intervista

doris lessing spettatrice dell’apocalisse

un mostro sacro parla di sé, delle altre donne, della pace, della vita; ma anche di shikasta, il suo ultimo libro inedito in italia, in cui l’autrice presagisce l’approssimarsi della fine del mondo.

gennaio 1982

Doris Lessing: uno dei grandi “mostri” della letteratura contemporanea. Di quelli che sanno, durante lo loro vita, cogliere l’atmosfera rarefatta del paradiso delle lettere. “Quelli”. perché, come nel paradiso musulmano, è più facile entrarvi per un uomo. I sintomi? Dapprima il peso dell’opera, quando non si arriva più a contare il numero dei libri… Poi, la varietà dei generi perché i grandi mostri letterari scrivono di tutto, Doris Lessing scrisse all’inizio, romanzi classici, belle storie psicologiche nella tradizione inglese. É in quel momento l’erede di Joseph Conrad e di Graham Greene e non sono nomi scelti a caso: Conrad e Greene si collocano sulla linea degli scrittori dell’impero britannico, quello su cui non tramonta mai il sole. Sono i romanzieri delle tenebre, della fuga, della decomposizione e dell’ipocrisia. Descrivono la piaga dei valori coloniali. Uno dei suoi primi libri è “L’estate prima del buio”: ed è senza dubbio così che i bianchi vedevano la loro esistenza in Rhodesia, al tempo in cui Doris Lessing era bambina.
Nata in Persia nel 1919, da genitori inglesi, emigra all’età di cinque anni in Rhodesia, dove suo padre si dedica alle ricerche agricole. Questa esperienza è senza dubbio all’origine del mondo costantemente descritto dalla romanziera: un universo disperatamente scisso in due, dove i personaggi tentano invano di rimettere insieme i pezzi. La disgregazione è vicina, la catastrofe ineluttabile.
Il primo romanzo, pubblicato nel 1950, racconta l’amore proibito fra una donna bianca (isolata in un paese africano) e un suo servitore indigeno. L’impossibilità porterà la donna alla follia e il servitore al delitto. Nel 1951 esce la prima raccolta di racconti: “Le novelle africane”. Doris Lessing vuole a tutti i costi comprendere l’altra faccia della sua terra: quella che, non piace affatto alle autorità. Ma in quel tempo disperando della situazione e dopo aver seguito le vicende del partito comunista rodesiano, che lotta per i diritti dei negri, Doris Lessing arriva in Inghilterra, dove rimarrà tranne che per dei brevi viaggi. Ritorna per l’ultima volta in Rhodesia nel 1956, ma come conseguenza della passata militanza trova la sua presenza interdetta dalle autorità. Su questa esperienza scrive un saggio: “Going home”, che illustra con estrema lucidità la situazione razziale. Tra il 1952 e il 1969 escono i quattro volumi che compongono “I figli della violenza”, dove il romanzo diventa sempre più meditazione sociale e filosofica e che descrivono la lotta di “una donna come le altre”: Martha Quest che per dare un senso alla sua vita attraversa lotte affettive e politiche. Ogni aspetto del mondo della donna è analizzato in questi romanzi densi di riflessioni sulla condizione umana. Nell’ultimo volume della serie: “La città promessa”, avviene il passaggio dalla gioventù alla maternità fino alla scoperta che la terra promessa non esiste che nelle utopie.
Nel 1962 escono in Inghilterra: “I taccuini d’oro”. È uno scandalo. Mai come in quest’opera complessa e impossibile da riassumere, si è denunciata così chiaramente la condizione femminile. Ma i tempi non sono ancora maturi: il femminismo deve ancora riprendersi dal dopoguerra e si è in piena “mistica femminile”. La filosofia del ritorno a casa imperversa. I critici sono feroci: “È una donna frustrata che odia gli uomini”, anche Simone De Beauvoir aveva subito le stesse reazioni. Molti anni più tardi, quando i “taccuini d’oro” sono ormai diventati una bibbia femminista le reazioni di odio suscitate nei primi tempi non le ricorderà più nessuno “Il taccuino d’oro” segna una svolta nella vita politica di Doris Lessing, si interessa del movimento delle donne, ma è sempre troppo avanti rispetto ai tempi. Oggi, molti libri dopo, arriva alla fine del mondo con il romanzo “Shikasta”. Convinta dell’approssimarsi di una catastrofe a livello mondiale, le lotte attuali le sembrano un lusso superfluo. Persuasa del fallimento delle filosofie occidentali cerca le risposte altrove. Si interessa prima di occultismo, di parapsicologia, di sofismo, mistica derivata dall’islamismo. Non quella dei dervisci nomadi, ma la filosofia di Idries Shah che affascina molto gli intellettuali inglesi. Eco lontana di un’infanzia persiana? Sempre più deluso dal razionalismo, l’occidente cerca la verità nell’esotismo. Le sette sono di moda, il misticismo ha sempre sedotto le epoche traballanti. Si comprende facilmente come il sofismo abbia potuto affascinare Doris Lessing: i sofisti si autodefiniscono cercatori di verità. Idries Shah in una raccolta di antiche novelle dervisce racconta questa storia: “Un saggio sufi viene fatto arrestare da un principe che in cambio della Ubertà esige che il prigioniero gli riveli la verità che dice di conoscere e alla quale il tiranno non può arrivare. Ecco la risposta del saggio al suo carceriere: la prima verità — dice il sofista — è che mi chiamo Omar, la seconda è che tu hai accettato di liberarmi se dirò la verità, la terza è che tu sostieni di conoscere la verità che corrisponde aUa concezione che ne hai”.
