi diversi, vicinissimi alle tue guance, come non sentire i miei sospiri e l’aspra dolcezza di quel crimine che si opera quando i sorrisi tutti strappati, ricaduti in un cestino, sparpagliati di angoscia, si sono cancellati per lasciare il posto ad uno sguardo spaventato. Le notti, le notti, le notti. Prima vinta dalla stanchezza. Poi infuriandomi contro la costrizione che tutto diventi così facilmente e così inevitabilmente abituale.
Ogni ora aveva il suo grido, il suo richiamo. Instancabilmente ripetevo gli stessi gesti.
Volevi tutto da me e mi guardavi senza mai lasciarti ingannare né senza lasciarmi ingannare. La casa non aveva più risonanze. Vi entravo e ne uscire indifferente. Tutto era identico. Intorno a me il bastione cresceva smisurato e mostruoso. Amore mio, amore mio ci avevano isolato, tu figlio ed io madre in un tutto che non aveva ragione di essere se non compreso nella gioia dell’esterno. Braccati sopra noi due, indissolubilmente tutto, gli occhi della morale, della quotidianità, del previsto. Ero sconvolta, frettolosa nelle mie idee, correvo come una cieca che cercava la sua immagine. Le giornate si ripetevano sporcate di monotonia. Parlavo, non mi convincevo, volevo trasformare il nostro incontro ma ero sola e tu troppo debole per aiutarmi, troppo forte di avere tanto bisogno.
Se taccio è perché gli orecchi che sembrano in ascolto sono distratti oppure pretendono sentire soltanto ciò che conviene, loro, lo taccio. Sono io in ascolto. Ascoltando, io formulo dei pensieri che si associano e si sviluppano nel mio silenzio. Ascolto senza problema poiché attingo instancabilmente alle parole che sono tali grazie soltanto al suono delle voci, agli sguardi che le accompagnano. Qualche volta le parole sono indecifrabili se sono modellate e ritagliate nella speranza di non essere nient’altro che parole. Ma la grazia della sensualità non sottomessa traspare più spesso tra le sonorità invertebrate dettate con sicurezza dalla logica del ragionamento. Ascoltavo tutte le voci. Mi guardavano e mi avviluppano: io le coglievo e ne facevo dei mazzi vibranti. La mia propria voce affondava come una nave ed io come una vela tesa al gran vento di prora ero lo schermo a tutte quelle voci che utilizzavo dando loro un eco che non possedevano. Avevo la pazienza di tutte le ore che aspettano l’alba. Mi sentivo insieme dolce e fremente. Quelle voci non mi fortificavano ma possedevano delle qualità che volevo assaporare fino in fondo, lo che avevo la gola tagliata mi cullavo nelle parole di altri. Sapevo che accumulavo delle forze per parlare più forte e più in alto che mai.
Certi giorni le voci mi davano una specie di consolazione. I rapporti che creavano con me m’invitavano alla vita. Spesso però le sentivo scivolare sulla mia pelle sinuose e vaganti, voci spente che non parlavano, voci senza sguardi. Ero così infinitamente desiderosa che ero pronta a raccogliermi per ascoltare le voci che tacevano sulla riva delle mie palpebre. Sono su quest’isolotto, legata, guardata a vista, sono la terra stessa, mi sfidano di fuggire, mi assillano, io penetro profondamente nei miei singhiozzi, guardo il cielo che non risponde, la linea verde all’orizzonte si stende ovunque. Posso ancora giocare a nascondino con me stessa, devo dunque cercare di non più soffrire, la conoscenza delle cose non essendomi stata di aiuto nel pervenirvi, verso dove indirizzare i miei passi ansiosi?
Allora fragile e vincitore e cresciuto di anni moltiplicati per mille, sei ancora nel fondo dei miei occhi, spaventoso e delizioso. Sei all’uscir della mia bocca nella mia voce che diventa grido per chiamare in aiuto le stelle lontane, sei sulle mie pupille angelo tenero e beffardo, una bella immagine incastrata in tutti gli interstizi del mio corpo, sei nel mio spirito, favola, avventura, ironia della sorte, ispirazione; è nei tuoi occhi che il mio sguardo si perde, è seguendoti a passettini poi correndo che ho penetrato il meraviglioso. Sei nel sole che mi scuote violento e nelle notti dai sogni fiorenti. Poiché mi è stato dato di averti conosciuto, posso enumerare le tue virtù e le tue insolenze.
Ricopio me stessa ogni giorno, sono come una fontana dallo scorrere infinito e dolce. Ciascuno dei tuoi gesti mi provoca e mi dà lo spazio nel quale trovare la strada. Ciascuno dei tuoi sorrisi, mio grande tenero bambino piccolo, una mattina che eravamo persi l’uno per l’altro, un ritrovarsi e una speranza.
Ho armato il mio pugno di pugnali e di stiletti e tutti insieme li lancio vigorosamente e ripetutamente verso queste reti che hanno gettate su di noi rinchiudendoci soli.
Tuffi il tuo sguardo al di là non vedendo il pericolo od ignorandolo e per questo fatto stesso sfidandolo, ma io, ma io stravolta, lo sguardo implacabile, mi getto frettolosa e brutale contro i muri che s’innalzano intorno a noi. lo li abbatto costantemente ma altri rinascono, sono estenuata. Sei qui addormentato nelle mie braccia, la città è nel lontano, racchiusa su se stessa e malata, il giorno rinascerà, dove sarai?