maternità e terapia

la contraddizione di essere donna e terapeuta di fronte alle madri «generatrici di follia». La consapevolezza dei ruoli e dei modelli culturali deve dare una nuova dimensione alle terapie familiari.

gennaio 1977

mi occupo di terapia familiare e di coppia (pre selezionale) e considero questo mio lavoro uno dei più contraddittori, uno dei più laceranti che esistano per una donna, per una femminista soprattutto. Per me è terribilmente difficile rapportami in modo corretto soprattutto ai problemi della maternità, così come li trovo in terapia; così come mi è difficile chiarirmi le contraddizioni che personalmente ho in rapporto a questo problema. Non riesco e non devo prescindere dai miei problemi di figlia; così come non riesco e non posso prescindere dal mio problema di non-madre, per scelta, che puf non,essendo definitiva mi pesa ogni mese come se lo fosse. Mi ritrovo così ad avere tendenzialmente un atteggiamento critico nei confronti dei padri e delle figure paterne in generale, così come tendo ad appoggiare le madri, emblematiche figure di «generatrici di follia» così come vengono interpretate, spesso non consciamente da alcuni terapeuti, i quali partendo dalla constatazione della «patogenicità» (creatrice di malattia) di tantissimi modi di comportamento materni, ne deducono una «responsabilità» femminile e di conseguenza spesso un comportamento terapeutico pericoloso.
E’ vero che è la madre a creare spesso con i figli un legame esclusivo, ambivalente, paradossale, è vero che spesso accanto ad un figlio sintomatico, malato, «troviamo una madre sofferente e malata anch’essa». Sono classiche queste coppie, la madre avvinghiata psicologicamente a questo figlio strano, il figlio lacerato tra un desiderio di autonomia (spesso neanche espresso ed esprimibile) ed il legame assoluto ed inscindibile con la mamma. Spesso il terzo membro è un padre assente, svalutato, periferico. Ma, nell’analizzare questo tipo di esistenza affettiva, non si può prescindere (spesso si prescinde) dall’analisi del ruolo storico e culturale della donna. La madre è l’unica delegata alla costante vicinanza ai figli. Non si può prescindere dall’assenza materiale e spesso affettiva del padre («il papà non è mai in casa, lui lavora!»). Da qui discende la delega affettiva che la madre è costretta a fare ai figli, inibita in ogni istanza esterna essa è costretta ad assumere i figli come unici referenti, come unici «fornitori di identità».
La donna-madre viene educata in modo tale da non avere altra scelta che la maternità, ed in quel certo modo. E’ questo il concetto di norma sociale che le viene imposto; il ruolo al quale è destinata è rigido e rigidamente determinato e rappresenta per lei spesso l’unica identità possibile. Il concetto di se stessa come «anormale» moralmente e socialmente è spesso presente nelle madri disturbate o con figli disturbati. Nel dover essere femminile inoltre vengono proiettati spesso gli ideali di ruolo dei terapisti, la proiezione di un condizionamento culturale non criticato e non criticabile, perché troppo collegato alla «normalità» stessa dell’assetto della società.
Quale è la strada da percorrere? Penso che ancora molto si deve fare proprio a proposito della consapevolezza dei modelli culturali che tutti i terapeuti si portano dietro in terapia, come ad esempio i luoghi comuni sui ruoli maschile e femminile, i propri problemi irrisolti con le figure genitoriali… E’ necessaria innanzitutto la consapevolezza della «necessità» storica che ha portato a questa ruolizzazione all’interno della famiglia, così come la profonda dialetticità di questi ruoli con l’esterno, il fuori, tutti quei dati e quelle forze che storicamente ed economicamente determinano la funzione della famiglia ed all’interno di essa il ruolo della donna. Ho sentito alcuni colleghi dare giudizi sulle «mamme cattive» incoscienti e superficiali, e tanto più pericolosi in quanto espressi da persone che si arrogano e storicamente spesso hanno un potere «magico» sull’equilibrio delle persone. Questa contraddittoria maternità! Mi trovo a volte ad invidiare le figure di «madre felice», le più antiquate, sulle quali vado proiettando i miei fantasmi; a volte vivo invece in modo gratificante ed orgoglioso il mio impegno, il mio lavoro, le mie scelte, che nei fatti mi portano alla rinuncia della maternità per ora. Questa mia ambivalenza affettiva e culturale esiste, ed esiste anche in terapia, così come esistono le cose in cui credo e la volontà di non imporle, la volontà di non imporre mai i miei modelli ideologici insieme alla coscienza che essi passano lo stesso attraverso i canali della comunicazione e quindi la necessità urgente di chiarirli insieme, di esplicitarli anche, di riuscire a tirare fuori il perché di un momento di aggressività, di distrazione, di abbandono.
Non esiste ovviamente una strada sicura da percorrere, una scelta definitiva, ma credo che almeno in parte quello che vorrei ottenere è l’utilizzazione sì degli «strumenti tecnici» della psicoterapia, psicoanalitici, relazionali, transazionali ecc.) ma tenendo sempre conto non solo ovviamente dei movimenti transferenziali e controtrasferenziali e cioè del coinvolgimento del terapeuta col paziente ma anche della storia dei rapporti, delle strutture affettive che viviamo, dei cambiamenti culturali e materiali che avvengono. Così come della estrema transitorietà dei nostri ruoli e modelli di paziente e di terapeute, dei modelli delle famiglie, delle coppie, delle persone, delle relazioni. La capacità di mettersi in discussione sempre, insieme alle nostre idee, schemi, progetti. La possibilità e la volontà di cambiare. Le contraddizioni, la consapevolezza delle contraddizioni che soprattutto noi donne paghiamo, ma che ci permetteranno forse di costruire pagando molto ma non troppo, una società più giusta e vivibile meno oscura, meno creatrice di malattia.