la difficoltà di essere madre

gennaio 1977

quando sento parlare di maternità cosciente, di autodecisione della donna, di libera scelta, mi viene sempre un senso d’angoscia e di smarrimento, mi
sento immediatamente inferiore alle altre madri, sento quasi di non essere madre. Eppure lo sono, rimasi incinta a 22 anni, mi sposai al 7° mese di gravidanza, costretta dalle famiglie, dalle circostanze.
Per me allora avere un figlio non significava automaticamente matrimonio, per diversi mesi ho sfuggito quest’idea, questo «finale» prestabilito dalla società. Ho vissuto la mia gravidanza in modo abbastanza sereno, stavo bene, ero una bambina alle prese con una esperienza più grande di lei, solo ora ne sono cosciente, avevo vicino il mio compagno che mi aiutava, viveva insieme a me giorno per giorno l’attesa di questo figlio. Quando si era trattato di decidere se tenere o no il bambino pensammo insieme diverse volte alla possibilità di abortire ma oggi so che ebbi paura, che l’educazione ricevuta e tutto ciò che mi circondava non mi permettevano di accettare l’idea di un aborto, era meglio tenerlo in fondo quel figlio, tante donne hanno figli a 22 anni e poi in fondo «le donne sono fatte per essere madri», prima o poi dovevo esserlo anch’io.
Insieme al mio compagno facevamo grandi progetti, sognavamo, anche lui giovane come me, studente allora. Nel periodo della gravidanza, soprattutto negli ultimi mesi, vi furono problemi nei rapporti sessuali, io allora non venivo considerata già più da lui come donna, amante, ma come futura madre, sentivo di avere esigenze sessuali ma queste non venivano minimamente considerate, mi masturbavo da sola, con disperazione e rabbia e una volta glielo dissi in faccia, vincendo le resistenze e i tabù che mi impedivano di parlare apertamente di certe cose. Ho partorito molto dolorosamente, il bambino era podalico, ebbi la fortuna di partorire in clinica, risparmiandomi così il trauma dell’ospedale, della sala travaglio, ma il ginecologo che mi teneva in cura e che mi assistette nel parto preferì non farmi il cesareo e mi straziò letteralmente su quel lettino mentre io urlavo di dolore e sentivo le sue mani dentro la vagina che cercavano inutilmente di rivoltare il bambino, di tirarlo fuori in ogni modo. Lo stesso ginecologo che mentre mi ricuciva perdeva la pazienza se io accennavo il minimo segno di sofferenza, dopo un parto traumatico che lui stesso in seguito ha definito di tipo medievale. Quando mi ritrovai quel piccolo essere tra le braccia pensai certo che era cosa mia, fatta da me ma non provai nulla di quello che tradizionalmente viene chiamato «amore materno». Ho cominciato ad amarlo veramente dopo i primi mesi, piano piano, giorno per giorno, però mi ritrovai il padre che volentieri suppliva ad ogni mia carenza e sempre più si attaccava morbosamente a questo figlio, sempre più io ero la madre di suo figlio, una brava compagna che affrontava insieme a lui le difficoltà del momento. Due anni senza lavoro, dedicati al bambino, senza più pensare a me stessa, con pochi soldi, pochi aiuti esterni, isolamento e incomprensione, l’incomprensione di chi un figlio non ce l’ha, gli amici e le amiche giovani e senza problemi, altre vite, altre cose che io non avevo più. Dopo due anni i primi lavoretti, il bambino all’asilo-nido pagato dalla suocera, stessi problemi con il marito, chiusura, inibizione a livello sessuale, desideri reconditi e risospinti nell’inconscio, evasioni sognate, libertà dimenticate e sempre, sempre isolamento, ripresa di un’attività politica disumanizzata, frustrante, compagni senza figli, senza i tuoi problemi. Crisi spaventosa, rifiuto totale per il figlio, mancanza assoluta di disponibilità nei suoi confronti, sensi di colpa, sofferenza atroce, chi sono, cosa voglio, non voglio più niente, negazione di me stessa: colloqui terapeutici per tornare a galla, per risollevarmi dalla merda totale in cui ero precipitata, mi si consiglia di riavvicinarmi al figlio, di avere contatti fisici con lui, sentirlo, accarezzarlo, baciarlo, usare il mio corpo per comunicare con lui e piano piano ci riesco, ma qualcosa è cambiato nel nostro rapporto. Io attraverso una fase di egoismo, penso finalmente a me stessa, la presa di coscienza femminista mi aiuta, ricostruisco un rapporto con il figlio che non ha più niente di tradizionale e che suscita la disapprovazione di mio marito. Costruisco cioè un rapporto di amicizia e di scambio, mi si dice: «Il bambino è troppo piccolo, ha tre anni, ha bisogno di una vera madre»; mi ribello, comincio a pensare all’educazione collettiva dei figli, al problema della socializzazione dei bambini, cioè i propri figli non sono solo nostri, appartengono alla società, hanno bisogno di altri punti di riferimento esterni che non siano il padre e la madre, i figli sono un problema sociale. Ma intorno cosa c’è? C’è forse qualcosa che t’aiuta, che ti viene incontro? C’è la coscienza di questo problema da parte di chi figli non ce l’ha? Ci sono strutture sociali che intervengano sul problema della maternità e che considerino le esigenze di una madre? Non c’è nulla di tutto questo, esperienze d’avanguardia, comuni, lasciano il tempo che trovano, la massa delle madri è abbandonata a se stessa. Di nuovo, per una serie di circostanze, ricado nella poca disponibilità nei confronti del figlio, c’è il padre che è molto più bravo di me, più paziente, più attento, più pronto a sacrificarsi, il padre che per lungo tempo ha privilegiato il rapporto con il figlio rispetto a quello con la sua donna ed io questo bambino so di averlo sempre sentito fra di noi, come qualcosa che ci ha divisi e allontanati.
Sensi di colpa, torno dallo psicanalista, piango se parlo del figlio, guardo le altre madri, quelle «tradizionali» con un senso quasi di invidia, ma anche di distacco, io non sono come loro, non sarò mai come loro, ancora mi attacco fisicamente al bambino, voglio sentirlo con il mio corpo, voglio dargli delle cose, ma a me chi le dà le cose di cui ho bisogno? Soffro di una crisi d’identità, sono moglie, madre, o sono semplicemente una donna che ha un figlio e che vive con il padre di suo figlio? La differenza è sostanziale, mi sento schiacciata, dai ruoli impostimi dalla società, dalla gente per bene, dalla gente «normale».
Sento infine che solo nel rapporto con altre donne che hanno gli stessi problemi posso riuscire a stare meglio, a capire, ad avere il coraggio di lottare e soprattutto a non sentire inesorabilmente su di me il giudizio ostile di una società e di una struttura familiare che quotidianamente ti colpevolizzano se appena non rientri nei canoni normali, se più o meno consapevolmente sfuggi dai ruoli imposti.