la prostituzione fatta in casa

luglio 1977

c’è nel libro Prostituzione di Kate Millett una frase di una prostituta che mi ha molto colpita. Questa donna dice: io non mi sono mai sentita puttana quando ho fatto l’amore per denaro, ma mi sono sentita tale quando ho ceduto ad un uomo per altri motivi, quando ho dovuto fingere amore, partecipazione e piacere, anche se in realtà desideravo solo essere accompagnata al cinema o ad una festa.
Ecco dunque cosa è la prostituzione: uno scambio, fra sesso e denaro, non mistificato. Invece nel matrimonio, e in genere in ogni altra forma di rapporto uomo-donna, lo scambio fra servizi, non solo sessuali, e denaro, sotto forma di sussistenza e di favori, è mistificato e nascosto. Quindi è considerato normale che la prostituta chieda il massimo possibile, mentre la non-prostituta deve ostentare il massimo disinteresse possibile, anche se è chiaro a tutti che questo scambio è l’unico suo mezzo per vivere, o per avere una sua identità, sociale.
Per questo la prostituzione, pur funzionale al sistema, è un grosso pericolo per esso, perché svela alle donne come in realtà stanno le cose. E non è solo questo. C’è anche il fatto che la prostituta può gestire il suo corpo come un mezzo di produzione, per ricavarne denaro e quindi potere. E questo è molto pericoloso, perché per le altre donne l’espropriazione del loro corpo è totale, finalizzata alla produzione di figli e di servizi e al piacere dell’uomo, anche se vissuta come il dono di sé al proprio uomo. Per questo il mondo maschile deve esorcizzare continuamente la prostituzione, per questo lo scambio sesso-denaro deve essere qualcosa di immondo e di diverso da ogni altro scambio, che tutti devono esecrare, per questo la prostituta deve essere fuori legge e continuamente perseguitata, divisa dalle altre donne e additata al loro disprezzo. Per sfuggite a tale persecuzione e per non essere depredata di tutto il suo denaro, la prostituta deve accettare la protezione maschile, magari mistificata come per, le altre donne, rinunciando quasi sempre ai vantaggi della sua condizione, Oppure deve accettare una segregazione e una ghettizzazione (vedi case di piacere) ancora peggiore di quella imposta alle altre donne. Ricordo che, in una discussione sul salario al lavoro domestico, alcune compagne affermarono che avrebbero accettato il salario al lavoro domestico per lavare i piatti, ma non per fare l’amore, il che le avrebbe trasformate in prostitute, sia pure di Stato. A me sembra che questa affermazione rifletta una scala di valori del tutto maschile, dovuta ad una analisi non approfondita del fenomeno prostituzione. A me sembra che chiedere un salario per tutto il lavoro domestico che facciamo, compreso il servizio sessuale, vuol dire ribaltare l’ottica del sistema, proclamando che ogni rapporto interpersonale è un rapporto di scambio e che questo rimane vero anche se possiamo amare i nostri figli e i nostri uomini e anche se proviamo piacere a stare con loro, e anche se cucinare e lavare i piatti ci diverte, qualche volta. Vuol dire anche proclamare che siamo stufe di scambiare la continua rinuncia a noi stesse e alle nostre esigenze con la sopravvivenza alle dipendenze di un uomo e che siamo stufe di illuderci che questo sia amore. Ci accorgiamo così che lo scambio ineguale fra uomo e donna (come pure l’obbligo di ostentare il massimo disinteresse per l’ineguaglianza di questo scambio, che ci rende donne «oneste» da contrapporre alle prostitute) è finalizzato nella società capitalistica a rendere possibile un altro scambio ineguale: quello fra forza-lavoro e salario. Ci accorgiamo così che la nostra controparte è soprattutto la società capitalistica, che dal nostro lavoro gratuito ricava tutti i vantaggi, pagando due lavoratori con un solo salario, e garantendosi attraverso l’istituzione famiglia che ogni lavoratore venga prodotto o riprodotto al minore costo possibile, per potersi poi vendere come forza-lavoro, cioè come merce e come oggetto. Un salario per il lavoro domestico ottenuto direttamente dallo Stato non vorrebbe dire la fine del lavoro domestico, ma ci permetterebbe di essere noi a definirne le condizioni, dandoci, in guanto lavoratrici, il diritto di smetterla finalmente di ostentare di essere disinteressate, esigendo meno lavoro e più soldi, come gli altri lavoratori. Un salario per il lavoro domestico ci permetterebbe di autogestire in qualche misura questo lavoro e quindi la nostra vita, rompendo il legame della dipendenza economica da un lavoratore salariato, dandoci la possibilità di decidere con chi fare l’amore e con chi vivere, e dandoci anche la possibilità di decidere quali sono le nostre vere esigenze.
