il nostro essere madri

o donna o madre: un’antitesi impostaci storicamente. La maternità è estranea veramente al nostro processo di liberazione? È veramente una scelta «razionale»?

gennaio 1977

siamo un gruppo di donne inserite in vari modi e da diverso tempo nel movimento e ci siamo incontrate per l’esigenza di conoscerci e socializzare la nostra maternità. Parlando tra di noi abbiamo capito che il nostro «essere madri» non è in antitesi al nostro essere donna e tanto meno estraneo al nostro processo di liberazione che sempre più deve coinvolgere tutta la società e in primo luogo i nostri figli.
Con questo non vogliamo dire che tutte le donne debbano essere madri, ma semplicemente possano scegliere serenamente di vivere questa esperienza o no, e non essere costrette a rifiutare la maternità come frustrante e castrante.
Fino ad oggi la donna, storicamente, non ha mai potuto vivere pienamente questa unità; infatti, è costretta a mettere al mondo tanti figli quanti il sistema ne chiede, quando e come, o a non farli quando lo stesso non li vuole (vedi campagne per la pianificazione familiare e come viene posto da molte parti il problema dell’aborto).
Limitarsi all’emancipazione, nel senso di conquistare la parità col maschio, ci pone di fronte al falso problema: o donna, o madre, spingendoci, il più delle volte a rifiutare la maternità come fattore limitante.
Per noi questa corsa all’emancipazione si risolve ancora una volta in un adeguarsi a qualcosa d’imposto, anziché conquistare finalmente la nostra interezza.
Discutendo ci siamo trovate d’accordo sul fatto che il movimento, nella sua globalità, non ha mai affrontato il tema della maternità, pur avendo ampiamente dibattuto sulla sessualità e l’aborto. Secondo noi, oggi il movimento si trova diviso sulla lotta per l’aborto anche perché non si è riuscite a mettere in evidenza gli strettissimi collegamenti che ci sono fra sessualità, aborto e maternità.
Ogni donna, sia che abbia figli o che non ne voglia, si trova nella sua vita di ogni giorno (se non altro ad ogni rapporto sessuale) a scontrarsi con la propria capacità riproduttiva. Lo stesso uso dei contraccettivi implica la decisione, più o meno cosciente, di non avere figli.
Per quanto ci riguarda, vogliamo riaffermare il nostro diritto e la nostra gioia di essere madri in quanto riteniamo che proprio per il ruolo storico che siamo state costrette ad assumere abbiamo conservato un patrimonio di affettività, di tenerezza, di capacità di amore che il maschio ha perso.
Per questo noi riteniamo limitato e castrante porre il problema della maternità solo nei termini di scelta razionale, come ci viene richiesto, perché non abbiamo voluto, né vogliamo ignorare la nostra capacità di amare, ritrovare e riscoprire quel bisogno umano di riprodurre la vita, di cui il sistema sociale si è appropriato distorcendolo e rivolgendolo contro di noi. Anzi vogliamo affermare questo come un privilegio che abbiamo e come una possibilità di più per esprimerci, per essere delle donne che, tra l’altro, hanno dei figli e non considerarlo come una condanna da subire con rassegnazione.
Per noi riappropriarci della maternità, vuol dire viverla come nuovo tempo da godere nella nostra vita, come un profondo e intimo rapporto di affetto con un’altra persona, non certo incastrate nel ruolo repressivo di «madre», quale unica condizione di esistenza, accettata per mancanza di altre possibilità di vita, di lavoro, di studio.
Nessuna donna vuole e deve essere costretta ad essere madre e basta, in tutta la sua vita.
Abbiamo cercato di riappropriarci dei tempi umani che sono legati alla gravidanza, alla nascita e alla crescita dei nostri figli che sono tempi lenti e lunghi e noi abbiamo cercato di goderne fino in fondo. Ci siamo perciò scontrate in maniera ancora più drammatica con la realtà sociale e produttiva che ci impone tempi brevi e frenetici; ci siamo sentite non sopportate, come non sono accettati i bambini, escluse ed esclusi da ogni ritmo di vita comune agli altri.
Questa nostra scelta di volere un figlio/a non ci ha risolto né allontanate da tutti i conflitti che vive ogni donna e ha reso di fatto più contradditorio il nostro rapporto con il movimento nella sua fase attuale. Perché è vero che se oggi una vuole abortire trova aiuto, comprensione, legittimità, non è sola ad affrontare l’aborto perché giustamente l’abbiamo reso un fatto politico; se invece il figlio lo vuole avere, per molte non c’è aiuto, partecipazione, c’è solitudine e rifiuto del bambino dalla vita collettiva: tutto viene riaccciato, ingiustamente, nel privato.
Spesso l’unico aiuto, l’unica presenza che si ripropone è quella di nostra madre e ancora una volta verifichiamo che è solo per inserirci con il suo esempio nel ruolo tradizionale che vorremmo mettere in crisi e che anche lei ha dovuto subire.
La nostra maternità ci ha costrette a calarci in modo più diretto nella realtà sociale e a scontrarci quotidianamente con le istituzioni attraverso le quali passiamo quando abbiamo un figlio/a: dai medici, all’ospedale, agli asili, alle scuole, all’organizzazione di vita, al nostro lavoro e si è maturata in noi la rabbia e quindi il bisogno di lottare in maniera più radicale.
Capire, nel viverlo, tutto questo (anche se non abbiamo trovato qui le parole giuste per esprimere pienamente quello che sentiamo),-ci ha messo violentemente in discussione, come donne nei nostri rapporti interpersonali e sociali, come femministe nel nostro rapporto con il movimento. Tutto ancora è in discussione, ma quello che abbiamo sentito più di prima è l’urgenza di incidere nella realtà che ci porta, attraverso una nuova autocoscienza, a scoprire e creare nuove forme di organizzazione di lotta.