lettera aperta alla facoltà di architettura

maggio 1977

sono approdata nella facoltà di architettura del Politecnico di Milano nel ’69. Provenivo da un liceo privato di Roma, fortunatamente laico e misto ma da cui l’ondata del ’68 veniva per forza di cose (essendo appunto una scuola privata) abbondantemente “filtrata” ed “attutita”. La mia coscienza “politica” tra virgolette è esplosa attraverso l’impatto violento con la facoltà di architettura di Milano, surriscaldata più che mai in quegli anni.
La prima sensazione è stata quella di smarrimento: le assemblee interminabili che, a primo acchitto, al mio occhio abbastanza inesperto apparivano “strane” in quanto mi sembravano abbastanza incomprensibili le posizioni particolari di gruppetti che polemizzavano a volte su brevi annotazioni circa le mozioni lette pubblicamente e addirittura dibattendo sulla portata politica e discriminante di una virgola che compariva ad un certo capoverso. Le sfumature che accendevano polemiche accanitissime e determinavano le scelte, le votazioni, l’identificazione con un gruppo, con un leader anziché un altro, allora mi sembravano qualcosa che solo una mente superiore riuscisse a cogliere nella loro autentica portata.
La stessa sensazione di smarrimento mi si ripresentava durante le lezioni che allora frequentavo del docente Campos Venuti, il quale, convinto dell’infallibilità di quello che amava definire il “metodo globale” continuava ad ogni lezione a riproporre agli studenti, anche matricole, un linguaggio infarcito di terminologie e di contenuti alquanto oscuri. Credo di avere avuto, qualche volta, la sensazione di avere per così dire un’intelligenza inferiore alla media.
L’anno dopo sono letteralmente fuggita, sublimando il mio palese disagio ad altri livelli. Mi sono infatti creata degli interessi, di tipo privato, abbastanza coinvolgenti, altrove e così per un paio d’anni in facoltà sono venuta il meno possibile.
In quegli anni ho scoperto i gruppi delle donne con cui ho cominciato a lavorare con gioia, scoprendo un mondo nuovo che era dentro di me, come se fossi riuscita con molta difficoltà e concentrazione a sfondare una porta aperta. Era una continua verifica, una continua conoscenza, un vero e proprio punto di partenza… non so come spiegarlo, forse con il termine “molta gioia”.
Ricostituita, sono tornata attivamente in facoltà.
Ora riuscivo a capire e vedere le cose senza paura o meglio senza crisi d’identità. Ma questo non mi aiutava lo stesso a sentirmi partecipe nel senso vero della parola.
Avevo fatto le mie scelte, frequentavo le riunioni politiche di un gruppo di cui mi ritenevo simpatizzante e le lezioni del C.D.A. (comitato-agitazione-docenti). Durante le assemblee seguivo ogni frase, bevevo ogni parola… ma non potevo fare a meno di notare che i lunghi, logorroici interventi che si susseguivano sotto i miei occhi venivano partoriti da maschi, soltanto da maschi: barbuti, sporchi, stracciati, rivoluzionari, simpatici, bravissimi MASCHI!
Avevo io e le altre compagne qualcosa da dire?
Era comunque tacito che fosse meglio, per ora, ascoltare il compagno con la linea giusta, imparare, imparare e capire bene,
Qualche volta sentivo di volere con tutta me stessa dire qualcosa, magari di breve, e così avrò detto qualcosa anch’io, ma improvvisamente la mia vocina tremolante, testimone di un cuore che batteva mille pulsazioni al minuto e soprattutto FEMMINILE come stonava in quel contesto rivoluzionario e maschio. Me ne accorgevo benissimo e se ne accorgevano tutti. Infatti nei brevi interventi femminili la assemblea si distraeva, vociava, si capiva insomma che quell’intervento non era fondamentale per l’andamento della discussione.
Potevo ritenermi emarginata, oppressa? Ragionandoci bene sì! Eppure la mia presenza veniva richiesta, sollecitata, così come quella delle altre compagne. La PRESENZA appunto! Così come l’assolvimento di alcune incombenze quali il fare collette, telefonate circolari, battere a macchina… la cosiddetta opera da “angelo del ciclostile”. Devo riconoscere di essermi sempre rifiutata di assolvere a queste incombenze seguendo quello che era allora il mio convincimento e cioè che quando sarei stata in grado di dare un contributo vero, valido politicamente, allora e solo allora mi sarei mostrata disponibile anche a spazzare l’aula in cui avvenivano le nostre riunioni. Nell’attesa di questo momento fatale come vivevo il mio rapporto con la facoltà? C’erano per me dei momenti di gratificazione?
Forse sì se per tali possiamo considerare certi sguardi ammirati durante lezioni e riunioni che a volte mi vedevo rivolgere da compagni studenti e docenti ma che finivano, ancora una volta, nel congelarmi nel ruolo femminile. In questo senso sentivo rompersi le barriere con l’istituzione, con la docenza, ma tutto veniva per lo più finalizzato ad un invito a cena. Ad un certo punto il mio lavoro politico “esterno” alla facoltà, quello con i gruppi delle donne, era diventato preponderante al punto da non poter più conciliarsi con il ruolo assolutamente passivo vissuto nelle battaglie politiche studentesche, che finalmente riconoscevo come in parte estranee ai miei veri problemi.
Capivo che le grosse difficoltà di integrazione che avevo vissuto fino ad allora erano dovute al fatto che nella linea politica dei gruppi della facoltà veniva coltivata giorno dopo giorno e germogliava tranquillamente una grossa lacuna: quella appunto della condizione femminile nel senso più lato e nel caso “specifico” del termine. I miei tentativi di manifestarmi coscientemente attraverso questa problematica, inizialmente e per un periodo di tempo abbastanza lungo, o che a me è sembrato tale perché non privo di grossi disagi, sono stati scartali a priori perché ritenuti DISGREGANTI e SOVRA-STRUTTURALI. A questo punto un’altra fuga “all’esterno”, giustificata anche dalla necessità STRUTTURALE di lavorare per mantenermi. Poi ancora un ritorno. Ora è tutto diverso: i vecchi leaders carismatici li ritrovo “liberati”, “disponibili”, “aperti”, mi dicono: “Cosa vuoi, troppa acqua è passata sotto i ponti!”. Lo so anch’io… le donne fuoriuscite da Manifesto, da Avanguardia Operaia, da Lotta Continua. Allora, finalmente, è arrivato il momento di proporre ed elaborare un’ottica nuova per affrontare tutti problemi: anche quello della casa, della città, del territorio, del rapporto tra pubblico e privato.
Ma dove sono le donne con cui lavorare?
Si organizzano riunioni, incontri, dovremmo trovarci in 15, 18 ma poi siamo sempre in 3 o 4. E le altre? Una ha il bambino con la febbre, l’altra il dentista, un’altra quel giorno proprio non può venire. La difficoltà di gestione del nostro spazio è più grossa del previsto, si scatenano ancora quei meccanismi di divisione che ci hanno condizionato da sempre.
Questo è il prodotto di nove anni di lavoro politico di quella che voleva essere la punta avanzata della sinistra rivoluzionaria italiana: la facoltà di architettura del politecnico di Milano.