italcable: una storia a nove voci

«mi sento in gabbia e come me tutte le compagne coscienti della situazione»

febbraio 1977

Simonetta
L’importanza che ha il collettivo per me è legata alla nostra storia da un anno a questa parte, alla ricerca del nostro modo di stare insieme, divise tra la voglia di trovare un’identità collettiva e la paura di parlare di noi. Mi ricordo che alla nostra prima riunione si era parlato molto del ruolo della donna nella famiglia e nel lavoro, di emancipazione e di liberazione e alla fine, decidemmo di far uscire un bollettino, così ci organizzammo per sviluppare in gruppi i temi che più ci interessava trattare con l’intento di fare questo documento al più presto. Alle riunioni successive però cominciarono le difficoltà; tra turni di lavoro, figli che non si sapeva dove lasciare, distanze enormi da percorrere per’ incontrarci, non si riusciva a mantenere la. scadenza settimanale pelle riunioni, quando finalmente ci si incontrava c’erano mille cose di cui parlare: i rapporti con il movimento, la legge sull’aborto, i consultori, i problemi sorti sul posto di lavoro, ognuna proponeva qualcosa da fare ed ogni proposta veniva accettata, decidevamo di portare avanti mille impegni, ma avevamo sempre l’impressione di non combinare niente: anche il bollettino, che doveva essere pronto in 15 giorni, non si riusciva a portarlo a termine. Intanto si avvicinava l’8 marzo e, quasi tutte per la prima volta, sentivamo questa data come qualcosa che ci apparteneva, e in effetti riuscimmo a riprenderci quel giorno che negli anni precedenti era celebrato dal sindacato con l’offerta alle donne di mazzetti di mimose. Ottenere dal sindacato un’assemblea fu per noi una grossa vittoria, ma dovevamo anche gestirla noi e non eravamo abituate a parlare di fronte a tanta gente: decidemmo di distribuire il bollettino in quell’occasione e di preparare una mostra su vari aspetti della condizione della donna, L’assemblea riuscì, nonostante la paura che avevamo un po’ tutte. In questa occasione ci siamo conquistate uno spazio in azienda come «collettivo femminista»; forti di questa nostra identità che siamo riuscite a imporre abbiamo cominciato a far pesare i nostri bisogni di donne ed a prendere iniziative autonome, riuscendo anche a fare delle assemblee di sole donne.
Ma ci è voluto del tempo per renderci conto che la nostra partecipazione al collettivo non era dovuta solo all’interesse per le lotte che facevamo insieme, ma che, certo anche per la solidarietà che si è creata tra noi in queste occasioni, il collettivo rappresenta il momento in cui ci possiamo ritrovare
ed esprimere. Ora iniziamo a parlare di noi, senza più la scusa degli impegni politici; stiamo vivendo, forse con ritardo rispetto al movimento, tante cose che avevamo teorizzato, senza riportarle al nostro specifico; vogliamo fare di affermazioni di principio come — il personale è politico — non solo una bandiera ideologica, ma il nostro modo di stare insieme.

