l’isola di Felicitas

luglio 1980

Aveva sei anni quando sentì per la prima volta la voce. Si svegliò in» una tranquilla notte di maggio al suono di un richiamo lontano, eppure tanto vicino da poter essere percepito: “Felicitas… Felicitasi”. Scese dal suo lettino e cercò in tutte le stanze; ma i suoi
genitori dormivano russando, suo fratello maggiore ronfava come un gatto, abbracciato ad un rosso fucile di plastica, ed in casa non c’era nessun altro. Rimase ancora un po’ in ascolto, ma non si udì più nulla Felicitas si riaddormentò.
Poi di nuovo, qualche mese dopo, qualcuno cominciò a chiamarla; tuttavia, appena cercava di raggiungere la voce, questa taceva. Felicitas sapeva che era inutile chiedere agli altri se erano stati loro a gridare il suo nome: più di una volta l’aveva fatto, ed essi avevano finito per irritarsi, credendo che fosse un suo gioco. “Ma qualcuno mi chiama”, insisteva lei. E gli altri, seccati, le dicevano di smetterla di raccontare bugie. Per questo, per non essere creduta, Felicitas si ammalò di tristezza.
A tavola, durante il pranzo, il padre osservava preoccupato e spazientito: «Ma cos’ha questa bambina? E’ sempre distratta, non parla mai!”. A scuola, durante le lezioni, la maestra la scuoteva spesso: “Insomma! Stai attenta, almeno per cinque minuti!”. Felicitas ascoltava: non gli adulti, ma il silenzio in cui poteva, forse, risuonare la voce.
Sempre più di frequente, ora, si sentiva chiamata. E un giorno, non resistette più: decise di raggiungere la voce.
Era sulla spiaggia, in vacanza con i genitori, e costruiva un castello di sabbia. D’un tratto, in un soffio di vento, le arrivò un «Felicitas!… Felicitas!…» più perentorio e disperato del solito. Allora si alzò e si incamminò lentamente lungo il mare, perduta dietro quel richiamo. «Felicitas!…»; e nel tono, adesso, c’era anche una sfumatura di incredula gioia, quasi di incitamento.
La sabbia era umida e calda sotto i suoi piedi nudi, lambiti ogni tanto da un’onda spumosa. Felicitas affrettava il passo, ma non riusciva a vedere nessuno. Chi la chiamava era dunque invisibile? Era un suo sogno ad occhi aperti? Ma subito arrivava la voce, più forte e reale che mai, a darle coraggio e certezza.
Presto si accorse di non avere più punti di riferimento: da ogni lato le si aprivano diversi e sconosciuti orizzonti; la sua famiglia era sparita oltre uno di essi. Seppe all’improvviso di non poter più tornare indietro, e sentì per un attimo un bruciante gusto di lacrime nella gola, insieme ad una vaga paura. Ma la voce, dolcemente, la rassicurò: “Felicitas!”.
Perciò continuò a camminare, senza più timore. Scopriva a poco a poco un mondo nuovo, selvatico ed estraneo. Raccolse conchiglie abbandonate dal mare e le gettò per
gioco tra i cespugli <li gialle ginestre che contornavano la spiaggia; corse e fece capriole, poiché intorno non c’era nessuno a dirle di smettere. Vide galleggiare sull’acqua una rondine morta, nero pugno di piume arruffate; e le cantò un triste inno, come in un funerale vichingo.
Dopo molto tempo, mentre il sole già calava e si addensavano le prime ombre della sera, Felicitas giunse in un piccolo porto, cinto da lunghi muraglioni di scogli. Da qualche minuto non sentiva più la voce; perciò, indecisa, indugiò ad osservare le barche e le navi ormeggiate ai pontili di legno, come grossi animali in letargo. Passando davanti ad una di esse, udì la voce, sussurrante ed imperiosa: “Felicitasi…”. Sorridendo come nel ritrovare un amico, Felicitas varcò la passerella e si trovò a bordo della nave. L’imbarcazione sembrava deserta, ma la voce la guidava, piano. Scese qualche scaletta, aprì molte porte e infine si fermò a riposare, stanca, in una grande stiva piena di casse e di strani odori. Anche la voce si era fermata; ora canticchiava il suo nome, come in una ninna nanna. E Felicitas, distesa per terra su un mucchio di corde, senza neppure accorgersene si addormentò, cullata da questa insolita canzone.
Quando si svegliò, la nave si muoveva e vibrava tutta con un rumore di motori. Felicitas comprese che aveva lasciato il porto, e temette non per quello che sarebbe successe, poiché la voce si era fatta subito sentire per tranquillizzarla, ma per la possibilità che qualcuno potesse scoprire la sua presenza a bordo e riportarla a casa. Decise perciò di rimanere nascosta, almeno finché la nave non si fosse fermata.
