le vie dell’oppressione sono infinite

Pubblichiamo la seconda parte di un saggio inglese di analisi delle varie componenti e della funzione sociale della violenza contro le donne. La prima parte è apparsa sul numero di gennaio di Effe, che è disponibile per quante lo vogliano richiedere.

marzo 1979

ammettere che la violenza degli uomini nei confronti delle donne ha lo scopo di controllarle, può servire a spiegare sia la violenza pubblica che quella privata. Si possono, così, comprendere anche gli eccessi di violenza. Per poter rimanere padrone della donna può essere, o sembrare, necessario uccidere, mutilare, o compromettere temporaneamente la sua capacità di prestare servizi. Prestigio, valore, stima di sé: è quello che l’uomo guadagna, esprime e gli è riconosciuto dagli altri.

In questa prospettiva lo Stato rappresenta gli interessi del gruppo dominante (in questo caso gli uomini) nel confronto col gruppo subordinato (le donne). Così, è logico che nelle liti domestiche è lo status della vittima a determinare la risposta di quell’organo statale deputato a controllare la violenza (1). Quando uomini estranei ad una donna (i poliziotti), sono d’accordo con l’uomo che lei conosce (il marito) nel realizzare il loro scopo comune, definito dallo Stato, la legge viene difesa imparzialmente, poiché lo Stato definisce le donne come “meno uguali”. La scoperta di questa complicità è uno choc per le donne che per la prima volta si rivolgono alla polizia per essere protette. La maggior parte di loro non ha coscienza del fatto che, sposandosi o coabitando con un uomo, perdono dei diritti, ma le violenze subite nel contesto familiare fanno emergere la contraddizione tra i loro interessi e quelli del marito (2). La preminenza degli interessi maschili si esprime attraverso una politica esplicita: per esempio, in Gran Bretagna, una delle preoccupazioni maggiori del sistema di assistenza sociale è il mantenimento della struttura famigliare, e nella famiglia la donna è definita come dipendente dall’uomo (3), Creando una dipendenza “simmetrica” tra i sessi, lo Stato dà man forte all’uomo, rendendo difficile alla donna rompere il matrimonio, Le leggi e la loro applicazione, la politica degli alloggi, i contributi sociali, l’occupazione ed i salari, tutto questo rinchiude la donna nella sua condizione di dipendenza. Perché una donna possa abbandonare, insieme ai propri figli, un marito violento, deve essere protetta da questa violenza, aver un posto dove alloggiare, un aiuto economico. La Commissione d’Inchiesta ha evidenziato il ruolo dello Stato nella creazione della dipendenza femminile ponendo questa domanda del tutto retorica: “Perché tocca alla donna ed ai bambini abbandonare la casa e non all’uomo? Perché non creare allora alloggi per accogliere mariti violenti?”.

Il problema rimane alla vittima, sia dal punto di vista ideologico che da quello pratico. Le donne che vanno nei rifugi per donne picchiate sono l’ esempio di come la violenza del marito sia fondamentalmente un “loro problema”: tutte le istanze ufficiali si ritorcono contro di loro (servizi sanitari, assistenti sociali, volontari o ufficiali, varie strutture giuridiche o di polizia). Così la violenza diventa un fatto individuale, si nascondono le sue funzioni e infine si rafforza l’ideologia che sostiene il potere maschile. Questo procedimento si evidenzia chiaramente attraverso gli esempi citati (*). La polizia, gli assistenti sociali, il personale ospedaliero lasciano la donna di fronte al “suo” problema. Inoltre, lo Stato sostiene l’onere finanziario delle conseguenze della violenza nel matrimonio garantendo i servizi per provvedere alla donna o, se ce n’è bisogno, ai bambini. Lo Stato pensa di ricomporre le cose tramite gli ospedali, gli istituti per bambini, l’assistenza sociale (4).

