maternità : io dico no

«in questa società, se ci si basa sulla logica, è folle fare figli. Ma sappiamo benissimo che la scelta di avere o meno figli non avviene in base a logica o all’interesse della specie umana in genere. Ci sono altre cose che fanno scattare il meccanismo della ” volontà di maternità “. Capire quali è il problema reale»

marzo 1977

questa testimonianza l’ho scritta e riscritta, mentalmente, decine di volte. In autobus, per strada, mentre lavoravo, a frammenti, a ritagli di pensieri. Con tali contraddizioni e resistenze che solo oggi — costretta a casa dall’influenza, sbrigate tutte le coserelle che sono riuscita a scovare per rinviare il fatidico impatto con la macchina da scrivere — mi decido a tradurre le mie ambivalenze in parole.
Comincio dalla parte più facile, quella ‘logica’: una serie di ragionamenti che mi sembrano ben congegnati e che, soprattutto, costituiscono una ‘ zona franca ‘ lontana dai conflitti emotivi che invece imperversano .nell’altra parte, quella dove la razionalità ha debole dominio.
In questa società, penso, i figli non si dovrebbero fare. Non esistono più motivazioni biologiche (la propagazione della specie) perché la specie è fin troppo propagata e il boom demografico ci avverte che essere prolifici non è più un merito sociale, ma semmai una minaccia sociale. Non esistono più motivazioni economiche (tranne nei Paesi sottosviluppati, dove la mortalità infantile è alta, per cui occorre una riserva di figli e dove i bambini contribuiscono al reddito domestico) perché se nella società patriarcale e contadina, tanti figli significava tante braccia per lavorare, mentre le spese per l’allevamento e l’educazione erano irrilevanti, oggi, nella società industriale e nelle famiglia mononucleare, la situazione è rovesciata. Il figlio, infatti, approda al lavoro dopo un’adolescenza prolungata, durante la quale è a carico dei genitori. Un figlio è un lusso: tanto è vero che l’aumento del benessere innesca la transizione demografica, cioè la diminuzione del tasso delle nascite.
C’è poi, come deterrente alla maternità, il peso di mettere al mondo dei bambini in una società come questa, che non tiene conto delle loro esigenze né delle esigenze umane in genere (basti vedere come è fatta la città, senza spazi, senza verde, etc).
In questa società, dunque, se ci si basa sulla logica, è folle fare figli. Ma sappiamo benissimo, che la scelta di avere o meno dei figli non avviene in base alla logica o all’interesse della specie umana in genere. Ci sono altre cose che fanno scattare il meccanismo della ‘ volontà di maternità ‘. Capire quali è il problema reale.
Esiste nella nostra società, nonostante l’indebolimento delle motivazioni biologiche ed economiche a riprodursi, una gratificazione sociale connessa alla maternità: essere madre è ancora, per la maggioranza delle donne, garanzia di consenso sociale, di accesso a un ruolo socialmente positivo, l’unico considerato valido per la donna. L’ultimo dei codici tribali da infrangere sembra dunque questo: l’imperativo maternità.
Scegliere di non fare figli è, socialmente, un atto ‘ sbagliato ‘, è la devianza che meno si perdona alla donna, anche negli ambienti progressisti, avanzati, radical-illuministi: c’è sempre un rimprovero, anche se non espresso apertamente, nei confronti della donna che ha detto ‘ no ‘ al suo ruolo di riproduttrice. E il timore di essere diverse, di essere bollate come deviatiti è vivo in tutte noi, per liberate che pensiamo di essere: è la paura dell’esilio, il rifiuto dell’emarginazione.
Tuttavia il consenso sociale da una parte, la paura dell’esilio dall’altra non sono motivi sufficienti a determinare la scelta della maternità. E qui si entra nel groviglio oscuro dei motivi profondi per cui continuiamo a far figli anche sapendo che il mondo è sovraffollato, che questa società è di merda e che, come donne, (e in quanto femministe, donne che cercano di rifiutare il ruolo femminile, di cui l’essere madri è parte essenziale) ci troveremo a vivere contraddizioni dolorose.
Una mia amica, che ha avuto una figlia tre mesi fa, mi ha dato una risposta depurata da qualunque alibi o ideologismo: «Un figlio lo fai perché ne hai voglia, perché l’idea ti fa tenerezza».
In questa frase un po’ schiva, detta con un mezzo sorriso, quasi a scusarsi di non trovare argomentazioni più sofisticate, la mia amica Paola ha toccato il nodo della questione. Quello del bisogno di un rapporto umano totale, di completo e assoluto abbandono, in cui ritrovare la freschezza, la sincerità, la tenerezza che raramente troviamo negli altri rapporti. Un rapporto che permetta di proporre la nostra tenerezza, la nostra freschezza, la nostra voglia di gioco e immediatezza in una società che ce le ricaccia in gola a ogni passo.
In nome di questo rapporto si sopporta tutto: i pannolini sporchi, il doppio lavoro in casa, il carosello di baby-sitter (per le privilegiate), la paternità ‘ assente ‘ del maschio anche più volenteroso e soprattutto la confisca della propria libertà.
Le compagne che hanno figli sanno senza dubbio molto meglio di me cosa significhi questo rapporto. Io posso solo intuirlo a volte desiderarlo, o meravigliarmi, guardando le madri e i figli nella loro interazione quotidiana, che da questa scelta razionalmente sbagliata; vengano fuori, tutto sommato, momenti belli, importanti. Ma mi meraviglio per poco: perché so che il filo della logica, nel complicato e oscuro intreccio dei rapporti umani, conta poco.
