greta, rita, marlene e marilyn

gennaio 1977

dietrich, Garbo, Hayworth, Monroe: quattro volti di donne che incarnano la lunga storia della schizofrenia femminile ad uso e consumo dell’immagine cinematografica. Vittime di se stesse, è tramite loro che donne di epoche diverse sono state legate ai miti e ai fantasmi di una femminilità irraggiungibile ma angosciosamente ricercata. Simbolo di se stesse, come le spettatrici che le ammiravano, sono state ingannate dal proprio specchio, specchio che il maschio (produttore o regista) gli aveva accuratamente preparato e tenuto davanti costantemente. Donne il cui stesso lavoro è divenuto mito. Essere attrici significava (e forse significa tuttora) lavoro, e un lavoro che rendeva possibile una reale indipendenza economica, la possibilità di realizzarsi, di essere riconosciute nel sociale, in un reale cioè esclusivamente maschile, che non permetteva alcuno spazio alle donne. Ma il ricatto a cui bisogna sottostare è, come al solito, perdente per la donna. Là dove avrebbero potuto .ottenere, e spesso lo ottengono, il massimo di riconoscimento pubblico, di autonomia ,è proprio là, in questo lavoro, che le donne hanno prodotto il massimo di negazione di sé. La nostra comune, fragile identità di donne ha permesso loro di essere grandi attrici, nel senso di poter essere qualcosa altro da sé, poter essere e vivere il mito della femminilità, poter accettare una nuova identità — creata da altri — e calarvisi dentro; Ed è questo il potere così grande esercitato su noi donne spettatrici: vedere in carne ed ossa, vissuta e vibrante, l’ideologia, i comportamenti inculcatici fin da bambine sentire emotivamente questa spinta all’immedesimazione, alla negazione di quell’ultimo briciolo di noi stesse, per muoverci con i gesti voluti da altri. Un’oppressione sulla donna tramite altre donne. Oppressione che ha varie sfumature, aspetti diversi, ed ognuna di queste dive ne rappresenta uno.

«Mi sono distrutta, mi sono sacrificata per l’immagine di una bellezza che può soddisfare ciascuno di questi milioni di desideri delusi, di attese senza
speranza. Avete capito ora perché mi nascondo? Per pietà verso quelli, perché essi non sappiano che io non esisto».
F. Mauraic