Ma nel caso in cui una donna con figli a carico abbandona il marito, lo Stato la manterrà finché non si risposa, sostituendosi alle responsabilità finanziarie del marito. Com’è chiaramente indicato nel “Rapport du Comité d’Etudes sur les ménages mono-parentaux” (Rapporto del Comitato Studi sulle Famiglie con un solo genitore), gli uomini sono responsabili finanziariamente solo delle donne che coabitano con loro (5). Lo Stato in questo modo agisce in favore degli uomini, che rimangono sempre liberi di concedersi i servizi di una donna — definita dallo Stato come dipendente, invece la donna che dipende dallo Stato (surrogato del marito) riceve un sussidio minimo, per essere così incoraggiata a rientrare al servizio di un altro uomo. La politica è dunque quella di riportare le donne al matrimonio (o al concubinaggio) se per “disgrazia” ne erano uscite (6). Nella sfera pubblica, la complicità tra Stato e interessi maschili traspare dalle reazioni dell’apparato di fronte alla violenza esercitata individualmente dagli uomini contro le donne. Apparentemente è impossibile garantire l’incolumità alle donne per la strada o il loro accesso in ogni parte della città, o della comunità. La topologia delle nostre città industriali è paragonabile a quella di numerose società pre-capitaliste, dove la casa, o meglio l’area dell’uomo, occupa il centro mentre le donne e i bambini vivono alla periferia. Nelle nostre città, al centro troviamo gli edifici pubblici, luoghi di attività maschile. Come spiegano D. Poggi e M. Coornaert, le istituzioni centrali, i luoghi di potere, di prestigio, dove si svolgono le transazioni determinanti per la comunità, sono effettivamente chiuse alle donne in quanto gruppo. Nello stesso tempo sono limitati gli ingressi nelle sfere di attività urbana, di produzione, di lavoro, di tempo libero, Le donne sono tollerate ma con delle restrizioni. Non hanno il pieno uso della città: «le strade per loro sono piene di passaggi vietati e di segnali d’allarme». Le donne debbono evitare alcune strade, quartieri, parchi o luoghi pubblici, di giorno e soprattutto di notte. Sia nei negozi, il solo spazio urbano dove abbiano libero accesso, che dentro casa, le donne sono isolate le une dalle altre. Come fanno notare D. Poggi e M. Coornaert, l’incontro alla pizzicheria d’angolo non è mai stato per una donna l’equivalente dei bar e dei caffè per gli uomini. Lo spazio urbano per le donne è delimitato; uscire dagli spazi consentiti significa correre il rischio di farsi aggredire. L’atto di violenza che riceve maggior attenzione da parte della gente è lo stupro. Vengono sempre più denunciati il comportamento della polizia e le procedure giuridiche. Come spiega il N.C.C.L. (National Council for Civil Liberties), gli stupratori hanno maggiori possibilità di essere assolti se lo stupro è socialmente accettabile e se il modo di vita della vittima esprime autonomia (7). Vivere sola, camminare sola, fare autostop, portare vestiti “indecenti”, aver parlato o bevuto_ un bicchiere con lo stupratore sono azioni che rendono possibile lo stupro. Essere nubile, divorziata, adultera, avere un figlio illegittimo, un amante, aver abortito: tutte situazioni che non hanno niente a che vedere con lo stupro, sono fattori che fanno sì che lo stupratore agisca con la coscienza tranquilla. Come ha scritto un gruppo di femministe rivoluzionarie: «Solo una donna sposata, chiusa dentro casa, in compagnia, coperta fino al collo, può essere riconosciuta come vittima; quando cioè lo stupro è non solo materialmente impossibile, ma soprattutto socialmente ingiustificato dal punto di vista patriarcale (8)». Così in pratica gli uomini che, apparentemente, non hanno niente a che vedere con le forze dell’ordine, in effetti ricoprono la stessa funzione. Quelli che molestano, attaccano, stuprano le donne devono essere considerati come «i giudici, i vigili, i carcerieri dell’ordine patriarcale», non come dei pazzi, disadattati, maniaci sessuali, poiché «la caccia alle donne è aperta tutto l’anno ventiquattro ore su ventiquattro». La paura della violenza e la violenza stessa hanno per effetto di gettare le donne nelle braccia “protettive”, rassicuranti degli stessi aggressori. Mariti ed amanti hanno la funzione di proteggere le donne dalla potenziale violenza di sconosciuti. Esse si sentono più sicure in un luogo pubblico se sono in compagnia di un uomo. La famiglia è diventata il simbolo della sicurezza, mentre, da un punto di vista statistico, è proprio nel matrimonio e nel concubinaggio che sono maggiori le possibilità di subire violenza. La paura diffusa di poter essere aggredite nei luoghi pubblici serve ancora a rafforzare la dipendenza delle donne dagli uomini. Il fatto che alcuni mariti non picchino la propria moglie e che numerosi uomini non aggrediscano le donne per strada non è la dimostrazione che le aggressioni maschile non siano una pratica corrente, sistematica, limitata solo ad uomini di bassa estrazione sociale, con condizionamenti da povertà; è solo la prova che per mantenere i privilegi del proprio gruppo non è necessario che ogni uomo agisca in questo modo. J. Dollard parla dei “bianchi buoni” del Sud che non sono complici delle crudeltà che vengono inflitte ai neri da altri bianchi. Ma il dato importante è che ogni bianco potrebbe picchiare, stuprare, assassinare ogni uomo o donna di colore senza per questo dover temere di essere perseguito giudiziariamente, così come ogni uomo può impunemente appropriarsi del corpo della moglie o dell’amante. Dollard dimostra come anche i neri cercassero la protezione dei bianchi, l’egida dell’angelo bianco (9).

