l’America di Gianna Nannini

Toscana, ventisei anni, brava, scrive e canta canzoni d’amore e di solitudine a tempo di rock, suona il piano e il violino: sì chiama Gianna Nannini. Vi proponiamo una chiacchierata con lei.

maggio 1980

Per dare un’idea precisa di chi è Gianna Nannini, dovremmo essere molto più ricche e potervi regalare un disco con la sua voce, perché è la sua voce, che riassume la sua personalità: roca, spezzata, piena di carattere, profondamente erotica. Naturalmente sto parlando di una cantante e di una cantante di un genere particolare, il rock. In verità di particolare il rock ha soltanto che non ha partecipato all’ondata del “riappropriamoci della cultura” che il movimento ha-messo in moto. La cultura rock è ancora per molte di noi un mondo sconosciuto e un po’ sospetto. Gli unici recuperi che si sono tentati sono stati nella chiave un po’ restrittiva dell’anche-le-don-ne-fanno-il-rock, senza badare che i discografici seguivano la stessa strada e con ben altri intenti. Il giorno dopo un concerto di Gianna Nannini mi sono ritrovata a cena con lei per fare quattro chiacchiere. L’avevo cercata spinta dalla curiosità, e avevo anche un po’ paura che quel personaggio meraviglioso e pieno di forza sul palcoscenico, che cantava quelle canzoni così piene di provocatoria sessualità, mi si rivelasse una deludente figura costruita dalla pubblicità. Trovo una ragazzina bionda, stanchissima, che mi spalanca addosso due occhi di un verde oro incredibile e mi dice «Effe? eh, sono stata tra le prime abbonate” e comincia a saltellare per trovare Claudia, la sua press agent, e fissare un appuntamento. E’ un po’ stupita che le femministe la riscoprano. Non lo dice, ma forse è diffidente quanto me. Gianna Nannini non arriva ora alla musica, sono anni che canta e soprattutto anni che compone musica.
«Ho cantato ai festival dell’Unità, con L’UDÌ. Facevo canzoni un po’ intimiste. Ho inciso già tre LP. Ho cominciato con la Numero Uno nel ’74 con un 45 giri che si intitolava “Stereotipati noi”, tutta una cosa sul linguaggio. Lì, ho conosciuto Mara Maionchi e Claudio Fabi, ex produttore della PFM; lui è un essere umano, non un discografico, non ti cambia, era convinto che dovevo vivere la mia vita, se no non avrei scritto mai niente di buono. Nel ’76 mi ha fatto incidere il primo LP “Gianna Nannini”, quasi invenduto, perché gli arrangiamenti erano brutti, ma soprattutto perché non funzionava il linguaggio, che non era abbastanza espressivo. Poi un altro LP “Una radura”, nel ’77. Ma ho dovuto lasciare Claudio, lui mi giustificava troppo e io avevo bisogno di qualcuno con cui lottare. Adesso incido con la Ricordi. “America”, l’ultimo LP, sta andando piuttosto bene; finora a occhio, avrà venduto un 60-70 mila copie. Ma è stato difficile, difficile trovare un gruppo che mi seguisse nel mio modo di fare musica. E’ difficile per una donna, ancora adesso, trovare il suo posto. Certo, se fossi stata solo una cantante sarebbe stato più facile… ma io canto quello che scrivo…”.
