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donne immigrate nostre sorelle

«Non credo aver mai incontrato un uomoper il quale tutti gli uomini siano del tutto Uomini».Jean Rostand (Memorie di un biologo)

maggio 1979

Su una popolazione di approssimativamente undici milioni d’immigrati nei Paesi membri della CEE, le donne immigrate rappresentano all’incirca 3,5 milioni di persone, di ogni nazionalità. Generalmente sono originarie di regioni povere o sottosviluppate e sono, in gran parte, emigrate per seguire il marito. Spesso analfabete, provengono frequentemente da un ambiente di subcultura, dove il ruolo della donna .si limita a compiere i lavori domestici e ad occuparsi della casa.

Orbene, se è vero che non si possono dissociare i problemi delle donne immigrate da quelli della condizione femminile in genere, né da quelli della popolazione immigrata nel suo insieme, è importante identificarne la caratteristica specifica, pur articolandosi con una problematica globale. La condizione della donna immigrata è, in effetti, ancora più rivelatrice nella sua complessità di quella dell’uomo, della condizione dei lavoratori immigrati. Le difficoltà accumulate cui va incontro ed alle quali deve far fronte in quanto donna, madre, lavoratrice, esiliata in un paese straniero, rendono la sua situazione estremamente precaria e dolorosa.

Tagliata fuori dal suo ambiente d’origine, totalmente estranea al ceto di emigrazione di cui ignora le usanze e la lingua, appartenente alla classe sociale meno privilegiata, ella avverte molto più dell’uomo, l’isolamento, lo sradicamento, la solitudine, la miseria materiale, morale e culturale. Così, pure, la condizione della donna immigrata è ancora più rivelatrice di quella della donna del paese di accoglienza, più rivelatrice anche della condizione femminile in genere e delle disuguaglianze e discriminazioni esistenti fra uomini e donne, tanto a livello della famiglia che del gruppo sociale più vasto.

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Fra le numerose difficoltà incontrate dalla donna immigrata, si potrebbe menzionare ad esempio:

La lotta per la sopravvivenza quotidiana

La quotidianità dell’emigrante è fatta di miseria materiale, morale, e di una lotta permanente onde guadagnare quel denaro la cui ricerca urgente ha capovolto la sua vita e quella della sua famiglia. Questa preoccupazione fondamentale rinvia tutte le altre in seconda fila. Infatti, è sulla donna che pesa la responsabilità della vita della famiglia, delle condizioni materiali dell’esistenza.

La conoscenza della lingua del paese d’origine e del paese di accoglienza

L’uomo se la cava, i bambini vengono istruiti nella lingua del paese di accoglienza. La donna è più sfavorita. Ella non può comunicare con il mondo esterno e quasi più nemmeno con i suoi figli. I genitori — e soprattutto la mamma — non sono generalmente preparati a comprendere ed a far fronte a questa situazione. Pertanto, la scuola allontana i figli dai genitori e soprattutto dalla madre che, molto più del padre, è responsabile della loro educazione, soprattutto quando si consideri che deve trasmettere ai medesimi la lingua e la cultura originali.

La casa rappresenta per la donna immigrata il primo contatto con il paese di accoglienza. E’ tanto più importante che costituisce sovente l’unico spazio in cui la donna immigrata può evolvere e dove rimane rinchiusa per la maggior parte del tempo.

Molte volte non soddisfa (troppo piccola, insalubre).

Nella ricerca di un alloggio, la donna immigrata va incontro alla xenofobia ed al razzismo. I rapporti con il vicinato sono generalmente inesistenti, od esistono sotto forma di un atteggiamento ostile e discriminatorio.

L’isolamento

La donna immigrata si trova più sprovvista di coloro che la circondano: l’uomo — bene o male — conserva il contatto con il mondo esterno attraverso la fabbrica, il cantiere, gli inevitabili rapporti professionali. I bambini in età scolastica hanno, anch’essi, un’apertura: quella della scuola. La donna immigrata, messa in clausura, corre il rischio di tagliarsi fuori dal mondò,, per incapacità o per mancanza di’ esperienza. Alcune sue usanze hanno perso il loro significato iniziale e costituiscono una frenatura, lo sradicamento e l’isolamento. D’altra parte, la donna immigrata non incontra molto la comprensione e la solidarietà delle donne del paese-ospite.

La scolarizzazione e l’avvenire dei bambini

La donna immigrata è mal preparata a comprendere i vari sistemi d’insegnamento della società-ospite e le prospettive d’avvenire offerte ai suoi figli. Eppure, l’avvenire dei-ragazzi è Urla delle sue principali preoccupazioni. La maggior parte dei bambini di emigranti — istruiti in una lingua ed in una «cultura» che non sono le loro — annoverano ritardi scolastici enormi, e dei blocchi a tutti i livelli. Non riescono né ad integrarsi nel mondo scolastico, né a conservare la loro identità culturale. Questa situazione è all’origine di numerose turbe psicopatologiche ed effettive che saranno altrettanti fattori irreversibili per tutta la loro vita.

E che cosa ne è della donna immi
grata al lavoro?