Il punto importante da sottolineare è che forza e minaccia non costituiscono solo strumenti di pressione secondari o residuali ma che sono al contrario le basi principali delle strutture gerarchiche, la base che sostiene tutte le altre forme di controllo. Anche se questo punto di vista non è particolarmente nuovo, raramente è stato applicato ai rapporti tra uomini e donne, probabilmente perché porterebbe a mettere in rapporto la problematica dello sfruttamento sessuale con quello di classe.

 

sesso e classe

Il paragone con la situazione dei neri è utile per poter chiarire il ruolo della forza nel mantenimento di una struttura sociale data. L’analisi che fa J. Dollard delle relazioni tra bianchi e neri in una città americana del Sud, dei privilegi sessuali, economici e dei prestigio che i bianchi traggono a discapito dei neri, può essere paragonata a quella fatta dal movimento femminista per quel che riguarda i rapporti maschili di sfruttamento (rapporti in cui intervengono la sessualità, lo status, il prestigio e anche la divisione del lavoro). Ma Dollard sottolinea anche che i privilegi dei bianchi non possono mantenersi se l’ideologia non è sostenuta dalla forza e dalla minaccia. In ogni momento viene imposto ai neri il rispetto nei confronti dei bianchi e le infrazioni alle regole sono punite innanzi tutto con la violenza fisica, anche se si applicano ugualmente le sanzioni economiche. Per quel che riguarda i rapporti di sfruttamento tra i sessi, tranne che nel movimento, essi non hanno dato luogo ad analisi così approfondite come quelle sui rapporti tra neri e bianchi, Le femministe hanno denunciato l’amore e “la natura della donna” come mezzi ideologici d’oppressione. Sempre più di frequente è possibile trovare saggi sull’economia domestica, sul problema del valore economico del lavoro fornito gratuitamente dalle donne; i pareri sono discordi quando si tratta di riuscire a capire chi beneficia di questo lavoro: il marito, il capitalista o entrambi? (10). Il ruolo giocato dalla violenza maschile nello sfruttamento economico delle donne — che comprende l’essere sottopagate nel lavoro salariato — viene menzionato come fatto secondario, quando non è del tutto taciuto. Si avanza l’ipotesi che sia il capitalismo, e non gli uomini, a trarre dei vantaggi dalle aggressioni di questi ultimi nei confronti delle donne. Per esempio, R. Frankeburg (11), cercando di reinterpretare le relazioni che c’erano tra i minatori e le loro mogli in Coal is Our Life, afferma che dalla violenza deriva senz’altro un beneficio economico, ma se ne avvantaggia il capitalismo, non gli uomini poiché questi si sfogano sulla loro moglie anziché rifarsi sul padrone. Da un altro punto di vista, questa è anche l’analisi dei gruppi per jl salario alle casalinghe (Wages for Housework Cam-paign) (36). Ogni servizio prestato al lavoratore maschio è considerato un lavoro per il quale è dovuto un salario, non da parte del marito, anch’esso schiavo salariato, ma da parte del capitale. Gli uomini sono considerati creditori, rispetto al padrone, del lavoro gratuito della loro moglie. Questi punti di vista non danno l’idea del matrimonio in quanto relazione di potere, né del ruolo essenziale che al suo interno vi giocano il controllo finanziario ed il potenziale ricorso alla forza fisica.