Garbo. La sua storia è emblematica. Un’attrice che credeva veramente nel suo lavoro, che vedeva in esso la possibilità di realizzarsi, di essere se stessa, creativa. Ma, di fronte alla prepotenza risucchiarne di un lavoro fatto di personaggi imposti, ha avuto come unica alternativa quella di separare la sua vita privata da quella pubblica, una scelta di schizofrenia, rigida e lucida (e anche questa sfruttata per distorcere la sua personalità  e  farne  «personaggio»).
Avrebbe voluto fare l’Amleto, impersonare George Sand; ed il suo portamento, i suoi tratti «mascolini» son serviti per costruire le rarefazioni di amori angelici, puri, perfetti e assoluti. E’ il mito della donna-madonna, irraggiungibile, lontana, ma proprio per questo tenuta gelosamente separata dal mondo del reale.
Costretta da abiti austeri e pudichi, che negassero la sua sessualità, il mito della bellezza si è impadronito di lei e l’ha costretta ad una vita di solitudine, di esilio, di vagabondaggio. A chi un giorno la trovò accovacciata sul pavimento, avvolta di coperte, disse: «Sono una bambina che sta aspettando di nascere».
Dietrich. Ma per chi amava donne diverse ecco Marlene, l’aggressività erotica, il contrasto allettante della donna dal volto di vampiro ma pronta a seguirti a piedi scalzi in pieno deserto. Una donna super, il cui la volontà, l’erotismo, il coraggio sono al quadrato, come la sua fedeltà. Una donna che non è la moglie, ma l’amante senza passato e senza futuro, quindi da trattare con pochi scrupoli, ma che, come la moglie, ti darà sicuramente tutta se stessa, in piena dedizione. E’ la donna emancipata che si muove liberamente in un mondo di uomini, sa addomesticarli, aggiogarli in nome dell’Amore; ma in nome di questo Amore saprà anche cedere, immolarsi serenamente e con gioia.
C’è da dire comunque che la forte personalità della Dietrich, la sua indubbia capacità di gestirsi la vita e il proprio mito ha fatto sì che creasse dei personaggi che, pur rimanendo all’interno del mito della femminilità, delle arti e qualità «femminili», ha saputo dare un’espressione di queste qualità fra le più dignitose, ma, c’è da aggiungere, forse per questo più pericolose e allettanti per noi donne. Garbo e Dietrich: tutte e due sono l’espressione del super-io che angosciava le donne americane, l’essere all’altezza di ogni situazione ma sempre riuscendo a portare ‘ dietro la propria Femminilità; l’affrontare problemi, crisi economiche e sociali esaltando e rafforzando al massimo le capacità richieste ad una donna: amore e dedizione, sacrificio, erotismo e fedeltà. Super-femmine per i super-maschi dei miti del western, dell’azione e della conquista. Perché è in questo momento, dopo la prima guerra mondiale, che l’America costruisce la sua epopea, e le donne-dive sono l’affascinante marchio — made in USA — che la esporta in tutto il mondo.
Il 2° dopoguerra vede una situazione differente. Dopo il periodo bellico in cui è il loro sforzo che sostenne la economia americana, le donne vengono spinte di nuovo nelle case. La loro presa di coscienza, tramite il lavoro, delle proprie capacità, lo scoprire il reale peso della donna nella struttura sociale diviene un fattore di squilibrio sociale e politico estremamente pericoloso. E allora è il momento dell’esaltazione della tranquilla vita casalinga, del vivere in due, del fare tanti bambini, del godere delle gioie del desco familiare. Delle «divine» rimane ben poco. La nuova donna è un animale più domestico, con ideali più mediocri, una donna-media per un uomo-medio. E si sa che mostro sia l’uomo-medio, Il sesso non è più un tabù, ma una comoda valvola di sfogo. La nuova permissività sociale scopre una nuova vena: quella dell’eroticità scoperta, senza allusioni, più sbrigativa. Se la misoginia degli anni ’30 copriva il corpo femminile per il terrore della sua diversità, ora, tolti i «veli», si «inventa» un nuovo corpo per la donna. Rubata, prima, l’anima alle donne, ora, più sfacciatamente, se ne mostra il corpo, perché più nulla appartenga loro e tutto sia immagine da consumare, sbocconcellare, digerire, svuotare, disintegrare, buttare. La Hayworth ricorda solo pallidamente Greta e Marlene.
I suoi giochi erotici sono di poca fantasia; il comportamento standardizzato. Costruita pezzo per pezzo, accetta passivamente il suo ruolo sul set e nella vita.
Gli ambienti delle sue storie sono meno sfavillanti e aristocratici. E’ un gatto al guinzaglio che, spesso, è solo d’impaccio al suo uomo. Di qualità professionali non se ne parla quasi più. La rigida struttura di produzione del film richiede un’assoluta disciplina delle attrici nel seguire gli ordini del regista-produttore; bisogna produrre tanto, presto e bene. I margini di autonomia, di invenzione personale si restringono sempre di più. La realtà del set si sovrappone alla finzione del film: la donna si fa guidare completamente dal maschio, è divenuta totalmente la sua ombra. Ha perso anche la sola apparenza di possibile interlocutre e rappresenta esclusivamente il privato sessuale dell’uomo, totalmente modellata sui bisogni di questo. La sua unica funzione è di contrappunto all’esibizione del maschio, è lì da una parte che imbambolata e timida applaude e, alla bisogna, si lascia schiaffeggiare, maltrattare, adorare, respingere, ridicolizzare.

«Per favore non mi prenda in giro, finisca l’intervista con quello in cui credo. Non ho nulla in contrario a fare scherzi, ma non mi va di essere guardata come se ne fossi uno io stessa. Voglio esser un’artista, un’attrice completa. Il mio lavoro è stato il mio unico incrollabile sostegno».
M. Monroe

«E questi affari con l’Actors Studio, dove sotto la direzione di Elia Kazan si addestrano attori professionisti, cosa significano? Che ci fai lì?.. Stai chiudendo l’interruttore a milioni di ragazzi americani dal sangue caldo, per i quali eri divenuta il simbolo di una Femminilità senza complicazioni».
D. Watt NY Daily News

È il culmine del processo, Marilyn Monroe il mito della ragazzina procace, ingenua ma disponibile. Se l’America voleva che gli Americani pensassero il meno possibile, quello che rimaneva da fare alle donne era «play dumb»: fare le sciocche. Si è parlato del dramma della Monroe, della sua introiezione del proprio personaggio, dell’incapacità di lasciarsi, nella vita e nel lavoro, un solo angolino di indipendenza, di autonomia. Ma che dire dei milioni di «spose-bambine» che, negli anni ’50, lasciano gli studi, il lavoro, per fare bambini, che si schermiscono per dare spazio all’intelligenza, spesso mediocre, dei loro uomini.
Greta, Marlene, Rita, Marilyn: un filo corre fra queste donne e si lega a noi; ognuna è un pezzo del mosaico, è un pezzo dello specchio, della più magnifica rappresentazione del NONESSERE mai avvenuta nei tempi. Quando spezzeremo il filo? Quando SAREMO?