maj zetterling: una tra le poche

«La paura, quando si fa un film, è tremenda, perché è come fare una battaglia ed essere al comando di un battaglione: noi donne non siamo abituate a fare cose del genere. Infatti, va contro tutto ciò che ci hanno insegnato di fare».

aprile 1977

Maj Zetterling è una delle poche registe riconosciute a livello internazionale. Nel 1963 è passata alla regia dopo aver lavorato diversi anni come attrice di successo sia in Svezia che all’estero. Ha realizzato dei cortometraggi per la televisione inglese: La vita dei Lapponi, Raggarre (sui giovani teppisti svedesi) e War Game che fu premiato al Festival di Venezia del 1964. Il suo primo lungometraggio fu Gli innamorati, seguito da Giochi di notte e Dottor Glass; questi ultimi affrontano la problematica della disperazione umana in una società in fase di decomposizione. In Giochi di notte le angosce di un essere sconvolto dal ricordo di sua madre hanno provocato varie reazioni; per alcuni, certe scene, fra le quali quella del parto in pubblico danno la nausea anche perché la regista è una donna. Purtroppo non avendo visto il film non possiamo accettare né rifiutare queste impressioni, d’altra parte utili per dare un’idea del tipo di polemiche suscitate da un film che affronta in qualche modo il problema della sessualità femminile. Flikoma (Le ragazze), un film del 1968 è stato proiettato al Filmstudio durante la rassegna sulla donna nel cinema Rinomata, tenutasi il novembre scorso. Il film mostra la vita di tre donne che mettono in scena «Lysistrata». Durante le prove e poi da dentro la rappresentazione, le attrici esaminano le loro vite e arrivano alla rabbia delle donne ateniesi, ma rimangono incapaci di sfuggire alla proprie esistenze ruolizzate e castranti. L’ultimo film della Zetterling, di cui è anche protagonista, Tant d’autres, racconta della disperazione abissale di una cinquantenne abbandonata dal marito che arriva quasi ad uccidersi prima di trovare il coraggio di affrontare la vita da sola. I suoi sogni rivelano l’immagine di una donna «nuova», liberata dalla dipendenza morbosa dal maschio.
Qual è in Svezia la situazione delle donne nel cinema?
Vorrei mettere in luce la quasi ‘totale mancanza di donne produttrici cinematografiche. La loro presenza è una condizione indispensabile per permettere alle donne di fare film, specialmente per quelle che stanno appena cominciando. Nel mio caso, in quanto già attrice di un certo successo, sono stata facilitata nel mio passaggio alla regia, ma molte donne sono nell’impossibilità di farlo. L’unica produttrice cinematografica in Svezia è molto giovane, ha
28 anni e trova molte difficoltà nel mettere insieme soldi ed altri aiuti finanziari. L’Istituto Cinematografico le pone dei limiti anche nella scelta degli argomenti su cui lavorare: documentari o film per bambini, insomma quelli ritenuti più adeguati agli interessi femminili e comunque di minore importanza. Non ha neanche una segretaria ed ha una lunga lista di progetti in attesa di essere vagliati. Le assegnazioni ai film ‘nell’Istituto sono fatte da commissioni composte di uomini e tutte de giurie di premi sono interamente maschili. Questo deve cambiare. Si sta progredendo, ma molto lentamente. Oltre me, in Svezia ci sono altre due registe donne; una è attrice ed ha appena cominciato con la regia, l’altra è scrittrice. In Norvegia ce n’è una ‘sola, a Copenhagen altre due. (…)
Conosci molte donne con progetti pronti ma che non possono girare perché non trovano i soldi? O pensi che ci siano altri motivi per cui le donne non fanno films in Svezia?
Non credo ci siano tante donne con progetti pronti.
Quella della regia è ancora una professione nuova per le donne, ed è difficile. Il concetto di potere, di dover essere la persona responsabile, che aggiusta, manovra e organizza tutto, non fa parte della nostra educazione, abbiamo paura della responsabilità…
Io non sono una persona molto sicura, e credo che la maggior parte della gente non lo sia. Ma quella fiducia in me stessa che ho, e che mi basta per fare un film, è dovuta alla forza creativa: è quella che ti guida, che ti spinge, che ti porta a rischiare anche quando tutto è contro di te.
Ogni volta che giro un film, anche ora che ne ho già fatti alcuni, penso di non potercela fare, ho delle paure folli, delle preoccupazioni tremende.
Il cinema è anche una professione «tecnica»; devi sapere molte cose, perché un film non è solo questione di idee o di soldi. Credo che si debba essere tecnicamente molto preparate per girare un film; una volta imparata la tecnica, si può dimenticare, ma prima si debbono conoscere a fondo le cose basilari, si deve sapere come funziona il laboratorio, come si fa il montaggio, quali sono le possibilità della cinepresa, altrimenti tutti cercheranno a dirti come devi fare. È difficile acquistare questa preparazione, ma è necessario, in modo che quando vuoi fare qualcosa, sai quali sono le possibilità reali e puoi insistere e pretendere.