Ma il rapporto tra violenza e produzione economica, all’interno della famiglia, non è immediato. Se lo scopo fosse quello di estorcere alle donne il massimo del lavoro, la forza e la minaccia dovrebbero essere utilizzate per poter ottenere questo risultato, nello stesso modo in cui si utilizza la coercizione per mantenere il tasso di profitto nel lavoro industriale. Harris (12), studiando un Paese peruviano dove tutti gli uomini hanno l’ abitudine di picchiare la loro donna, nota che non c’è rapporto tra l’intensità delle percosse ed il comportamento della donna nell’adempiere ai suoi obblighi (che comprendono la produzione agricola). Le percosse sembrano casuali. Le spose “migliori” possono essere le più picchiate, mentre le più pigre o incapaci possono sfuggire a queste sevizie. Tornando a noi: in seguito alle constatazioni fatte nei centri di aiuto alle donne picchiate, le violenze dei mariti o dei conviventi non sembrano avere alcuna relazione con le prestazioni domestiche delle vittime. La forza è molto spesso controproducente; non solo le donne possono essere ferite gravemente ma possono risentire poi di turbe psichiche che renderanno ancora più difficile occuparsi dei bambini, preparare i pasti, tenere il bilancio ecc. Rischiano di ritrovarsi all’ospedale o in manicomio, privando almeno temporaneamente l’ uomo dei loro servizi. I Peruviani del paese dicevano di picchiare le moglie per mantenerne il controllo; gli inglesi dicono lo stesso, ed a nostro avviso è questa ragione, più che una economica, a dover essere accettata. Ma allora significa considerare la forza e la minaccia fattori che determinano l’inferiorità sociale della donna, mentre nella vita economica non ricoprono questo ruolo. Quello economico non è che uno dei benefici che gli uomini traggono dalla sottomissione delle donne. Man mano che il controllo sulle donne si estende, gli uomini ne traggono benefici anche nella sfera della sessualità, della riproduzione, dello status, e nel concetto che essi hanno di se stessi, per esempio un sentimento di superiorità. I rapporti tra l’esercizio della violenza e la struttura economica sono da ricercare nella storia dell’organizzazione dei sessi nelle differenti società. Le considerazioni di Engels sulla violenza nel matrimonio, che per lui sono marginali, sono da integrare nel dibattito di fondo. Secondo Engels «…nella famiglia proletaria, non esistono le basi di una qualsiasi forma di supremazia del maschio» (13), poiché non esiste la proprietà. La legge borghese che regolamenta le relazioni all’interno della famiglia non può essere applicata ai proletari e la possibilità per le proletarie di ottenere l’indipendenza economica entrando nella produzione significa che, a differenza delle borghesi, esse possono separarsi dal marito se lo desiderano.