Qui, forse più che altrove, la donna immigrata è vulnerabile, In quanto straniera, è maggiormente colpita dalle disuguaglianza fra uomini e donne circa le possibilità e le condizioni di lavoro. La sua duplice qualità di donna e d’immigrata la fa situare al livello più basso.

E’ vero che occorre distinguere fra 1& donne immigrate che lavorano fuori per necessità economica e quelle che lavorano o desiderano lavorare per acquistare una certa indipendenza. Quelle che lavorano per necessità economica costituiscono la maggioranza delle donne immigrate salariate. Non hanno scelta ed acconsentono ad assumersi questo duplice onere allo scopo di realizzare il più rapidamente possibile il loro progetto d’avvenire. Se lavorano in fabbrica, ereditano la discriminazione esistente nei confronti del lavoro femminile. Se lavorano come domestiche, sottomanovali in un’impresa di pulizie, o domestiche ad ore, sono oggetto di uno sfruttamento aberrante, in un settore d’attività che annovera la maggior parte delle immigrate e che è il più mal difeso.

Le donne immigrate per le quali il lavoro costituisce un mezzo d’acquisto di una certa indipendenza sono, generalmente, più giovani o nubili. Esse pensano e sperano che il fatto di conoscere un mestiere le metterà in grado di «guadagnarsi la propria libertà», principalmente quando faranno «ritorno al paese».

Illusione? Senza dubbio, giacché fino a quando mancheranno possibilità reali e adeguate di formazione, e le medesime non corrisponderanno ad impieghi qualificati e meglio retribuiti, il lavoro salariato — sia qui che altrove — continuerà ad essere concepito come una costrizione ed una necessità prettamente economiche.

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Per concludere, chi sono le donne immigrate?

Sono donne di cui non si conosce più il nome. Da loro «al paese», erano identificate grazie all’appartenenza ad un gruppo. Qui, altro non sono se non un’etnia («la mia domestica portoghese», la pulitrice marocchina, ecc. ecc.).

Sono donne di nessun luogo che non hanno più storia. Il passato è rimasto al paese. Occorre, vada come vada, incominciare una nuova esistenza: è una vita in transito. Il presente non conta. A che cosa possono esserle utili i modi acquisiti nell’ambiente d’ origine?

E qui, la città ha una storia nella quale esse possono inserirsi?

— Sono donne che non sanno più comunicare.

«Al paese», ci si comprendeva attraverso qualche parola, qualche cenno… Qui, in città, parlare significa nascondersi.. Il linguaggio diventa prettamente funzionale. E poi, per comunicare, occorre conoscere molteplici segni, e saperli interpretare.

— Sono donne per le quali la libertà non vuol dire nulla. Sono sempre state sottomesse all’autorità di qualcuno: ma «al paese» questo era meno duramente sentito, giacché esisteva la comunità, la famiglia allargata, le altre donne. Qui, esse dipendono totalmente dal marito, persino dai loro figli. Sono sole: si ripiegano su se stesse.

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Giunti a questo punto della riflessione, il problema fondamentale si delinea, in tutta la sua acutezza: il fenomeno migratorio.

E’ da un’analisi globale del fenomeno stesso che potranno dipendere determinati tipi d’intervento da parte nostra, in favore delle donne immigrate. Inconsciamente o deliberatamente, i paesi «riceventi» (ospiti) attribuiscono ai lavoratori immigrati un ruolo nella produzione senza un posto equivalente nella vita sociale. Così, allorché i lavoratori immigrati sono colpiti — come i nazionali, se non di più — dalla disoccupazione, li si accusa di provocarla. Allorché le donne immigrate soffrono anch’esse dell’inflazione che erode il loro potere d’acquisto e quella parte del reddito familiare che tentano di spedire ai vecchi genitori, o ad una sorella, al «paese», gli si rimprovera di squilibrare la bilancia dei pagamenti.

Vittime insieme con i loro figli delle incidenze sanitarie delle loro condizioni di alloggio molte volte disumane, e i loro mariti, lavoratori, vittime anch’essi di troppo numerosi infortuni sul lavoro o’ di malattie professionali, si denuncia la loro «invasione» degli ospedali.

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La maggior parte dei responsabili ritengono che il momento non sia opportuno per intraprendere un’analisi globale del fenomeno migratorio, ed affrontare l’esame della condizione della donna immigrata, che è una delle sue… inadeguatezze (o delle sue incoerenze). La migrazione non può più essere considerata un elemento residuo per le economie e le società europee. Non è nemmeno un processo isolato, così come non lo è la situazione delle donne immigrate.

La migrazione e le sue conseguenze fanno parte integrante dì un processo generale in Un dato complesso politico, economico e sociale, ad una data epoca. La data epoca è quest’oggi. Oggigiorno, le donne immigrate dicono: «Non ci vogliono nel loro mondo. Ci allontanano da loro, ci isolano, così vogliono dimenticarsi…»(1). E noi, le loro sorelle europee, che cosa faremo?

 

da «Donne Europee parlano dell’Europa».

Riflessioni raccolte dal gruppo «Femmes pour l’Europe»

(1) Intervista di una donna marocchina — madre lavoratrice — che vive in una città di transito della regione parigina, da parte di IRFED, Parigi.