Che bella descrizione delle difficoltà incontrate da Doris Lessing nei suoi scontri con la critica! perché è vero che rileggendo i suoi libri si è colpiti daU’assenza di concessioni e se ne ricava, come in tutte le grandi opere, un’impressione di disperazione. Doris Lessing non crede alla redenzione umana. Si considera una spettatrice dell’apocalisse, spettatrice privilegiata perché ha ancora gli occhi per vedere, cosa che non capita a tutti.
Ne ho molto discusso anche con donne più giovani di me e il loro rapporto con la madre è molto diverso da quello che io ho conosciuto perché adesso le madri lavorano. Io, ma anche le mie amiche, ci siamo dovute battere con le nostre madri perché le loro esistenze erano troppo vuote per assorbire tutte le loro energie. Tentavano di vivere la nostra vita al nostro posto. Ora non avviene più. Invece sento delle figlie lamentarsi perché non ricevono troppe attenzioni dalle madri… Ma credetemi, voi altre donne giovani, se aveste avuto come me, una madre estremamente capace ed energica privata di tutto questo talento ed energia, se voi sapeste cosa significa sottrarsi a questa condizione, non vi lamentereste di venire trascurate… È orribile vedere una donna capace la cui energia resta inutilizzata. Queste donne diventano letteralmente pazze di noia. Non hanno nulla da fare per la maggior parte del tempo e nemmeno se ne rendono conto. Nessuno aveva insegnato loro a riflettere. Spero che non accada di nuovo con la disoccupazione che sta ricominciando.
In “Ricordi di un sopravvissuto” la sua autobiografia simbolica, lei descrive in modo sorprendente la gelosia di una bambina nei confronti del fratello più piccolo. Sembra che tutte le capacità di oppressione della madre siano dirette contro la figlia e risparmino il figlio.
Mia madre avrebbe voluto solo dei figli maschi. Lei aveva un padre molto rigoroso e snob. Voleva fare l’infermiera e, a quei tempi, per una figlia di borghesi non era possibile. Lottò contro suo padre che si rifiutò per anni di rivolgerle la parola. Era estremamente povera, le infermiere venivano pagate poco. Ma a 31 anni dovette scegliere fra diventare capo di un grande ospedale e sposare mio padre, Sposò mio padre, un invalido distrutto dalla prima guerra mondiale e questo significò che lei non potè più utilizzare le sue grandi capacità. Le donne che non hanno potuto soddisfare le loro ambizioni si scaricano molto spesso sui figli. Oggi rimpiango mia madre, ma allora… E molto frequente che i genitori rifiutino uno dei figli. Un bambino non può corrispondere forzatamente ai desideri dei genitori. È come uno scherzo di natura ed è molto doloroso.
Gli uomini, nei suoi libri, sono sempre un po’ invalidi, feriti da una parte o dall’altra. Sono affascinanti e viene una gran voglia di amarli. Ma sono stati feriti: dalla guerra, da un padre violento, dalla politica… Anche Marc in “la Città promessa”, ha tutto eppure ha bisogno di avere intorno molte donne, è incapace di vivere solo, gli serve una madre, anzi parecchie, tutti i momenti…
Ci sono così pochi uomini autonomi: guardatevi attorno! Si arrabattano perché qualcuno si occupi sempre di Doris Lessing vive alla periferia di Londra, Hampstead, per tradizione un quartiere di artisti e intellettuali. La strada vicino a quella dove abita la celebre “reclusa” è zeppa di piccoli negozi di cianfrusaglie in cui sono esposti soprammobili edoardiani e cineserie. La sua è una casa piccola, come tante altre, con i mattoni ricoperti di intonaco bianco. Un gatto ci fa da guida fino all’ingresso. Gli inglesi amano gli animali, i gatti inglesi lo sanno e camminano con il passo lento, l’aria importante, il pelo lustro, simili a gentlemen della City. Doris Lessing ha circa sessant’anni, i capelli raccolti in una crocchia, indossa abiti a fiori.