Insomma un salario ci renderebbe più simili alle prostitute, permettendoci finalmente di separare l’amore dal lavoro: a tutt’oggi i nostri servigi sono la prova del nostro affetto, ed è per questo che ci è stato sempre così difficile amare. «Aver denaro è scegliere» è uno dei nostri slogan, che in fondo esprime una identità di vedute con la prostituta, anche se in realtà solo poche prostitute riescono oggi ad autogestire la loro Vita, a causa del loro isolamento sociale e della loro condizione di fuori legge.
Anche la prostituta serve lo Stato ed il capitale, assicurando che anche gli uomini che non possono scaricarsi sessualmente nel modo usuale, sposando una donna (vale a dire comprandosi una schiava) possano usare una prostituta come stazione di servizio sessuale, per ricaricarsi per le prossime giornate lavorative. La stessa possibilità esiste anche per gli uomini a cui la moglie non basta. E anche le leggi assicurano agli uomini il loro buon diritto a essere serviti sessualmente da mogli e da prostitute. Ricordiamo che il reato di violenza carnale in pratica secondo le nostre leggi non sussiste (date le molte attenuanti e la corrente pratica giurisprudenziale) sia se è compiuto nei riguardi della moglie legittima, sia se è compiuto nei riguardi di una prostituta.
Quando una prostituta riesce a sfuggire allo sfruttamento dei piccoli e grossi racket della malavita organizzata e a farsi accettare in qualche modo dal suo ambiente, diventa un formidabile strumento di redistribuzione del reddito e quindi di riappropriazione di
classe, proprio come il salario al lavoro domestico. In tempo di guerra e soprattutto An regime di occupazione militare le donne si prostituiscono all’invasore, sostituendosi ai loro uomini nel compito di portare soldi a casa, riuscendo ad ottenere questi soldi direttamente dalla borsa del vincitore che Hi ha espropriati. Lo stesso capita spesso alle donne dei poveri, che sono poi i vinti nella competizione sociale: si pensi alle donne di Napoli e delle città portuali in genere, che fanno sì che sulla prostituzione si reggano le attività economiche di interi quartieri. Ma in genere queste donne vengono mal ricompensate, quando i tempi tristi vengono superati e si torna in qualche modo alla normalità, e i capelli rapati delle collaborazioniste ne sono la prova. Oggi ci sono donne che stanno facendo della prostituzione una bandiera di lotta, un modo di prendersi un salario anche in tempi di crisi. Citerò da un documento dell’English Collettive of Prostìtutes, che è stato letto a un convegno sulla prostituzione del giugno 76 a Parigi:
«Quando andiamo a letto siamo costrette a considerare almeno in qualche misura quello che riceveremo in cambio: soldi, favori o <un trattamento migliore in qualche modo. Sia che ci proviamo piacere, o no, stiamo facendo dei calcoli. Noi prostitute non solo calcoliamo ma mettiamo un prezzo ai nostri servizi. La differenza tra sesso pagato e sesso non pagato sta solo in quello che riceviamo in cambio… E’ lavoro non pagato e lavoro malpagato quello che così tante ragazze stanno rifiutando; indipendenza quella per cui stiamo lottando, quando cominciamo la Vita… Casalinghe a tempo pieno, madri, studentesse, segretarie, operaie, donne in situazioni differenti stanno ‘rifiutando attraverso la prostituzione la rispettabilità del secondo lavoro, con la rispettabilità del suo basso salario. Noi prostitute stiamo resistendo al piano del Governo di tubarci un terzo del ■nostro salario con le tasse. Non pagare le tasse ci fa fruttare meglio, di per sé, il nostro lavoro. Quello che loro chiamano “la crisi” è stato un enorme attacco alle donne. Ci dicono di lesinare, di risparmiare e farne a meno. Ma noi non abbiamo risposto col sacrificio di noi stesse e la buona volontà che loro si aspettavano da noi. Abbiamo rifiutato di ridurre le nostre pretese ,e puntato per più soldi e meno lavoro, esigendo soldi per il sesso da quelli che se lo possono permettere».