daniela
Il collettivo ha rappresentato un momento molto importante per me; ha significato una maggiore presa di coscienza della mia condizione di donna, la scoperta di un rapporto bello con le altre donne, l’acquisizione di una maggiore sicurezza, che mi veniva dal fatto di non essere più sola, di essere nel collettivo e di avere alle spalle un movimento.
Ma l’esigenza profonda che avevo di affrontare e chiarire fino in fondo tutte le contraddizioni che come donna vivevo all’interno dei rapporti familiari, all’interno del rapporto di coppia, in una società maschilista, esigenze che sentivo in tutte le compagne del collettivo, per molto tempo sono state trascurate. Era la natura stessa del nostro collettivo, nato su un posto di lavoro, che ci portava a considerare prioritari tutta una serie di problemi connessi alla nostra condizione di donne lavoratrici. Le nostre riunioni scorrevano tranquille, tutte perfettamente d’accordo sui modi d’intervento e di lotta, sul modo di rapportarci alle altre donne. Ci trovavamo ad affrontare scadenze precise.
Di qui le nostre assemblee, i nostri interventi contro l’azienda che aveva tentato di abolire gli «orari speciali» alle lavoratrici madri; contro i contratti a termine per i quali vengono assunte soprattutto donne, contro il clima di terrorismo che l’azienda, e l’immobilismo delle nostre Organizzazioni Sindacali, avevano instaurato nella loro lotta contro l’assenteismo, e che avevano costretto una donna, presente al lavoro nonostante accusasse malessere, ad essere urgentemente ricoverata per minaccia di aborto.
Insomma per molto tempo abbiamo privilegiato il momento politico-organizzativo, al momento più autenticamente «femminista». Il discorso sulla coppia, sulla sessualità, su un modo veramente nuovo di rapportarci fra noi, sono stati troppo spesso elusi, premute come eravamo dalla contingenza del momento. Spesso ho avuto la sensazione, certamente non giustificata, ma sintomatica di un mio stato d’animo all’interno del collettivo, che tutto quello che come femministe portavamo avanti, in realtà avremmo potuto farlo egualmente come sindacaliste o come militanti di un’organizzazione. Insomma ci sembra che le nostre riunioni settimanali non fossero la sede adatta dove affrontare il nostro «personale». Ci sembrava forse che il nostro «personale» non fosse troppo «politico». Non a caso avevamo inventato le «cene femministe» per conoscerci, parlare, affrontare certi problemi al di fuori della riunione. Da una parte quindi il momento «politico» della riunione, dall’altra il momento «personale» della «cena femminista». Abbiamo fatto molte cose insieme, abbiamo parlato molto, siamo cresciute, ma certi aspetti dello specifico femminista continuavano ad essere affrontati in senso lato, senza un nostro coinvolgimento in prima persona. Fino alla famosa riunione, dove queste carenze, questo senso d’incompletezza, questi bisogni inespressi, che inevitabilmente generavano tensione, sono esplosi in modo piuttosto drammatico. Finalmente abbiamo cominciato a parlare di noi in prima persona, e non di come è «oppressa e sfruttata la donna». Mi sono sentita di nuovo a mio agio nel collettivo.

patrizia
All’inizio non ero affatto cosciente di quello che poteva essere il significato della parola sfruttamento, perché per me il fatto di aver trovato lavoro senza molte difficoltà, era inserito — come del resto il mio matrimonio a 20 anni e la figlia a venti e mezzo — nel processo di allontanamento dalla famiglia repressiva e che mi aveva impedito da sempre di essere me stessa falsando in me tutta la realtà della vita. Ero abbastanza divertita e felice di uscire di casa per andare all’ITALCABLE e non mi rendevo affatto conto di quanto venivo usata come lavoratrice e come donna. Poi lì avevo incontrato il «mio uomo». Classico colpo di fulmine e voglia pazza di stare insieme anche in ufficio. E così mi sono passate sopra quasi con indifferenza le frustrazioni che generalmente devi subire se vuoi essere assunto all’ITALCABLE:
1) non dare troppa confidenza ai colleghi per non dare l’impresione di essere una «ragazza,leggera»;
2) non esprimere assolutamente la tua idea politica, né attraverso comportamenti liberi né comprando il giornale e passare da perfetta cretina come si addice a tutte le ragazze di buona famiglia;
3) fare quasi a gara con le stesse colleghe a chi produce di più e sentirsene fiera;
4) venire a lavorare almeno per i tre mesi di prova anche con la febbre addosso per dimostrare ai padroni che tutto sommato anche se sei una donna e potresti creare loro dei problemi con eventuali matrimoni e figli, sei un buon acquisto per la società.
Tutto questo l’ho vissuto come una specie di gioco nuovo per i primi mesi, anche se certamente non mi è passato sopra con indifferenza. Prima si è manifestata l’insofferenza a livello epidermico per il tipo di lavoro svolto, poi sempre più chiaramente ho acquistato la coscienza di donna-lavoratrice-madre-moglie-ipersfruttata in una società di merda come quella in cui viviamo, e oggi mi ritrovo sola con una figlia e con una lettera di prelicenziamento in tasca. Accusano me e altri nove lavoratori (7 donne di cui 3 con figli a carico, e 3 uomini) di aver danneggiato la produzione nell’arco di 4 anni a causa di troppe assenze per malattia.
Il nostro è un tipo di lavoro molto alienante, che ti fa stare male se solo riesci a sentire quello che significa essere una pedina completamente spersonalizzata, un numero, in mano a chi ha il potere di prenderti per fame. Sono arrivata al punto che entro al lavoro e sento la nausea fisica, come una donna incinta, per tutta la durata del turno di lavoro. Non riesco a stare seduta.per più di dieci minuti di seguito e il capoturno che passa continuamente dietro le spalle mi dà un senso di angoscia indescrivibile. Mi sento in gabbia, e come me tutte le compagne coscienti della situazione. Mi accorgo che non riesco a comunicare questo senso di malessere a molte donne che lavorano con me, che mi sento abbastanza isolata, anche se magari quando si toccano argomenti come i figli o i problemi in casa mi unisco a loro e faccio sentire tutta la mia sofferenza. Però c’è troppa rassegnazione o senso di staticità in giro, forse perché è comodo nascondersi dietro i vestiti, i bei mobili, i nuovi trucchi ed evitare di. pensare che qui dentro noi esistiamo come esseri umani. Fuori non è molto diverso: se vuoi stare un po’ bene cerchi le compagne, stai con loro, parli, magari ti diverti insieme perché sai che sei capita, tocchi la comprensione e il bisogno di dare e ricevere amore. In ufficio (il nostro è un centro intercontinentale, reparto telefonico con tanti centralini lunghi meno di un metro uno dietro l’altro) se capito seduta lontano dalle compagne è ancora peggio. Mi sento così distante da certi problemi che vivono altre donne, come la casa bella e il bisogno di avere continuamente cose nuove da mettere addosso che il senso di angoscia è forte, anche perché non riesco ad esprimerla perché sento di non essere capita. Eppure siamo tutte donne, abbiamo subito gli stessi condizionamenti, subiamo tutti i limiti della società; anche la capoturno che mi cammina dietro come una carceriera e pronta a fare rapporto se mi fermo 5 minuti è una donna condizionata che soffre ed ha problemi. Anche la sua scelta di accettare il ruolo di «maschio mancato» e di opprimere i lavoratori non è stata una scelta autonoma, ma condizionata, ma come faccio a voler bene a questo tipo di donna e a parlarci? Io non sono una missionaria, voglio anche cercare di stare bene per me stessa.