Ora aveva fame, e cominciò a curiosare tra le casse per vedere se non vi fosse qualcosa da mangiare. Esitò a lungo prima di aprirne una, ma poi non resistette più. Ebbe un’idea: strappò il cartone con i denti a minuscoli pezzetti, per far credere all’opera di un topo. Questo la divertì, e si mise addirittura a quattro zampe, immedesimandosi nella parte. Con il fiato sospeso, scrutò nello scatolone: c’era qualcosa di commestibile? Sperava proprio di sì, dopo tutta la faticata che aveva fatto nelle vesti del topo. Per fortuna, all’interno c’erano decine di confezioni di biscotti al cioccolato. Le scartò con la solita tecnica, sgranocchiando con avidità il contenuto. I biscotti erano buoni, e Felicitas ne fece sparire parecchi con grande piacere. Alzando lo sguardo, notò che sopra una cassa posata accanto a lei era stampata l’immagine colorata di una bottiglia. Allora si accorse di avere sete e, dopo una rapida occhiata in giro, tagliò un angola della scatola, vi affondò alla cieca una mano dentro, e tirò fuori una bottiglia con una strana etichetta scritta in una lingua sconosciuta. Felicitas sapeva leggere a stento, quindi non riuscì a comprendere di cosa si trattasse. Il tappo si aprì girandolo con forza; Felicitas assaggiò cautamente il liquido, e tossì un poco. Era come un vino dolce, simile a quello che beveva suo padre e che lei aveva assaporato, ogni tanto, nel fondo del bicchiere; ma molto più forte. Felicitas sapeva di avere in mano qualcosa di permesso agli adulti e di proibito ai bambini; questo la eccitò tanto che, un sorso dopo l’altro, finì tutta la bottiglia. Si sentiva girare la testa, ed aveva una grande voglia di ridere. Ma poi cominciò a sbadigliare, colta da un sonno invincibile. Stordita, si sdraiò dietro un mucchio di casse, mentre il soffitto della stiva girava vorticosamente. Dopo qualche istante già dormiva, sotto l’effetto della prima sbornia della sua vita. Venne destata, forse, dal rollio della nave, che ora era ferma e silenziosa. Oppure, più probabilmente, dalla voce che sussurrava concitata: “Felicitas! Felicitasi… Felicitas!”.
Sbattendo le ciglia, spalancò gli occhi nella penombra. La voce sembrava volerla attirare fuori della stiva. Lentamente si alzò, con la testa un po’ pesante, trafitta da improvvisi dolori. Sentiva anche un leggerò senso di nausea, la bocca secca ed amarognola. Ma appena uscì sul ponte, nell’aria fresca e frizzante della notte, si sentì subito meglio. Respirando profondamente, si guardò intorno.
La luna splendeva piena sul mare liscio, ed immobile, inargentandolo. Davanti a lei, a poca distanza, c’era un’isola: poteva vederne la spiaggia, piatta e pulita; e, dietro, un groviglio di alberi-e cespugli. Felicitas rimase a guardarla, piena di una strana luce: l’isola irradiava tranquillità ed una calma, ipnotica bellezza. Ma, d’un tratto, dei rumori la fecero trasalire bruscamente. Qualcuno j parlava forte sopra il suo capo: dagli oblò illuminati della nave provenivano j suoni e risate. Impaurita, si rannicchiò contro il parapetto, cercando di farsi piccola piccola. La voce, dal mare, la chiamò piano: “Felicitas!”. Allora, impulsivamente scavalcò la ringhiera e si lasciò ; scivolare lungo la fiancata della nave.» acqua l’accolse in un abbraccio liquido, tiepida ed incoraggiante. Le parve che centinaia di mani la sostenessero, facendola galleggiare, sospingendola verso l’isola; e la voce gridava. “Felicitas… Felicitas…”: il tono in cui pronunciava il “suo nome le faceva capire che era contenta della sua iniziativa, che proprio verso l’isola doveva dirigersi. La luna le rischiarava, il cammino con il suo pallido fulgore; nuotava lentamente, senza fretta, con i capelli fluttuanti come sottili alghe scure.
Presto sentì sotto i piedi la sabbia della riva; allora si voltò verso la nave, e ne salutò con la mano il profilo già lontano. Poi avanzò nell’acqua bassa fino alla spiaggia.
Passò la notte a guardare le stelle vividissime e cangianti,’ finché l’alba non le sbiadì. Si era tolta i vestiti bagnati, ma non aveva freddo: sembrava che su quell’isola non ci fosse posto per sensazioni sgradevoli, tanto la temperatura era costante, regolata da un vento timido e caldo. Il cielo si tingeva ora di splendidi colori, annunciando il sorgere del sole, che le asciugò gli abiti e le avvolse la pelle in una bruciante carezza.