Pensi che le donne debbano impegnarsi nella ricerca di un «nuovo linguaggio», un modo nuovo per usare il cinema, un modo specificamente femminile di esprimere le cose? O sei più interessata a comunicare nuovi contenuti?
Sia il contenuto che la forma sono importanti. Ho sempre creduto che noi dobbiamo trovare un nostro linguaggio, un linguaggio nuovo, «un linguaggio tutto per sé». Ma sono preoccupata perché è un tema che può essere facilmente portato agli estremi. Non mi fido dei gruppi di intellettuali che non fanno che parlare di «linguaggio». I pochi uomini e donne veramente grandi che ho conosciuto erano anche le persone più semplici, capaci di parlare di cose molto difficili e complicate in maniera semplice e umana. Trovo pericolose le riviste cinematografiche che intellettualizzano tanto, scritte per i pochissimi che intendono il loro linguaggio, Queste operazioni vanno bene fino ad un certo punto: sono solo un mezzo, non devono diventare un fine.
Alla rassegna Rinomata abbiamo visto il tuo film Flikorna (Ragazze). Una delle cose più interessanti del film è il modo in cui l’arte — la rappresentazione di dramma greco — viene legato ai problemi reali delle donne che lo recitano, tutte di estrazione borghese. Un film come questo comporta anche dei problemi in quanto poco accessibile alle cosiddette «masse»?
Uno dei problemi più grossi per chiunque faccia un lavoro creativo è come riuscire ad essere completamente onesti con se stessi e contemporaneamente riuscire a dare un messaggio recepibile da molta gente. Come dicevo prima, non credo nell’arte fatta per una élite.
C’è poi il problema dell’alienazione della donna, che è un problema terribilmente difficile da trattare in un’opera creativa.
Io non credo che bisogna essere aggressive in questa lotta, non credo nell’andare a combattere con accanimento, non credo in questo tipo di aggressività. Io ho un’aggressività interiore, che tento di seguire, che mi dà una «linea» dalla quale non mi sposto minimamente. All’inizio della mia carriera di regista, è stato molto difficile, mi rivolgevano persino parolacce, perché facevo quel mestiere. Io naturalmente ero sconvolta, non potevo sopportare quel trattamento, mi sembrava assurdo, perché io avevo del tutto chiaro quello che stavo facendo e quello che intendevo dire col mio lavoro, e mi arrabbiavo. Ma arrabbiandomi non cambiavo niente; l’incazzatura mi portava solo al litigio e alla confusione. Poi ho imparato a ricanalizzare quell’aggressività, che deriva sia da come ci trattano gli uomini che dal nostro fondamentale senso di inferiorità e dalla paura — credo che siano cose che proviamo tutte quante, no?
Attraverso l’ironia ho ricanalizzato quest’aggressività e ho cominciato a lottare in maniera diversa, per me funziona molto meglio. Ma la mia «personalità», i miei modi in generale non sono aggressivi.
Dai dibattiti di questi giorni a Roma, sembra che molte donne vorrebbero vedere film fatti soprattutto per le donne. Rimane aperto il discorso dello spettatore maschile. Si può forse legare quello che dici tu di una —chiamiamola così — «strategia» nei confronti della discriminazione sessuale, a questo fatto?
Se vogliamo raggiungere un equilibrio con gli uomini, dobbiamo comunicare anche a loro. Attualmente le cose vanno molto male, c’è molta aggressività, sia da parte degli uomini che da parte delle donne, sia gli uni che le altre hanno molta paura. Ma in questo momento la paura è più tra gli uomini. Non è un caso che in molti films di questo periodo i maschi o sono castrati o si castrano da soli. Altro che la donna e il complesso di Elettra! Penso che sia sintomatico dei tempi che viviamo che il complesso della castrazione sia molto forte per gli uomini. È molto difficile avere, un rapporto con un uomo adesso, perché noi siamo così forti e la paura della nostra forza è paralizzante. Ma chiaramente con gli uomini ci dobbiamo alleare se vogliamo qualsiasi tipo di rapporto con loro… Noi siamo state vulnerabili per tanto tempo, ora non abbiamo niente da perdere… Gli uomini invece tengono ancora ai vecchi privilegi. Non vi vogliono rinunciare perché ciò significherebbe perdere «il gioco» — per loro, tutti i rapporti si riducono a questo. Per raggiungere un equilibrio — e non pretendo di sapere in che cosa possa consistere — non possiamo rivolgerci a solo uno dei sessi nei nostri lavori creativi perché un cambiamento radicale deve avvenire sia  negli  uomini  che  nelle  donne..,
Uno dei problemi fondamentali discussi durante i dibattiti (della rassegna Ki-nomata) è quello del processo creativo: quale potrebbe essere il rapporto tra regista e troupe? Se posto nei termini più ampi del movimento femminista, si potrebbe vedere in questo il problema del potere in generale, e delle gerarchie nei rapporti umani. Pensi che il lavoro creativo sia, di natura, chiuso alla collettività? Cosa pensi sia dei lavori teorici che di quelli pratici che riguardano il problema del lavoro fatto in comune?