grazia e antonietta
Noi ci vorremmo ricollegare all’intervento di Patrizia, anche per noi all’inizio il lavoro ha rappresentato il primo passo verso una maggiore indipendenza economica e soprattutto indipendenza nei confronti della famiglia. Comunque l’entrata nel processo produttivo per noi è stata più drammatica, infatti abbiamo avuto la sfortuna di essere entrate all’Italcable in un momento in cui la società aveva trovato come soluzione ai suoi problemi di produttività i contratti a termine, che tuttora esistono e che rappresentano il percorso obbligato, oggi per quasi tutti i lavoratori e soprattutto per le donne, che vengono impiegate soltanto in determinati periodi e cioè quando c’è maggior bisogno di forza-lavoro, e che vengono comunque poi rispedite a casa per lasciare più spazio all’uomo che in quanto sostentatore del nucleo familiare e quindi della società stessa ha più diritto al lavoro.
Fin dai primi contratti a termine abbiamo subito tutta una serie di violenze sia come lavoratrici che come donne. In quel periodo erano molto frequenti turni di dodici ore al giorno con la cuffia in testa, il disagio di un viaggio di più di un’ora per raggiungere il posto di lavoro, i ritmi di lavoro elevati perché in quanto contratti a termine dovevamo produrre di più, alla violenza psicologica che esercita il capoturno con il suo continuo controllo sul nostro lavoro e sul nostro comportamento che doveva rispondere a certi canoni che sono quelli stessi vigenti nell’attuale società cioè essere simpatica disponibile composta, bella curata truccata e in base a questi requisiti alla particolare disponibilità nei loro confronti questi frustrati e repressi erano sempre pronti a modificare il loro giudizio su di noi.
Per non essere escluse e rifiutate siamo state quindi costretti ad indossare di. nuovo i panni della donna oggetto e ad assumere un ruolo che ormai avevamo rifiutato. Purtroppo questa contraddizione l’abbiamo vissuta in pieno costrette come eravamo a filtrare le nostre reazioni e la rabbia che tutto ciò ci procurava spinte da quella fame di lavoro e quindi anche di indipendenza che dal lavoro proviene.
Questa situazione si è protratta per circa un anno ed ha raggiunto il culmine durante il periodo di prova, quando la meta del lavoro fisso, con tanto di libretto INAM e pensione era una cosa così vicina da sembrare quasi irreale, e quindi si può immaginare lo stato d’ansia e d’angoscia che questo ci procurava, ma mentre andavamo avanti nella nostra esperienza, cresceva dentro di noi la rabbia, l’amarezza, la ribellione verso questo sfruttamento inumano che subivamo sia come lavoratrici che come donne. Durante i contratti a termine quello che ti si richiede è di essere il più neutrale possibile, amorfa, possibilmente senza cervello, una appendice della macchina con l’unico diritto e dovere di produrre, quindi eravamo tagliate fuori da ogni attività politica, ci erano negati i diritti che gli altri lavoratori avevano e arrivavamo al paradosso di dover lavorare mentre i compagni stavano facendo sciopero anche per noi.
Tutta questa rabbia che ci cresceva dentro e ci aumentava quando cozzavamo contro l’indifferenza degli altri, le difficoltà di comunicare queste cose, e di non poterle comunicare fisicamente, ossessionata dal capoturno che con fare indifferente ti passeggia dietro le spalle per controllare i tuoi ritmi di lavoro, e soprattutto per verificare il tuo comportamento, per scoprire chi sei, quali sono le tue idee, soprattutto che ideologia politica hai, e tutto questo per poi formulare un «impersonale giudizio» che non deve essere in contrasto comunque con lo stereotipo di lavoratore necessario all’azienda. Adesso la nostra rabbia è esplosa, siamo allo scoperto, portiamo avanti con tutte le difficoltà possibili la nostra lotta femminista all’interno dell’azienda.