Il rapporto madre-figlio mi sembra di gran lunga il più complesso dei rapporti, anche perché è quello centrale alla nostra condizione di donne. Più di quello di coppia, dal quale si può sempre uscire e che è combattuto ad armi
più o meno pari fra adulti. Un figlio invece, una volta messo al mondo, c’è per la vita. Inoltre nei primi anni il potere (almeno decisionale, oggettivo) è da una parte sola e la responsabilità di come usare questo potere è a dir poco agghiacciante.
In questo rapporto mi sembra a volte di scoprire un che di vampiresco: dopo giornate logorate, stressate, si va a casa dal figlio come a una sorgente, a rintracciare quel che si è perduto, che la vita ha cancellato. Per questo, a volte, mi fa tristezza guardare i bambini: sono un rimprovero vivente, il ricordo di quel che eravamo e non siamo più, la testimonianza dello spreco delle nostre qualità migliori che lo scorrere degli anni ha amputato.
Nei bambini cerchiamo anche questo: l’innocenza perduta, la riprova che un essere umano può essere diverso, che sono gli ‘incidenti’ della vita a renderci squallidi e brutti.
Dall’altra parte il ‘vampiraggio’ viene riproposto dal bambino che ha, giustamente, delle esigenze e giustamente le getta addosso alla madre senza mediazioni, nella loro assolutezza: e le energie delle madri vengono convogliate senza tregua in questo fiume. Tutto: tempo libero, interessi, rapporti, viene risucchiato.
Qui immagino il coro delle compagne madri: «Non esageriamo» e, immediato, l’elenco dei possibili ‘ compromessi ‘ (baby-sitter, nonni, asili età).
D’accordo, ma sono soluzioni claudicanti, dettate da cause di forza maggiore, che non mi sembra vadano nella direzione di quella maternità alternativa che molte compagne rivendicano. Prendiamo la baby-sitter: è un aiuto parziale, non solleva la donna dal «pensiero» costante del figlio; significa delegare a un’altra donna le parti meno esaltanti della maternità; ripropone il marchio del privilegio, perché la babysitter non è che la ‘tata’ delle famiglie borghesi in panni moderni.
Inoltre mi sembra triste che ì primi rapporti che il bambino ha con un essere umano siano di tipo mercenario.
Il fatto che la baby-sitter sia sempre più una scelta obbligata non fa che convincermi che viviamo in una società sempre più nemica dei nostri figli, in cui non hanno la minima autonomia, dove non si possono muovere da soli, ma devono sempre aspettare il beneplacito degli adulti per giocare, andare al parco, alla piscina. Vedere una babysitter in azione e pensare che, visto che devono vivere in questo modo, i figli sarebbe meglio non farli, per me è tutt’uno.
Ma su questi problemi potrei passare sopra, come in fondo fanno le altre.
Quello che mi fa diffidare dalla maternità, è la perdita della libertà mentale che ad essa, quasi inevitabilmente, si accompagna. È il fatto di essere, fisicamente e psicologicamente più dipendente da questa società che ti domina molto di più dal momento in cui ci metti tuo figlio. Molte compagne-madri saranno pronte a giurare che non è vero, che sono riuscite ad essere madri senza pagare questo prezzo. Non lo discuto: ma le eccezioni confermano là regola. La regola, per la stragrande maggioranza delle madri, è che fare un figlio pone un limite pesante al proprio sviluppo, alla propria potenziale di crescita, alla propria ipotesi di sé come essere umano.
Qualcuno dirà che è un problema di egoismo; può darsi. Anche fare i figli, d’altronde, può essere un fatto di egoismo. Non è comunque su questo terreno — più egoista, più altruista — che va portata avanti l’analisi. Non è un problema di moralismo: si tratta tutto sommato, di un modo di vedere se stessi, la propria esistenza, la vita e la morte. Il rapporto con la maternità è il fulcro in cui si annodano tutti questi fili: è un rapporto così difficile da districarsi perché coinvolge l’intera nostra visione della vita e della morte e tocca la parte ‘ nuda ‘ di noi stesse con cui la comunicazione è quasi sempre interrotta, perché la barriera delle sovrastrutture ci impedisce di avere un contatto continuo e profondo con essa. Mentre frantumiamo la nostra vita in nevrotiche rincorse di cose che mai ci soddisfano, da questa parte sepolta ci giungono segnali intermittenti, fievoli luci, messaggi cifrati, in cui si ritrova di tutto, dalla memoria biologica alla nostalgia dell’assoluto. È una parte difficile da descrivere, perché è la zona di noi dove la parola non ha cittadinanza, dove possiamo finalmente riposarci dalla tirannia del pensiero e dare via libera a emozioni, impulsi, bisogni. L’etichetta di ‘ inconscio ‘ non mi sembra coprirne l’intera realtà ma non è comunque sui termini che voglio discutere. Mi sembra, questo è il punto, che questa parte continuamente repressa, si prenda, con il figlio, la sua rivincita. Proprio perché mi rendo conto delle implicazioni — molte delle quali inesplorate — che il fare figli comporta, sto perplessa sulla soglia della maternità, indecisa se metterci o meno il piede. Non voglio farne una questione di ideologia, né proporre il no alla maternità come forma di militanza per sganciarci dal millenario modello di madri.
Ma per me è già una tale fatica, un tale difficile compito ‘ svolgere me stessa ‘, vivermi in modo pieno e cosciente che respingo l’idea di dover bloccare questo processo in nome di un figlio. Mi sento più disponibile ad affrontare i problemi del non fare i figli (rimpianti, paura della solitudine, curiosità per una esperienza non provata), problemi che tra l’altro gestisco e pago solo io, che aggrovigliare il tutto coinvolgendo un altro essere umano, che pagherebbe anche il prezzo dei miei problemi irrisolti.