madre è bello

marzo 1977

vi mando per EFFE questi disegni ma vorrei aggiungere due parole sul perché li ho fatti: lo sento necessario.
I perché sono difficili da raccontare e riportano al nodo della maternità come l’ho vissuta e al fatto che mi ci sono, sentita come Paolo a Damasco che cadde da cavallo a testa in giù e rimase folgorato da quello che in quel momento aveva improvvisamente capito. Così io, la donna emancipata, la diversa, la tigre, la politicizzata, quella accettata con paura dai maschi e separata dalle femmine, quel momento lo avevo voluto, per motivazioni che oscuramente mi avevano spinto a questo confronto dopo anni di rifiuto e di orrore per la maternità (avevo trent’anni), per una contraddittoria voglia di sperimentare una parte di me stessa che avevo ignorata che avevo tagliata, voglia di sentirmi crescere la pancia e di sentirmi riempire il seno, voglia di sentirmi fisicamente per quello che ero e che non avevo voluto fino ad allora riconoscere: mestruazioni, sangue, utero, dolore, odori, latte, fisicità, fisicità di donna. Sfida sotterranea a quella me stessa mascolina e vincente così come mi ero bellamente e gagliardamente conformata (violenza violenza violenza!) negli anni sessanta. E così volli fortissimamente questa prova; e lì la fierezza sorridente della mia pancia e del mio seno e il momento terribile del tirarlo fuori sto figlio, dell’allontanarlo, da me violentemente con l’ultimo sforzo dell’espulsione, quasi un orgasmo terribile e totale, una sensazione pazzesca di potenza e nello stesso tempo di violenza subita, per il dolore per le gomitate sulla pancia, per quella maledetta luce accecante negli occhi, per quelle presenze orrende ed estranee dell’ospedale.
Ed è da lì che è cambiato tutto e che improvvisamente ho cominciato a capire: quello che mi avevano tolto, quello che avevano trasformato in vergogna e violenza, come la potenza di generare di tirare fuori una cosa viva da dentro, enorme, grandissima, te la fanno pagare, te la trasformano in umiliazione, in trappola dentro cui resti chiusa, in isolamento dal mondo, in chiusura di coppia e dipendenza dall’altro (a cui sei costretta a chiedere tu che non avevi mai chiesto), in diminuzione dei rapporti e degli scambi. E ti senti spaventosamente sola, e ti accorgi che i cari compagni con i quali spartivi lavoro, politica e «cultura», ti accettavano solo quando eri un bravo maschietto a cavallo come loro, ma ora che sei caduta da cavallo lì a testa in giù con la tua fica ricucita e il tuo figlioletto tra le cosce, proseguono per conto loro e non ti ci vogliono più nel gioco. Allora ci rimani male e ti senti uno schifo, però poi cominci a capire che nel gioco con quelle regole lì non ci vuoi più rientrare, che vuoi essere te stessa con tutte le tue zinne, le tue pance e i tuoi uteri e le tue lacrime, quando ti vengono, e vuoi riinventarti un altro giuoco con le altre donne come te, un giuoco che sia tutto diverso, che abbia altre regole, in cui ti riconosci insieme alle altre, in cui non sei costretta a tagliarti niente, né a stravolgerti in ruoli che non sono i tuoi né a fare discorsi che non sono i tuoi, né a vivere una sessualità che non è la tua o un rituale di coppia che ti strozza una routine professionale che ti castra ogni creatività, dei rapporti umani competitivi, falsamente camerateschi, falsamente «fra compagni», un impegno politico ideologizzato, lontano dalla «tua» realtà, schizofrenico fatto di rituali stanchi e standardizzati. Tornando ai disegni io non so quanto di tutto questo sono riuscita a dire attraverso di loro. Certo mi sembra quasi che l’immagine senza un racconto, una storia fatta di parole non riesca più a «significare» tutto quello che dovrebbe; vorrei almeno che questa ricerca fatta con le figure fosse un pezzettino di un discorso più vasto sulla maternità e sui nodi che vi si intrecciano, discorso che fino ad ora abbiamo fatto poco, quasi che rimuovessimo questo pezzo di noi così grosso é così terribile così difficile a viversi, ricatto millenario sul nostro corpo, potenza trasformata in schiavitù.