* * *
È bello essere intervistata da una donna, è più facile e non occorrono preliminari e messe in scena. Lei parla molto, nei suoi libri, della facilità dei rapporti fra donne. Quando si forma un triangolo: due donne che si innamorano di uno stesso uomo, queste sembrano soffrire più per l’attentato portato alla loro amicizia che per la gelosia. Ma si dice spesso che non esiste solidarietà fra donne e che le donne non sanno essere amiche fra di loro.
Ho trovato curioso che le femministe facessero di questo argomento uno dei loro temi di lotta. Ho sempre avuto molte buone amicizie sia maschili sia femminili e non mi sono mai accorta che esistesse questa supposta ostilità fra donne. Se qualche volta capita che due donne siano in concorrenza per un uomo saranno una contro l’altra, cercheranno di demolirsi… ma gli uomini fra di loro fanno lo stesso… per me questo non conta, è una piccola parte della vita. Solo quando si è giovani si dà a queste competizioni un’importanza smisurata. La competizione con un’altra donna per guadagnarsi l’amore di un uomo non è che un piccolo incidente nell’arco di una vita. In Africa, dove io sono cresciuta, ho sempre notato solidarietà e amicizia fra donne e questo, molto prima del movimento femminista. L’amicizia fra donne è molto diversa da quella fra uomini, credo anzi che gli uomini ce la invidi-! no. I rapporti fra donne sono molto rilassati: gli uomini sembrano incapaci di un’amicizia che non sia organizzata intorno a qualche cosa: magari bere in l. un bar o giocare a golf; le donne non I hanno bisogno di queste cose e l’amicizia fra loro è dunque più facile. Quello che nei suoi libri appare meno bello, è il rapporto madre-figlia. Nella “Città promessa” la protagonista, Martha Quest, cade in una depressione nervosa perché incapace di fronteggiare l’ostilità di sua madre. Le madri, quindi appaiono capaci di poter opprimere le loro figlie e di farle soffrire cosa che invece le donne adulte non fanno fra di loro. Credo che questo tipo di comportaci mento appartenga ormai al passato, loro. Ma ci sono altre cose e non bisogna dimenticare che la nostra epoca ha attraversato due grandi guerre. È questo che ha ferito la gente. Io sono nata alla fine della prima guerra mondiale e ho vissuto la seconda. Quando la razza umana decide di dare il via a guerre così selvagge e disumane, il male che si fa è enorme. Siamo tutti feriti di guerra, donne e uomini. Solo che non lo vogliamo riconoscere.
La sopravvivenza sembra in effetti il tema maggiore delle sue opere. Sopravvivenza ai cataclismi interni — depressione, follia — o esterni. La “Città promessa” termina con una catastrofe nucleare. Questo secondo lei è vivere? Battersi continuamente per sopravvivere, restare in vita emozionalmente? Per lei la catastrofe interna è una conseguenza di quella esterna? Sì. Viviamo un’epoca spaventosa. Una grossa parte dell’umanità muore di fame. Non credo che sia possibile difendersi. Si stanno vivendo vicende orribili, in qualche parte del mondo, che ci riguardano tutti. Goethe ha detto che se si trascina un uomo nel ruscello, ci si bagna con lui. Non si può scappare. Quando i suoi personaggi non riescono a sopravvivere, impazziscono. Lei ha trascorso la sua infanzia in Rhodesia, che era in un certo senso, un paese folle, per ragioni sociali e storiche. Può essere questa una delle cause della sua predilezione per il tema della lotta per la sopravvivenza, contro la follia in un contesto straniero, ostile? Non ci avevo mai pensato. Ma è vero che ho avuto un’infanzia molto traumatizzante. Da una città dell’ovest dell’Iran, Karmanshah, fino a Teheran, quando avevo due anni. Poi, noi siamo stati la prima famiglia straniera ad attraversare l’unione Sovietica dopo la rivoluzione. La carestia, le migliaia di bambini abbandonati, morenti di fame e privi di tutto, il tifo, senza vestiti, niente… Poi sono arrivata in Inghilterra. Mi ricordo molto bene il freddo, il grigio… Come detestavo l’Inghilterra quando ero bambina! Il solo ricordo che mi è rimasto di questo Paese è di averlo detestato. A sei anni sono arrivata in Africa ed è vero che ero una straniera dovunque. Ma ho delle solide radici britanniche, radici culturali… I miei genitori erano dei veri e solidi inglesi, anche io, ma posso guardarle con occhio critico. Ho parlato con scrittori che hanno avuto esperienze simili alla mia e sono arrivata alla convinzione che sia un vantaggio perché non si è mai del tutto “stranieri”. Si è veramente radicati in qualche posto, ma non se ne fa mai veramente parte. È una delle mie contraddizioni fondamentali, ma credo che sia fruttuosa.