Le dico le mie paure: “Chi conosce solo questo disco può avere questa impressione, è vero. Però è un’immagine che ho scelto io. Lo so che la “provocazione” può essere un oggetto di consumo, però io non la faccio per questo. Vedi, quando i discografici sono di fronte a una persona non ci capiscono niente, loro sono bravi a inventare, a fare prodotti confezionati bene. Ma se si trovano davanti a un personaggio che li domina, non possono fare più niente». Mi sembra proprio questo il problema! dominarli. “Certo, ma esiste un modo: devi sapere ben chiaro che loro hanno interesse a investire su di te e questo deve essere sicuro, devi avere delle grosse potenzialità, devi essere certa della tua voce, per esempio. Poi devi sapere quello che vuoi fare, devi avere ben chiaro dove vuoi arrivare. Così puoi contrattare ad armi pari. Quando scoprirò di non avere più voce, me ne andrò in Canada, perché a quel punto potranno fare di me quello che vogliono. Finora io ero solamente la cantante femminista, perché i giornalisti non sanno scrivere, sono poveri di idee. Io parlavo del mio corpo e di sessualità e così ero la cantante femminista. Certo che lo sono, ma non e’ entra con la musica che faccio, almeno non nel senso che dicono loro. Come quando tirano fuori il disco “Rock è donna”. Ghettizzano tutto quello che le donne fanno, “rock è donna”: lo dicono perché secondo loro le donne non possono fare rock e così quando vedono che invece lo fanno — e bene— plaffete, l’etichetta. Sono contraria a queste cose. Però mi dà molta energia il fatto che tu, di Effe, sei qui, adesso”.
Le tue canzoni: sono canzoni d’amore molto particolari, c’è una carica di erotismo, un modo non sdolcinato di parlare di sessualità, della sessualità vera, ma così estranea al mondo della canzone italiana… “America”, la canzone, per esempio: non sono mica riuscita a capire se parli del rapporto a due o di autoerotismo. “E’ la famosa differenza fra masturbarsi e fare V ‘amore: quando fai l’amore…”.
Incontri più gente. “Proprio così” mi prende in giro, chissà, con quella risata alla Bob Dylan c’è da aspettarsi di tutto. “Vedi, parlo del rapporto sessuale non certo come incontro fra le anime, come-stiamo-bene-insieme, ecc. Quando fai l’amore, in fondo sei sempre tu che ti masturbi col corpo dell’altro, ognuno rimane col suo mondo di fantasie e basta». Beh, ma ti sembra casuale che sia una donna a parlare in questo modo di sessualità? “Certo che no. Mi interessa questo discorso sulla sessualità proprio come donna, però non amo le etichette, ecco tutto. Ho scritto delle canzoni che magari alle femministe non piacciono. Per esempio “A occhi aperti”, aspetta te ne canto un pezzetto: Nasce a caso nel respiro piano piano / è come un fiume che mi dilata il ventre / e sale all’improvviso / nella mia mente / nasce a caso una domanda: / nel bisogno di carezze / c’è la voglia di violenza/ voglia di arrendermi / scelgo adesso di arrendermi / dietro una porta chiusa a chiave / posso lasciarmi andare ad occhi aperti / e quanto costa dimenticarmi / per un’ ora di me stessa. Insomma, capisci, voglio anche parlare di queste cose, di questi lati nascosti della nostra sessualità, che vanno contro l’ideologismo che però non sono facili da accettare». No, non sono per niente facili, confermo. Parla con un intenso accento toscano. “Sono dì Siena, ho 26 anni, da sei vivo a Milano. Me ne sono andata di casa a dicioit’ anni, poi sono tornata e me ne sono andata di nuovo a vent’ anni. Ho vissuto molto male a Siena; ormai ci vado solo ogni tanto, sì, c’è ancora qualche amico. La famiglia? sì gli voglio bene, ma c’è stata una rottura piuttosto grave, ho paura che non si sani più. Adesso con loro va abbastanza bene, ma prima è stata una tragedia perché volevo fare la cantante; ora sono un po’ più contenti, ma dovevano farlo prima. Ho due fratelli”.
Si rabbuia e capisco che non mi dirà una parola di più sulla sua famiglia. “Ho fatto anni di conservatorio, poi ho smesso. Secondo me il conservatorio rovina chi vuole fare musica”. Tu suoni con un gruppo tutto maschile, che rapporti hai con loro, li devi dirigere, devi fare la regia del gruppo, questo non scatena competitività? “No, niente di tutto questo, andiamo d’accordo. Io non li dirigo nel vero senso della parola, però certo loro devono seguirmi, aspettare che io sìa pronta a ricominciare a cantare, ma c’è uno stimolo reciproco: io suono il mio strumento, che è la voce e loro suonano il loro, il basso, la batteria… ciascuno in ogni momento comanda il proprio strumento, intorno a questo fanno la mia musica e lo fanno con grande entusiasmo”.
