lesbismo

la madre l’altra

rapporto tra donne: un coinvolgimento passionale ed emotivo vissuto con grande intensità, in esso direttamente ma oscuramente tocchiamo il nodo della separazione-ricongiunzione con il corpo amato della madre, perché non parlarne?

gennaio 1982

É nato un movimento delle lesbiche in Italia?
Difficile dire quali sviluppi potrà avere questa aggregazione e se riuscirà ad esprimersi in nuove forme collettive. I percorsi della politica oggi sono bizzarramente inusuali, sfuggenti alle linee dei partiti e all’analisi dei commentatori. Nel sociale è come se ribollisse un magma, che stenta a prendere forma ed erompe qua e là – ora dentro le stesse strutture istituzionali ora al di fuori di esse in forme di aggregazione politica riluttanti ad ogni egemonia come i movimenti per la pace. Capire ciò che accade intorno a noi richiede occhi particolarmente acuti e soprattutto la capacità di osservare piuttosto che presumere. Per quanto ci riguarda direttamente come femministe, sappiamo che se il movimento è finito nelle forme che si era dato, non v’è donna dai cinquanta ai sedici anni che non ne sia stata in qualche modo toccata. Abbiamo allargato l’area del “malessere” – quello da cui nascono le ricerche d’identità e le rivoluzioni – anche se è vero che, confuse già noi nel cercare le risposte alle nostre domande, abbiamo saputo socializzare soltanto questo febbrile domandarsi. A cui ciascuna dovrà dare la sua individuale risposta.
E però a tante di noi che abbiamo vissuto momenti di aggregazione collettiva tra i più esaltanti degli ultimi anni perché coincidevano con i nostri bisogni e desideri – come il femminismo -manca oggi una dimensione sociale del vivere e del cambiare, quel filo comune che ci ha consentito anche di essere forti. Per contare. Ma è anche vero che in quegli anni alcuni bisogni e desideri sono stati repressi e non solo tra le donne che hanno vissuto il movimento. Mi domando quanto abbia potuto partecipare in prima persona una donna lesbica alla lotta per l’aborto. Non solo. Ma che cosa per una lesbica abbia significato o significhi l’analisi del rapporto con il “maschile”, che per la maggior parte delle donne è il padre (anche culturale) – padrone-compagno della vita.
Quel che mi pare rilevante è che oggi questi bisogni di ricerca, di identità ma anche di confronto collettivo all’interno e all’esterno – si siano coagulati in un movimento che può essere sì di “minoranza” ma non perde di vista il senso della politicità dell’aggregazione e che nasce in un momento in cui la soddisfazione dei bisogni segue percorsi individuali o di piccoli gruppi.
Credo che definirne già l’esistenza, di un movimento lesbico, sia importante, perché questa affermazione di s’esisto, esistiamo – obbliga a una presa d’atto se non proprio a un confronto; e per i modi in cui avviene denuncia anche discriminazioni, ricatti, mostrizzazione, paura del diverso. Ma se, come dice Bianca nel suo articolo dall’interno del convegno, questo movimento è contiguo al femminismo e non antagonista, ha grandi ambizioni, vuol coinvolgere al massimo, non si accontenta di analisi né rituali né superficiali, ha con le istituzioni un rapporto assai critico. Può essere utile rivendicare una, carta dei diritti (le riforme sono una cosa seria se modificano nella sostanza i rapporti sociali) ma qui non si può ignorare che il problema è di costume, mentalità, cultura. L’omosessualità nel nostro Paese, a differenza di altri, non è condannata da alcun articolo del codice Penale. La circonda il disprezzo e l’ironia: non di violazione di legge si tratta, ma di “vizio”, “perversione”, pensieri e atti “contro natura”. Se così è, la paura più grande per una lesbica non è tanto quella di non poter fare testamento in favore della donna che ama e con la quale vive, perché la legittima che tocca agli eredi ridurrebbe questo suo diritto, ma invece che l’avvocato che “tutela” gli eredi la presenti come “non capace di intendere e di volere” perché attratta da “turpi”passioni che ne invalidano la lucidità intellettuale.
É accaduto, potrebbe ancora accadere. Del resto cambiano prima le norme di legge o non si modificano piuttosto mentalità e comportamenti che poi le leggi registreranno? Questa modificazione di mentalità deve coinvolgere tutte e tutti. Ma li coinvolge nella misura in cui le analisi, il dibattito (quindi le lotte) vanno in profondità.
Le paure non sono soltanto quelle elencate in un documento fatto circolare al Convegno. Dietro quelle paure che sono pur vere e concrete (perdita di identità, solitudine, perdita dei diritti civili) ci sono, gigantesche, quelle più strettamente legate allo sviluppo psicologico di ciascuno, al definirsi di un’identità che è anche quella che ti danno gli altri. Un non-ruolo socialmente riconosciuto, un non-essere qual è quello della lesbica fa molta paura perché impone una ricerca di sé assai più approfondita, contro tutto e contro tutti. Nessuna rassicurazione; nessun modello. É una scelta che costa. Per questo molte donne, pur attratte dall’esperienza, la sfuggono; o la vivono saltuariamente quando il non viverla altererebbe troppo il loro equilibrio psicologico. Se la repressione e l’autorepressione non le distruggono.
Ma l’amore, la sessualità con un’altra donna fa anche paura perché in questi rapporti il coinvolgimento emotivo e passionale è massimo, si tocca qui direttamente ma oscuramente il nodo della separazione/ricongiunzione con il corpo amato della madre. Tutto diventa agitazione e deflagrazione. La parola madre non l’ho mai letta nei documenti del convegno. Forse vale la pena di trovarle una collocazione nelle analisi e nelle testimonianze. Se è vero quanto in questi anni va scrivendo la Irigar che ogni donna porta nella sua carne il marchio della rinuncia alla ricongiunzione con il corpo della madre -assenza/presenza, ferita aperta, quell’essere sempre in qualche modo altro da sé della sessualità femminile -di questo rapporto bisogna parlare. Quante lo hanno rivissuto nell’amore con un’altra donna; e quante questo percorso se lo sono negato 0 lo seguono tortuosamente. Può essere un tentativo di dialogo senza rinunciare a una “diversità”, che finora le altre donne hanno rifiutato per incomprensione o tollerato in nome di un generico diritto alla libertà delle scelte. É una proposta di discussione volutamente provocatoria quella che faccio: per passare la parola, su questa rivista ad altre donne.