Alcuni dei suoi personaggi femminili sembrano rifiutare la sessualità. Lei pensa che la sessualità sia una trappola per una donna?
Sì, a causa dell’educazione che riceviamo. Tutto questo sentimentalismo, questo romanticismo intorno al sesso, nella nostra società: ci viene presentato come lo scopo della nostra esistenza ed è falso. Molte donne attraversano una fase in cui sembrano ipnotizzate dall’esperienza sessuale e le mie amiche lesbiche non stanno certo meglio, anche loro non pensano ad altro. Questo è dovuto al fatto che in una cultura come la nostra le donne non hanno altrettanti ruoli che nelle culture cosiddette “primitive”. Un antropologo, mi ha detto che nello Zimbabwe (un tempo Rhodesia), il mio paese, una donna normale può avere all’interno di una tribù 5 o 6 ruoli diversi e ciascuno di essi implica delle responsabilità, ma è anche una certa forma di potere, da noi le stesse donne non sarebbero altro che le mogli del proprio marito e la madre dei suoi figli, punto e basta. Questo ci limita. E poi lo sanno tutti che viviamo in una società dominata dal sesso e questo fenomeno mi pare abbastanza nuovo, non era mai accaduto nella storia.
Lei trova che questo sia un male? Sicuro. Gli si dà troppa importanza. Il sesso è molto bello, molto piacevole, ma non si può farne una religione. Ciò che lei trova sbagliato è il sesso separato dall’amore?
No, credo che il sesso si dovrebbe prendere più alla leggera, invece le donne lo vedono come una questione di vita o di morte perché lo paragonano all’amore e lo vivono allo stesso modo. Invece l’amore e il sesso sono entrambi molto semplici. Secondo lei le donne dovrebbero comportarsi verso il sesso più alla leggera, cioè come gli uomini? Si, non abbiamo più bisogno di farne una tragedia visto che la contraccezione funziona abbastanza e i rischi non sono più gli stessi.
I padri, nei suoi libri, sono molto spesso assenti, pensa che stiamo attraversando una “crisi della paternità”? Basta guardare quello che accade nelle grandi città, queste orde di ragazze sbandate… Un giorno o l’altro saranno recuperate da un demagogo, da un politicante pazzo. E a causa di una crisi della paternità? Io credo che si sia passati da un estremo all’altro, i genitori non si occupano poi molto dei loro figli e i figli hanno l’impressione di essere privi di valore. A questo punto il primo che darà loro l’impressione di valere qualcosa…
Con il personaggio di Jack, nella “Città promessa”, lei ha fatto un bel ritratto del seduttore sadico: lo si vede perdere di umanità a poco a poco e tra-; sformarsi in automa. È un’eccezione. Non ho conosciuto che un solo, vero sadico nella mia vita. Le donne lo cercano, le donne cercano sempre gli “esperti” in tutti i campi, amano che un uomo parli di loro come se le capisse. L’ironia è nel fatto che, spesso, un uomo che sa parlare di donne è sprovvisto dei sentimenti che predica e le parole agiscono come un surrogato. Gli americani sono particolarmente dotati per questo. Ciò che è spaventoso è che basti così poco… un piccolo giro di vite e diventiamo delle martiri… È ciò che accade in tempo di guerra, basta cambiare le etichette e tutto è permesso.
In una intervista al New York Times lei ha dichiarato che il femminismo presto non avrà più senso perché si avranno tali catastrofi che lo faranno dimenticare. Che genere di catastrofi? Nucleari?
Per ora la disoccupazione. A che serve parlare dei diritti della donna ad una diciottenne che non trova lavoro? Il femminismo, poi, non ha avuto nessuna influenza nel terzo mondo e molto poca nelle classi privilegiate. Il movimento delle donne è totalmente dipendente dall’equilibrio economico. Se ci fosse una guerra, cosa di cui sono convinta, si avrà una dittatura perché è per questo che le guerre si fanno. E allora? Noi, le donne, saremo messe in divisa. A quel punto…
La follia è un altro tema ricorrente nei suoi libri.