Prima dello spettacolo, ieri sera, mi chiedevo se per caso non avessi preso qualche droga… “No, e non lo dico per moralismo. E’ che non mi fa bene, mi dà una lucidità,
una freddezza… quanto canto non ho bisogno di carica, per me già lo spettacolo me la dà, sento l’energia di stare sul palco, dì comunicare delle cose…”. L’energia te la dà la tua voglia di esprimerti o il pubblico? “No, è la mia voglia di esprimermi. Per me la musica, il rock, è un modo per riuscire ad esistere. Con la musica riesco a trovare l’espressione di quello che mi manca, voglio sentire la gente che reagisce alla mia musica, questo è comunicare. E’ difficile realizzare un contatto, e se non lo realizzi, a che serve la tua espressione? Quando sali sul palco ti senti esaltata, ti piace che ti ammirino, però questo ti deve far sentire anche molto tìmida, a me mi fa questo effetto. Quando scendo dal palco quasi mi vergogno, mi intimidisco”. Infatti me la ricordo, la sera prima, tremava, sembrava un pulcino, niente di tutta questa sicurezza che mi sta comunicando. Ti senti responsabile? “Non lo so, non lo capisco bene. E’ da poco che mi capita, prima mi fischiavano sempre. Ci sto ancora pensando su. Credo però che la gente non ha ancora capito bene quello che faccio. “America” va bene, alle radio, perfino in discoteca, però è un pubblico molto eterogeneo che mi segue, in Italia ci sono quelli che vanno ai concerti solo per divertirsi, ma ho visto anche gente dar fuori di matto, esaltarsi, è questo che mi spaventa, non capisco cosa pensano, se hanno capito”.
Cos’è che li esalta: la tua persona o le tue canzoni? “Forse la persona: quando comincio a cantare sono solo una che fa il rock, poi vien fuori che canto cose molto personali e in quel momento la gente capisce che sono naturale… così si realizza una comunicazione… fare musica per il proprio piacere non significa nulla, la devi portar fuori, uscire dalla stanza. Per questo è importante la gente che viene a sentirti. La gente che compra i dischi li compra per l’immagine che hai, per quello che rappresenti, comprano una cosa falsa, se vuoi; c’è una scissione tra chi ascolta e chi fa musica. La gente lo sa e compra lo stesso. I concerti servono a ricomporre la scissione. Non mi realizza fare solo ì dischi, ho bisogno del concerto. Poi con questo gruppo è molto bello. Mi sento battagliera”. E se incontri un pubblico ostile, che fai? “Eh, mi è capitato l’anno scorso a Torino: tremila persone fischiavano una canzone che a me piaceva molto, proprio non mi aiutavano, ti pare? e allora che fai, continui. A volte devi combattere per conquistarteli, non puoi liquidarli così, dicendo “non capite la mia musica”, devi conquistarteli, capisci, se vuoi comunicare”.
Il fatto che bene o male sei l’unica donna in Italia che fa un rock così aggressivo non ti aiuta? “Ma è proprio per questo che la gente è diffidente! Poi questo tipo di pubblicità può influire negativamente sul discorso che faccio nei miei concerti, la gente può pensare che si tratti di un bluff, di una trovata pubblicitaria”. Sacrosanto, direi, visto che anch’io ne sono rimasta vittima, pur apprezzando molto la musica di Gianna. Me la guardo mentre, continua a rimpinzarsi di prosciutto e sono contenta di averla conosciuta. Una donna testarda che si identifica completamente con le cose che fa. La musica, il rock è la sua dimensione di vita, per questo non’ ho bisogno di sapere che rapporti ha col simpatico spilungone americano con cui va in giro, o quanti uomini ha avuto o se è omosessuale o bisessuale o tutto quello che normalmente si intende per “vita privata”. La sua vita privata è lì, nella musica che fa e che lei regala alla gente, cercando di farsi capire e stabilire un contatto. Per me è una grande figura erotica, nel senso più ampio del termine, una persona che si trasmette agli altri con la presenza, con la fisicità e con la gioia e l’energia di esistere e lottare per essere se stessa. E mi sembra una cosa così difficile da trovare, che mi basta quello che dà.