e.n.p.a.s. il collettivo non è un’isola

«ciao a tutte! siamo qui per parlarvi del collettivo femminista Enpas, come è nato, come si è sviluppato»

febbraio 1977

siamo qui per parlarvi del Collettivo femminista ENPAS (Direzione Generale), come è nato, si è sviluppato, e continua a presentarsi come realtà di un gruppo di donne all’interno del posto di lavoro.
S. – La prima spinta emotiva mi è stata data dalla manifestazione delle donne del 6-12-75 che ha portato alla luce tutta una serie di contraddizioni vissute anche all’interno della cosiddetta sinistra rivoluzionaria e, in seguito, l’8 marzo «festa della donna» che ci faceva sembrare privilegiate per un mazzetto di mimose e con un permesso di uscita dall’ufficio a mezzogiorno. Da qui si è fatta più forte in me la voglia di creare all’interno del posto di lavoro un collettivo dove comunicare con altre donne che vivevano e vivono le mie stesse esigenze di donna e tutti i problemi dati da un luogo così alienante. G. – Contattata da Alessandra, Nicoletta, Antonella e Daniela ho partecipato alla stesura del primo volantino. Da qui ho cominciato a partecipare alle varie riunioni e ne ho acquisito consapevolezza di ciò che è femminismo e a pormi in un modo avanzato rispetto alla mia situazione di donna nel quartiere. V. – Nel posto di lavoro mi sentivo molto isolata, poiché non riuscivo a comunicare. Ho conosciuto D. e successivamente sono entrata a far parte del collettivo. L’essere inserita nel collettivo ha significato incontrare delle donne che vivendo in uno stesso ambiente di lavoro, avevano le mie stesse difficoltà. A quel punto non ero più sola e ho cercato con le altre una risoluzione a quelli che poi erano problemi, comuni.
D. – Ho conosciuto S. e N. ed i nostri contatti all’inizio esclusivamente politici si trasformarono in qualche cosa di più. profondo. Il primo volantino dell’8 marzo rispecchiava infatti, la nostra volontà di aggregare quante più donne fosse possibile alla nostra iniziativa.
N. – A questo punto, per riunirci, ci serviva uno spazio, un posto fisso per riunirci e finalmente parlare di noi e il sindacato ci sembrava l’unico mezzo per ottenerlo. Ai nostri bravi sindacalisti non sembrò vero e con un tentativo abbastanza esplicativo di recupero ci proposero di partecipare ad una mostra sulla Resistenza. Accettammo ribadendo però la nostra autonomia. Non fu così poiché alcune nostre frasi furono censurate (addirittura vennero staccati dei cartelli che solidarizzavano con la ormai celebre frase di «Aborto libero e gratuito»’). G. – Un altro tentativo di aggregazione delle donne fu quando, dopo lunghe peripezie, riuscimmo a fare un’assemblea di sole donne rivolta alle donne; quello fu un momento bellissimo! A. – Che però non siamo più riuscite a ripetere in quanto le forze sindacali non erano disposte a cederci parte delle ore assembleari a loro concesse. N. – Tutto questo, come momento primario di iniziativa, ma secondo voi, al di là di quello che abbiamo fatto, e di quello che avremmo potuto fare, delle iniziative che abbiamo preso e della nostra volontà di inserimento, il collettivo all’ENPAS che cosa ha significato per noi?
G. – La mia esigenza era ed è soprattutto quella di fare delle cose concrete che potevano essere per esempio collegarci al collettivo di quartiere S. Croce, per l’asilo nido, il consultorio, la mensa. Rispetto a questo mi sono sentita abbastanza castrata, spesso ho assunto il ruolo di colei che grida dal deserto… A. – Forse la ragione per la quale abbiamo perso di vista Claudia, Giovanna e Lidia è la stessa, cioè forse anche loro sentivano ‘l’esigenza di fare «cose concrete».