Stefania
Il collettivo ha rappresentato un momento molto importante in una fase della mia vita in cui ho rimesso in discussione molte convinzioni, molte sicurezze, un momento piuttosto delicato dovuto anche alle frustrazioni sempre crescenti che provavo e provo nel mio lavoro d’impiegata super-ripetitiva. Per fortuna c’erano altre compagne che, come me, sentivano il bisogno di costruire qualcosa di nostro, di superare la passività, il grigiore, l’isolamento in cui ci sentivamo relegate. Superando la paura di non riuscire neanche a mettere in piedi un collettivo, per una insicurezza di fondo che, guarda caso, tutte avevamo, abbiamo cominciato a prendere contatti, ad elaborare una linea, a discutere su come vedevamo i vari problemi. Certo quando abbiamo scelto di essere femministe con una precisa collocazione di classe, abbiamo perso la possibilità di parlare con molte donne, che per mille motivi (paura del capo, disinformazione politica, preconcetti) non hanno voluto partecipare alle nostre iniziative.
Le critiche delle donne si sono centrate soprattutto sulla nostra volontà di fare le riunioni sui nostri problemi più specifici da sole, senza la presenza maschile; ci accusavano di settarismo e noi a cercare di spiegare la nostra esigenza di crescere autonomamente; è curioso che fra le nostre più accanite accusatrici c’era una delle poche donne del sindacato. Ancora adesso, a circa un anno di distanza dalla nascita del collettivo, il problema dei rapporti con le altre donne rimane non risolto. In gran parte è certo colpa nostra, magari ci sentiamo diverse alle altre donne perché abbiamo raggiunto un più alto livello di coscienza, o forse non siamo riuscite a proporre degli obiettivi che riuscissero ad interessare tutte. Ora stiamo lavorando con altre donne del quartiere per il consultorio nella zona, sperando che questo obiettivo, una volta raggiunto, ci aiuti a sbloccare la situazione.