Mi guardo intorno e vedo che siamo tutti mezzi matti. Mi sono resa conto di avere molti contatti con la follia e frequentando dei pazzi, o degli psichiatri, si impara molto. Le persone si rifugiano nella pazzia perché non riescono a fare fronte all’esistenza, ma è interessante vedere come invece riescono a fronteggiare la pazzia. Ci sono persone che hanno bisogno, ogni tanto, di rifugiarvisi, ma mi sbalordisce la loro incapacità di vedere la follia che c’è in chi gli sta vicino, non vogliono vederla. Ci sono persone che possono trarre vantaggio da una depressione nervosa e sono quelle che si sono create una struttura, religiosa o politica, molto rigida. Restano ad origliare fino al giorno in cui la sentono scricchiolare e dopo che questo è accaduto cessano di essere degli automi e ridiventano persone.
Lei fa una distinzione fra follia distruttrice e costruttiva. Uno dei suoi personaggi, Martha Quest, è sempre più affascinata dal personaggio di Linda che è schizofrenica. Martha arriva, a un certo punto, a programmarsi una depressione nervosa, sembra cercare nella follia, una certa saggezza e il sapere.
Non è la saggezza che cerca, ma delle conferme. Ciò che mi ha colpito — parlo proprio di me — è che molti aspetti della pazzia, come la schizofrenia, avvengono in contesti molto particolari. Per esempio, un soldato che non ha mangiato né dormito per tre giorni, rasenta la schizofrenia. Ho voluto — e l’ho fatto davvero — cercare un posto dove potessi fare questa esperienza, rinchiudendomi senza vedere nessuno e bevendo molto caffè, per un certo tempo. Ne sono uscita convinta che la maggior parte dei malati chiusi nei manicomi siano là per errore. Non dico che la pazzia non esiste, quando ci si trova a contatto con lei si sa che è una cosa molto reale e potente. Nella “Città promessa” c’è un forte attacco contro la psichiatria. perché? perché io non credo nella psicanalisi, Però in Martha Quest lei fa una splendida descrizione del transfert. Ho seguito una psicoterapia quando avevo una trentina di anni (per quattro anni), con una psichiatra junghiana, ma in modo molto informale. Mi ha aiutata in un momento in cui ne avevo veramente bisogno. Vivevo una situazione impossibile. Avevo una relazione con un uomo, uno psichiatra, molto distruttivo, ed anche mia madre mi dava dei problemi. Ero giovane e senza difese. Come se non bastasse avevo anche dei problemi politici: mi sentivo attratta dal comunismo, la mia vita, insomma, era fatta solo di tensioni e contraddizioni: tutto era in continua fuga. L’analisi è stata un rapporto su cui poter contare e molta gente ne avrebbe bisogno in certi momenti. Questa donna mi ha dato uno spazio dove potevo trovare del riposo, una distanza, e uno sguardo distaccato. Senza di questo non sarei riuscita a sopravvivere. E non era solo teoria, ho visto molto più chiaramente dentro di me.
Lei ha detto che vivere sola è un lusso per una donna.
E vero. Io adoro vivere sola è c’è sempre più gente che lo fa. Credo che le donne se la cavino meglio degli uomini a star sole, perché, a differenza di loro, non hanno bisogno di essere assistite, se ne infischiano delle apparenze e delle “strutture”. Per le femminste è come se le donne fossero svantaggiate in tutto, invece abbiamo molti vantaggi: educate come cittadini di serie B ci accontentiamo di poco, siamo più autonome e ci divertiamo molto più degli uomini. Le donne si divertono con piccole cose, basta andare per strada e si vedono donne parlare sul marciapiede, ridono, vanno a prendere il the, giocano con un gatto… Gli uomini queste cose non sanno farle. Crede che gli uomini abbiano delle difficoltà emotive?
Probabilmente. In ogni caso le donne hanno una sorta di benessere perché sono più vicine al processo vitale. La libertà e la forza delle donne sono straordinarie. Non vorrei mai essere un uomo!

Libri pubblicati in Italia: L’abitudine di amare, (Feltrinelli, 1959); I figli della violenza, (Feltrinelli, 1962); A ciascuno il suo deserto, (Einaudi, 1963); Commedia con la tigre, (Einaudi, 1967); La noia di essere moglie, (Feltrinelli, 1967); L’estate prima del buio, (Bompiani, 1974); II taccuino d’oro, (Feltrinelli, 1977).
effe e F magazine
(traduzione di Maria Stella Conte)