Questa descrizione idilliaca della vita domestica della proletaria è attenuata da una notazione: «salvo che rimanga qualcosa di quella brutalità che si è diffusa dopo l’introduzione della monogamia». Per Engels l’organizzazione della famiglia varia in funzione delle condizioni economiche. Secondo lui, «gli uomini, accumulando sempre più ricchezze, hanno imposto la monogamia alle donne e le donne hanno accettato che il surplus di ricchezze appartenga agli uomini» perché prodotto al di fuori della famiglia, dal lavoro degli uomini. Ciò che aveva dato alla donna un ruolo predominante all’interno della casa, cioè la sua competenza nei lavori domestici, assicura nello stesso tempo la supremazia dell’uomo in casa; il lavoro della donna perde di valore rispetto a quello dell’uomo, che serve ad assicurare i mezzi di sussistenza. Engels pensava che è stato questo nuovo potere economico a permettere agli uomini di ribaltare il sistema matrilineare di discendenza e trasmissione di beni a favore di un sistema patrilineare.

Rosiland Delmar, in una rilettura critica del saggio di Engels (14) sottolinea che le ricerche antropologiche effettuate dopo Engels non hanno mai confermato l’idea di una divisione del lavoro spontanea e nettamente separata (le donne dentro casa e gli uomini fuori) e neppure l’idea di una progressione storica, nelle differenti società, nel passaggio dal matriarcato al patriarcato. Gli antropologi arrivano quindi alla conclusione che la violenza maschile nei confronti delle donne esisteva prima della monogamia. Se è vero che le donne hanno perduto nel corso del tempo un certo potere sociale, bisogna considerare l’uso della forza da parte degli uomini come una spiegazione almeno parziale per quel che riguarda questa perdita di potere, poiché la sola ragione invocata da Engels non è sufficiente a spiegare perché le donne hanno accettato che il surplus di ricchezze appartenesse unicamente agli uomini ed alla loro discendenza.

Non disponiamo di informazioni sufficienti che ci permettano di sapere se la violenza maschile sia aumentata dopo l’istituzione della monogamia; ma Delmar ci ricorda che anche secondo lo stesso Engels, le donne più oppresse della sua epoca erano le mogli dei borghesi. Un secolo dopo, l’esperienza dei rifugi per donne picchiate dimostra che questo tipo di violenza viene esercitata in tutte le classi sociali. Neanche la violenza nella sfera pubblica è una caratteristica di classe.

 

esclusione e costrizione

Il ricorso da parte degli uomini alla violenza o alla minaccia contro le donne è funzionale al raggiungimento di due scopi: escludere le donne da alcuni campi o restringere il loro campo d’azione e obbligarle ad un dato comportamento. Entrambi interagiscono: raggiungerne uno significa raggiungere anche l’altro. Le donne sono escluse — o hanno un limitato accesso — dai gruppi maschili in campo sociale, economico, politico. Gli uomini possono definire la realtà sociale perché possono escludere le donne, mentre queste non lo possono fare senza sembrare irragionevoli. Il potere d’esclusione è il linguaggio del dominio. Così i gruppi formati da uomini sono considerati pubblici, mentre i gruppi formati da donne sono considerati privati e meno permanenti, perché non beneficiano dell’approvazione sociale derivante da una posizione gerarchica superiore, Gli uomini infatti detengono il monopolio del pubblico. (1 concetto di esclusione comporta di per sé la minaccia di rappresaglie (cioè l’uso della forza) nel caso in cui le donne avessero la “pretesa” di penetrare in posti vietati.

L’altro aspetto dell’uso della forza 0 della minaccia da parte degli uomini consiste nel costringere le donne a comportarsi in un modo piuttosto che in un altro o ad eseguire alcuni compiti, in particolare quelli legati al “ménage”. Più le donne sono escluse dalle sfere sociali, economiche e politiche, più è facile rinchiuderle nel ruolo di “casalinga”. Ma anche quando le donne hanno un certo accesso al sociale, possono essere mantenute in un ruolo subordinato grazie ai mezzi di controllo ideologici e materiali (dipendenza economica e violenza fisica) e, grazie alla politica dello Stato, che sostiene la struttura gerarchica della famiglia.