le madri carol e enza
Per noi non è affatto una contraddizione la nostra scelta di essere madri responsabili e nello stesso tempo di essere individui autonomi con il diritto di lavorare, di lottare e come femministe e come militanti di un’organizzazione. Il prezzo che paghiamo per conquistarci questo nostro diritto fondamentale è altissimo e abbiamo spesso la sensazione di dover affrontare ogni impegno a metà o alla fine di dover rinunciare a qualcosa, sentendoci esseri incompleti.
Abbiamo messo in crisi le nostre famiglie, cercando di lottare concretamente ed in prima persona contro la tradizionale divisione dei ruoli. Legate da un rapporto sentimentale con il proprio uomo, condizionate dai ricatti a livello economico e pratico, e isolate all’interno della nostra famiglia anche dalle altre donne con cui abbiamo discusso e portato avanti i nostri problemi nel collettivo e sul posto di lavoro. Ci sentiamo spesso impotenti di fronte a questa realtà che ci opprime di più in quanto donne. A volte ci sembra di essere schizofreniche quando nella realtà lavorativa come femministe e come militanti politiche siamo protagoniste di lotte e poi torniamo all’interno delle pareti domestiche per subire una serie di ricatti e condizionamenti che vorrebbero farci rinunciare al nostro modo di vivere e essere donne. Come lavoratrici-madri incontriamo delle difficoltà che rendono il nostro inserimento nel mondo del lavoro assai complicato. Per le malattie dei nostri figli siamo costrette a prendere permessi non retribuiti fino al terzo anno d’età: chiaramente lo stipendio può essere dimezzato per un raffreddore o una tonsillite, e se i nostri figli dovessero ammalarsi a lungo non sapremmo come andare avanti. Quando i bambini superano i tre anni, siamo costrette a prendere ogni tipo di permesso, incluse le ferie, e spesso arriviamo all’estate con poche o niente ferie. Essendo torniste o pendolari ci troviamo sempre in difficoltà per la mancanza di asili nido e scuole a tempo pieno. Per noi che facciamo una media di 3 ore al giorno sui mezzi e 6 ore al lavoro > la scuola copre una minima parte della nostra giornata lavorativa.
Abbiamo dovuto chiedere turni speciali in certi periodi per risolvere certi problemi con i figli. Ma questi «orari speciali», quando vengono concessi, risultano come un favore che l’azienda ci fa e che minaccia continuamente di toglierci anche se queste concessioni in realtà sono funzionali alle esigenze del servizio. Questo «favore» ha spesso contribuito a dividere i lavoratori (gli uomini delle donne e le lavoratrici madri dalle altre donne) che ci vedono come delle privilegiate. A noi ci sembra di essere tutt’altro che privilegiate quando ci alziamo alle 6 tutte le mattine per preparare i figli, accompagnarli a scuola e poi correre per incominciare la nostra giornata di lavoro. Abbiamo anche tentato la soluzione della ragazza alla pari, sentendoci sempre in colpa verso quest’altra donna che, per adattarsi ai nostri orari, è costretta anche lei ad orari lunghi ed irregolari anche nei giorni festivi. Considerando tutti questi svantaggi, sappiamo di sottopagarla, costrette dalle buste-paga. Coscienti di essere noi stesse donne, non ci sta bene di sfruttare un’altra donna, ragazza alla pari, madre o sorella che sia. Questo disagio che viviamo come donne-madri-lavoratrici condiziona la nostra presenza all’interno delle organizzazioni politiche e sindacali. Ci troviamo su un pia-, no di inferiorità nei confronti degli uomini.
Non abbiamo mai il tempo di impegnarci fino in fondo nella militanza, di essere sempre presenti. Non riteniamo neanche giusto questo concetto di super-militante, però spesso ci sentiamo emarginate.
Ora stiamo dando battaglia all’interno delle nostre organizzazioni, al modo maschilista di fare politica, perché non siamo disposte a lasciare né la politica in senso generale né la soluzione dei nostri problemi come donne a chi è più privilegiato di noi.

nel sindacato
Come altre compagne del collettivo, non lavoro ai Centri Operativi di Acilia bensì alla Direzione Generale. Qui la realtà, anche se è meno immediatamente violenta, è chiaramente discriminatoria. Essere donna significa qui (come dappertutto) essere un po’ meno uguali. Ci sarebbe da dire molto sul nostro collettivo, ma vorrei sottolineare perlomeno due aspetti specifici: il rapporto con il sindacato ed il ruolo politico che ha assunto all’interno dell’azienda. Per quanto concerne il rapporto con il sindacato possiamo dire che, svolgiamo un’azione autonoma e tutt’altro che secondaria anche se accettate solo per il vuoto totale sul problema «femminile» (non ci facciamo illusioni in proposito). Ci siamo appropriate di tutti i temi che possono essere connessi con la nostra specifica condizione di donne e non tralasciamo occasione per porli in luce con la dovuta aggressività. Il nostro ruolo politico si è estrinsecato sia durante il rinnovo del contratto di lavoro sia durante le varie assemblee. Queste esperienze hanno fatto sì che la nostra riflessione collettiva si sposti continuamente dal nostro privato-politico al politico-generale, caricandoci di tutte le implicazioni di tensione e di scontro che questo comporta, ma facendoci crescere tutte insieme su esperienze comuni che fanno sì che ci si senta legate non solamente da vincoli nati in sedi proprie femministe (quali il piccolo gruppo, il collettivo femminista) ma solidali e compatte in una lotta che portiamo avanti come militanti complessive.