Credo che sia impossibile aprire il momento creativo. Ma non è inutile tentarci. Fasi diverse sono importanti ed inevitabili in ogni processo di sviluppo. E devo dire che l’idea è bellissima. Ma solo molto di rado si possono ottenere buoni risultati… Penso che il processo creativo sia profondamente personale in quanto manifestazione di un’esigenza egoista che deve essere trattata individualmente… Un film è un’opera d’arte non meno di tutte le altre forme d’arte. Se scrivo un libro, non posso lavorare con molte altre persone, devo farlo a modo mio, per poter porre le mie domande, i miei problemi personali… Un film avrà una sua unità se la persona che lo fa è forte. Nel cinema c’è molta gente che manca di forza, che è senza idee chiare, che ha bisogno di qualcuno che le dice cosa fare, per esempio, un operatore di macchina che dice, mettiamo la macchina là. Io so esattamente dove mettere la macchina; con la posizione della macchina dico qualcosa di ben preciso. Nessuno può vedere come vedo io. Se vuoi rappresentare dei contenuti con un’ottica profondamente personale, devi essere forte e devi fare tutto, sino al più minimo dettaglio, da te…
Se ho bisogno di una casa, di un bosco, “i un campo devo andare in giro a cercarli da me, ne vedo centinaia prima di scegliere. È come la pittura; tutto deve corrispondere. (…)
Ci puoi dire qualcosa del tuo passato?
Vengo da una famiglia proletaria. *io dovuto lasciare la scuola quando avevo 13 anni, perché avevamo bisogno di soldi e sono andata a lavorare in
fabbrica. Ho avuto una tale resistenza alla scuola che sono riusciti ad insegnarmi appena a leggere e scrivere, e basta. Sono completamente «autodidatta». Quando avevo 16 anni ho avuto un po’ di fortuna e ho trovato un lavoro come attrice; evidentemente avevo anche un po’ di talento, perché non avevo più di 17 anni quando mi hanno presa al Teatro Nazionale.
Stai preparando una versione filmica del «Secondo sesso» di Simone de Beauvoir. So che preferisci non discuterne ma solo una domanda, abbastanza generale. Pensi che si presenterà il problema di accessibilità per un pubblico di massa?
Sono molti i problemi che ci si presenteranno. Certo che io mi preoccupo di quell’aspetto del film, come di tutti gli altri. È un lavoro immenso, e mi spaventa, ma è anche la cosa più entusiasmante e più importante che io abbia mai tentato di fare. Ovviamente, sono quasi svenuta quando la de Beauvoir mi ha chiesto di farlo. Ci avevo pensato molti anni prima ma mi ero subito levato il pensiero dalla testa dicendomi è impossibile che io realizzi una cosa del genere, ed ora invece, eccomi qua, sempre più vicino… Stiamo viaggiando il mondo per girare 7 o 9 film per la TV; più tardi spero che di questi film si realizzerà un lungometraggio di 3 o 4 ore. È impossibile trovare i soldi da un’unica fonte, e nel caso ciò accadesse, significherebbe subire la responsabilità di un grosso produttore, probabilmente americano. L’unica condizione che mi permetterebbe di fare questo film è la libertà totale, anche di farne un macello, che ovviamente spero di non fare, ma non posso accettare di dover rispondere alle richieste di un grosso investitore. E allora per finanziare il progetto si spera di avere da ogni Paese in cui i film verranno girati dei soldi per il singolo film fatto lì. E poi ogni Paese potrà far vedere tutti gli altri film della serie. Ci metteremo 3 o 4 anni a girarli tutti, e pensiamo di lavorare in Giappone e in Cina, in Europa, nell’Africa, l’Islanda ed in Scandinavia… Da quando la de Beauvoir ha scritto il libro molte cose sono cambiate, sia nel mondo che nel pensiero dell’autrice, e il film tratterà anche di questi cambiamenti, cioè, della realtà attuale, dei modi di pensare delle donne e della confusione.

«Ho sempre creduto che noi dobbiamo trovare un nostro linguaggio, un linguaggio nuovo, un linguaggio tutto per sé».