La famiglia nella sua espressione più rigida isola le donne dagli altri adulti e determina una dipendenza economica totale, in modo tale che i più piccoli bisogni materiali, lo stesso scambio di parole, dipendono dalla buona volontà maschile.

E’ interessante notare che il movimento femminista alla fine del XIX secolo aveva individuato come suo principale obiettivo la lotta contro l’esclusione delle donne — dall’educazione, dal lavoro, dalla politica — mentre il movimento femminista contemporaneo lotta in particolare contro l’obbligo che le donne hanno di assolvere ai loro doveri di casalinghe. Il tema della violenza permette di stabilire un legame tra questi due aspetti della lotta femminista.

 

rispondere alla violenza degli uomini

Anche se succede che uomini aggrediscano collettivamente gruppi di donne, la violenza maschile generalmente si manifesta sempre nei confronti di una donna sola. In effetti agli uomini non sembra necessario aggredire le donne in quanto gruppo. Il solo caso di cui abbia sentito parlare recentemente avvenuto in Inghilterra è l’aggressione di un gruppo di uomini nei confronti di donne che assistevano all’ultima National Lesbia» Conference. E’ da notare che in seguito, non c’è stato nessun altro convegno di lesbiche: le interessate affermano che non possono trovare nessun luogo di incontro che le preservi da un tale pericolo.

Il fatto che raramente le donne in gruppo sfidano il potere maschile al punto da attirare su di loro la sanzione ultima può essere il segno della loro paura o può significare che sono tanto controllate da rendere inconcepibile questo genere di rappresaglia. Sfidare il potere maschile significa esporsi al fuoco del nemico, affrontare tutta una serie di ostacoli, il primo dei quali è l’accettazione del sistema della divisione sociale dei sessi; bisogna inoltre vincere dentro di sé la paura che si ha della devianza, della rottura con le norme culturali, di assumersi il rischio di scatenare azioni violente, di farsi carico di questa violenza e trovare i mezzi per liberarsi della dipendenza istituzionalizzata dallo Stato nel campo delle leggi, dei sostegni economici, degli alloggi.

Attualmente si manifesta una nuova presa di coscienza rispetto alla violenza maschile e le donne, proporzionalmente alle loro possibilità, cominciano a rispondere. Nelle prime analisi sull’oppressione, elaborate dal movimento femminista contemporaneo, la violenza fisica è stata inserita tra gli altri fattori di oppressione. Su questo tema si è sviluppato negli Stati Uniti un movimento per agire praticamente contro lo stupro, mentre in Gran Bretagna il movimento si è preoccupato prima della violenza nel matrimonio: ciò ha provocato reazioni anche in altri Paesi occidentali. Non si può prevedere cosa accadrà. Questa presa di coscienza si indebolirà, il “problema” sarà di nuovo reso individuale, o continuerà a diffondersi la consapevolezza del significato sociale delle violenze fisiche subite dalle donne, fino ad arrivare ad una più approfondita analisi del tema e ad una radicalizzazione delle lotte? Il “problema degli uomini” deve ancora essere sollevato sul piano teorico, come pure quello di una loro rieducazione. L’antropologia, la psicologia, la sociologia hanno largamente contribuito a propagandare la visione che gli uomini hanno della società, della cultura, delle donne e del loro modello di rapporto uomo-donna.

Per ristabilire l’equilibrio è necessaria una nuova prospettiva, che sottolinei la funzione della violenza e della minaccia come asse portante della struttura e del processo sociale che si regge sull’asservimento delle donne. Un’analisi del ruolo della violenza nel mantenimento del potere e dell’autorità maschile, ai differenti livelli di organizzazione sociale dai piccoli gruppi informali fino al funzionamento formale dello Stato su scala nazionale, dovrebbe chiarire rispetto all’analisi di classe i fondamenti ed il funzionamento della divisione tra i sessi e dello sfruttamento delle donne, al di là della contrapposizione borghesia-proletariato.