Nei giorni che seguirono, Felicitas si dedicò completamente all’esplorazione dell’isola. Non c’era nessuno, soltanto animali. Buffi conigli selvatici la gremivano letteralmente, insieme a branchi di gallinelle grigie curiosissime e quasi domestiche, le cui uova maculate e saporite Felicitas imparò ben presto ad apprezzare. L’isola era anche ricca di frutti, alcuni noti, altri sconosciuti. Felicitas li assaggiava con cautela, a piccoli morsi, e scopriva che erano deliziosamente dolci, oppure un po’ asprigni ma buoni.
Dormiva in una specie di stanza naturale, creata spontaneamente dai rami degli alberi fittamente intrecciati. Questa casa verde l’ aveva trovata per caso, non lontano dalla spiaggia, mentre vagabondava senza una meta precisa; a poca distanza, un piccolo ruscello sotterraneo affiorava formando una fontana di acqua purissima e fresca. Là Felicitas beveva e si lavava, appena alzata.
La sua vita sull’isola prese il ritmo del tempo. Ed il tempo era scandito dai suoi desideri, dalle sue esperienze, dalle sue scoperte. Dapprima la stupì il fatto di non sentire più la voce; poi si rese conto di non averne più bisogno.
I giorni trascorrevano lenti e pigri, ma non monotoni. Imparò a farsi un fuoco, per gettare mutevoli ombre rosse nel-I la notte scura. Conosceva tutti gli uccelli, il loro canto e le loro abitudini, i loro; nascondigli preferiti; del resto, cantava: anche lei, inventando motivi e parole, spesso soltanto suoni. E gli uccelli l’ascoltavano, interessati. Cominciò piccoli, utili lavori. Si intrecciò un cappello per ripararsi dal sole, usando arbusti flessibili; costruì una scaletta a pioli per salire sugli alberi e cogliere più facilmente la frutta. Non provò mai a fabbricare giocattoli, poiché non le servivano. Il suo grande gioco era l’isola, con i suoi percorsi imprevisti, il suo volto che cambiava sempre con le stagioni, i suoi segreti. Osservava gli animali ed imparava da loro molte cose: la sopravvivenza quotidiana, l’amore, anche un po’ di filosofia. Decise di compiere il viaggio più lungo: camminando per due giorni, arrivò alla sponda opposta dell’isola, e vide all’orizzonte un’altra terra. Rimase a scrutarla per molte ore, ma non c’erano tracce di abitazioni o di persone.
Una notte, sognò se stessa in mare I | aperto, trasportata da un grosso delfino azzurro. Questo sogno le diede il desiderio di conoscere il mare intorno all’isola; perciò, per molte settimane, lavorò alla costruzione di una zattera, scegliendo con cura i pezzi di legno adatti e sperimentando diversi sistemi per legarli tra loro. In seguito, però, trovò un tronco asciutto e leggerissimo, che galleggiava a meraviglia sull’acqua; e lo svuotò con una pietra affilata, pazientemente, sino a che non ne ricavò una canoa. Completò la sua imbarcazione, di cui era estremamente fiera, con un lungo remo appiattito; e, finalmente, fu padrona del mare.
Anche questo gioco era entusiasmante ed inesauribile. Tornava sull’isola con un bottino fragile e colorato: conchiglie, coralli, scaglie di madreperla, stelle marine, piccole spugne. Ne decorava la sua casa verde, che a poco a poco assunse l’aspetto fantastico di una grotta. Respirava all’unisono con l’isola, ne percepiva gli umori, le sfumature, i flussi e riflussi delle maree. I conigli si erano talmente abituati a lei che interrompevano le loro pazze corse fra i cespugli per venirle accanto e strofinare il naso vibratile contro le sue gambe; e gli uccelli le si posavano senza paura sulle spalle, pizzicandola piano con il becco. Il suo corpo abbronzato era divenuto levigato come un sasso, ed i suoi lunghi capelli avevano assunto la tinta del sole.
Molto più tardi, quando crebbe abbastanza da afferrare il ramo più basso di un mango, Felicitas scoprì di essere ventriloqua. Capì allora che la voce misteriosa mai raggiunta, e la cui ricerca l’aveva spinta a peregrinare fino alla sua isola felice, era la sua stessa voce, nata dal proprio inconsapevole, ancora segreto bisogno di libertà.
Lasciò l’isola tranquilla, per non tornarvi più; ed affrontò il mondo. Ma questa è un’altra storia…