S. – Bisogna capire che i nostri tempi sono diversi, le donne hanno tempi diversi, e il grosso problema che si vive è tra la pratica e la teoria, ma è sempre crescita, è movimento. D. – Per me il problema va ricondotto ■ in termini politici, ossia, non soltanto loro ma anche le altre donne erano attaccate agli schemi tradizionali dell’area progressista e non erano quindi disposte ad aggregarsi nei termini del femminismo. Comunque va considerato che il periodo di maggiore aggregazione al collettivo si è avuta durante le elezioni politiche impostate da tutti i partiti su una maggiore partecipazione sociale delle donne.
A. – Per me invece la questione va posta in termini di capacità aggregativa che il collettivo non ha avuto. D. – Ma per sensibilizzare una donna che già si crede liberata ed emancipata solo perché guadagna, il marito non la picchia, ce ne vuole del tempo! V. – …e la voglia.
N. – Sì infatti io di voglia non ne ho per niente. Per me il collettivo femminista all’ENPAS significa tutt’altro. D’altra parte abbiamo sempre fatto così: contattiamo le donne, parliamo con le donne, sensibilizziamo la massa femminile, e poi di fatto invece ci siamo solo perse di vista. Ultimamente poi è un casino: le prime volte ci riunivamo soltanto per fare volantini, e se non c’era chiarezza di termini poco importava, tutto si rimandava alla prossima volta’, con poche battute dette a mezza bocca, in fretta, tra un’ascensore e l’altro, schivando di continuo l’ottuso richiamo dei capi. Adesso, in pieno periodo di crisi, timidamente ho azzardato l’ipotesi di fare autocoscienza. Non voglio che il collettivo sia un eden, un’isola al di fuori della quale sono tutti brutti e cattivi, ma perdio! Voglio anche che i nostri rapporti siano tali e non una rincorsa assurda alla dialettica e al volantino. Quando sto male voglio dirlo e voglio dire anche perché. Per conoscerci meglio potremmo fare per esempio animazione. È una cosa bella, che soprattutto ci libera, è un mezzo per esplicare ancora di più la nostra sensibilità, il nostro modo di esprimerci senza parlare, sviluppando la nostra creatività in una comunicazione emozionale.
G. – Ma l’autocoscienza a che ti aiuta, quando sai benissimo che i problemi ce li hai e ti rimangono?
N. – Non voglio che le compagne del collettivo mi risolvano i problemi.
G. – Non ho detto questo. L’autocoscienza può risolvere dei problemi però nello stesso tempo te ne crea degli altri quando ti scontri con la società che non capisce la tua liberazione ma ti colpevolizza.
A. – Io vivo una contraddizione profonda tra la pratica e la teoria. Spesso mi capita di essere d’accordo con i processi e le tesi del movimento in genere, però quando ho occasioni di metterli in atto, quasi mai ci riesco perché la paura di veder crollare il mondo al quale sono legata affettivamente, mi blocca. Quindi rispetto all’autocoscienza non ho molta fiducia, perché vorrei risolvere da sola il problema dell’impatto con la realtà di donna in un ambiente familiare ed esterno ostile, che mi mette continuamente in crisi.
D. – Anch’io appartengo al tuo stesso mondo, ma non per questo mi sento di relegarmi ancora di più in una struttura che mi vede come un «animale domestico» nella quale non mi ci riconosco e dalla quale cerco di fuggire aprendomi spiragli di vita reale. Il collettivo sebbene mi accorgo che non vada o almeno è carente sia come elemento dinamico sul posto di lavoro e sia come veicolo di comunicazione tra di noi, mi aiuta a parlare di sensazioni interiori che prima erano bloccate dai sensi di colpa, retaggio di una educazione cattolica e maschilista. Comunque penso che anche per te le esigenze siano le stesse altrimenti avresti rinunciato a venirci pensando di perdere solo tempo.
V. – Io il collettivo lo vivo come un momento tutto mio in cui riesco a parlare delle mie contraddizioni senza crearmi il problema di dover «fare» in quanto faccio parte di una commissione femminile a Bracciano con collegamenti in circoscrizione e mi serene difficile poter partecipare anche ad un’attività più intensa sul posto di lavoro.