Traduzione di M. G. Mostra

 

NOTE

(*) Cfr. la prima parte dell’articolo iri “Effe”, n. 1, gennaio 1979.

(1) Dopo il rapporto della Commissione di inchiesta sulla violenza nel matrimonio, c’è stata Una modificazione della legge: i poliziotti devono ora procedere all’arresto se il giudice ne dà l’ordine, mentre prima questa responsabilità era delegata alle «Court officials». Questo non è ohe una pedina avanzata in una guerra psicologica molto complessa, si sa bene che la polizia ha sempre avuto il potere di arrestare i malfattori.

(2) Per un dibattito più approfondito su questi argomenti, vedi: Hanmer, J., “Community Action, Women’s Liberation Movement”, in Mayo, M. (ed.), “Women in the Community”, Routledge & Kegan Paul: 1977.

(3)Sull’azione dello Stato che mira a rafforzare la dipendenza economica delle donne, vedere: Land, H., “Women: Supporters or Supported?”, Barker & Alien, “Sexsual Division and Society: Process and Change, Tavistock, 1976, pp. 169-203; e Lister, R. & Wilson, L., “The Unequal Breadwinner”, Natiorial Council for Civil Liberties, 1976.

(4) Bisogna fare un’analisi della divisione sessuale del lavoro nel campo dell’assistenza sociale. Che significato sociale si deve dare al fatto che i principali “clienti” ed j anche ì lavoratori di base (non quelli dei livelli gerarchici superiori) nel campo dell’assistenza Sociale sono soprattutto donne? Bisognerebbe anche analizzare i verbali fatti dagli assistenti sociali per comprendere come loro presentarlo il sistema sociale dal punto di vista sessuale.

(5) Report of the committee on Orie-Parenl Families, H.M.S.O. (G.B.), 1974.

(6) Il passaggio delle donne dall’indipendenza alla dipendenza economica non implica necessariamente il matrimonio legale, Vedere il dossier del Bureau d’assistenza sociale: Li-ving Together as Husband and Wife, Supple-mentary Benefits Administration Pàper, 5, H.M.S.O., 1976.

(7) Coote, A, & Gill, “The Rape Contro-versy”, National Council of Civil Liberties, 1975. Griffin, S„ “Rape: The all-American Crime”, Ramparts, sept. 1971, pp. 26-34.

(8) Femministe Rivoluzionarie, “JuStlce patriarcale et peine de viole”, in Alternatives, n. 1, Giugno 1977 (Paris, Edition Alternatives et Paralleles).

(9) Dollard, I., “Caste and Classe in a Sow-thern Town”, Yale University, Press, 1937.

(10) Dupont, C, “L’ennemi principale”, Par-tisans, n. 54/55; “Liberation des femmes, année zèro”, Maspero 1970, pp. 157-172.

(11) Frankerburg, R., “In the production of theìr Lives, Men (?) … Sex and Gender in British Comunity Studies”, in Barker, D. & Alien, S. “Sexual division in Society”, pp. 25-51.

(12) Edmon, W. & Fleming, S., “Ali work and no pay”, Power of women collectlve and falling wall press, 1975.

(13) Comunicazione personale.

(14) Engels, F., “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato”, Roma, Savelli 1977.

(15) Delmar, R., “Looking again at Engels origin of the family, private property and the state”, in Oakley A. & Mitchell I. (eds) “The Rights and Wrongs of Women”, Pen-guin, 1976, pp. 271-287.

(16) Withehurst R., “Violence in Husband-wife Interaction”, in Steinmetz S. & Strauss M., op. cit.; cfr. anche Russel D. “The politics of rape”, Sten and Day 1975; Broenmiller S., “Contro la nostra volontà”, Bompiani.