memoria da un carcere di Leningrado

luglio 1980

Premessa: 1 brani che seguono sono stralciati da una lunga memoria sull’esperienza che l’autrice, Julija Nikolaevna Voznesenskaja, ha vissuto prima nel carcere “Le croci” di Leningrado, sua città natale, e poi in un campo di lavoro per detenute. Delle cinquanta cartelle che compongono la memoria pubblichiamo qui alcune parti sulla vita nel carcere del Kgb “Le croci”. Notizie biografiche sulla Voznesenskaja, nata nel 1940 e nota nei circoli culturali e artistici di Leningrado, sono apparse sul n. 3-4 (marzo-aprile) di Effe p. 45.

Concludiamo la pubblicazione di testimonianze di donne sovietiche legate all’esperienza redazionale del samidzat «Donne e Russia» con questa memoria su un carcere femminile. Il tema non è nuovo per chi conosce le opere che, tra gli altri, Solgenitzin ha dedicato all’argomento; ma è nuovo che a scriverne sia una donna. Si apre così uno squarcio su una particolare condizione femminile, che si connota anche per il suo essere “comune”, espressione di non-assimilazione, di estraneità al sistema dominante più che di un “dissenso” intellettuale meno comune, più aristocratico. Si ha l’impressione che la testimonianza sia la punta di iceberg di una realtà assai più diffusa di quanto non appaia. — e molto appare — sulla presenza femminile nei gulag sovietici, sulla frequenza quasi rituale degli arresti, su una presunta «recidività» delle donne che affollano le carceri. Non è possibile sapere più di quanto queste donne stesse ci hanno fatto conoscere sulle loro quotidiane, materiali condizioni di vita nelle case, negli ospedali, nei gulag, anche se tanto potrebbe bastare a suscitare una discussione, sensibilizzare lettrici e lettori disattenti, esperti di politica. Non ci sorprende che l’agenzia di stampa sovietica Novosti, con sede a Roma, ci abbia mandato un fascicolo speciale sull’8 marzo in URSS nel quale si magnificano i progressi compiuti nell’organizzazione della vita delle donne sovietiche, che oltre ad avere scuole e ospedali funzionanti possono fregiarsi del titolo che «un uomo non può ottenere», quello di «madre eroina, l’ordine della gloria materna e la medaglia della maternità”. Non ci sorprende che alle drammatiche denunce delle donne dell’almanacco si risponda con i bollettini della propaganda ufficiale. Ci stupisce invece il silenzio con il quale è stata accolta — tranne rare eccezioni — la pubblicazione del samizdat “Donne e Russia” qui in Italia, un paese dove pure esiste il più forte e autonomo partito comunista dell’occidente europeo. Eccesso di cautela, opportunità politica? Ragioni probabili ma non sufficienti a spiegare tanto disinteresse. Scompaginato il movimento, le donne rimaste sole o a gruppi a riflettere e a studiare, le questioni di “donne” non fanno più notizia, tornano a essere inghiottite nel privato, faccende di poco conto. Ma anche le redattrici dell’almanacco tacciono in URSS né abbiamo loro notizie da qualche mese. Imprigionate e poi rimesse in libertà due di loro perché valesse di avvertimento (dopo aver subito il diniego di pubblicare anche il secondo numero dell’almanacco da parte delle autorità sovietiche), travolte un po’ tutte dai contraccolpi, arrivati anche in URSS, di una «querelle» editoriale incredibile tra la casa editrice gauchiste Thierce e le «Editions des femmés» in Francia, alcune di loro hanno dato vita a un comitato di donne per la pace in Afghanistan che ha avuto vita difficile. Questo che pubblichiamo è l’ultimo scritto da loro inviato in occidente. Precedenti testimonianze sono apparse nel numero 5-6 di Effe; mentre il testo del primo numero dell’almanacco è apparso sul numero 1-2 di questa rivista, speciale documenti, sempre dell’anno in corso.

m.dJ.

 

 

L’arresto

Mi hanno arrestato così. In una bellissima mattina il giudice istruttore della Pretura cittadina, B.P. Grigorovic, si è fermato davanti alla mia casa con una “Volga” nera.

—Julija Nikolaevna! Avrei bisogno che passi un attimo in Pretura.

Al suono del campanello mi ero alzata dal letto, ora gli stavo davanti, in vestaglia e a piedi nudi.

Non c’era bisogno di incomodarsi, avrebbe potuto mandarmi una citazione.

Ero di strada e ho fatto un salto da lei. Si vesta per favore.

Lei è molto gentile, ma io non ho ancora fatto colazione. Potrebbe aspettare che prendo una tazza di tè?

Ho bisogno di lei al massimo per un quarto d’ora. Farà colazione al suo ritorno.

Questo avveniva il 21 dicembre del 1976. Oggi, mentre sto scrivendo i miei appuntì disordinati su un quaderno, è il 25 maggio, ma io ancora non sono tornata a quella colazione che era stata rimandata…

Un avvocato che conoscevo, avendo saputo il nome del mio giudice istruttore ha detto:

—Che?! Bor’ka Grigorovic? Ma sì, è un famoso ubriacone!

Io gli ho spiegato che il KGB contando di mandarmi in occidente aveva alla meno peggio raffazzonato dal mio processo n. 62 per scritte murali la mia attuale causa n. 66. Nessuno di essi aveva considerato il fatto che io mi sarei rifiutata di partire. Ecco perché avevano affidato la mia causa a quel poveraccio. Ma il fatto che egli beva è un bene: forse in lui ci sono ancora barlumi di coscienza che egli affoga nella vodka.

 

Un “canile”: ma non per cani

Prima di occuparsi dei nuovi prigionieri (impronte digitali, fotografie, etc.) li tengono nel cosiddetto “canile”.

E’ una cella di 6-7 metri quadrati di superficie, con una stretta panca lungo tutta la parete. Le pareti sono spruzzate a calce e non ci si può appoggiare. Fa veramente un freddo da cani.

Mi hanno portato qui circa alla due del pomeriggio. Verso sera nella cella c’erano, sedute o in piedi, 16 donne. Quando le donne che erano in piedi erano stanche, quelle che erano sedute cedevano loro il posto. Si dividevano le loro disgrazie; le sigarette, istruivano le novizie.

Di sera annunciarono la cena e attraverso una feritoia ci passarono delle scodelle con della kasa (1). Un odore di avena bruciata si diffuse per la cella. Alcune mangiarono per scaldarsi, la maggior parte rifiutò.

Dopo una mezz’ora dalla feritoia apparve una faccia che annunciò:

(1) minestra densa di riso o di cereali (N.d.R.).

 

—Datemi le scodelle! C’è il tè!

Tutte si aspettavano che al posto delle scodelle sarebbero apparse delle brocche con il tè. Ma no, cominciarono a versare il tè direttamente nelle scodelle sporche. Non c’era dove lavarle, perché nella cella non c’erano lavandini. Tutte avevano sognato di scaldarsi con un tè bollente, ma solo due o tre decisero di berlo in quelle scodelle.

Se io non avessi già deciso prima di fare lo sciopero della fame, certo lo avrei iniziato da quella “cena”: in tutta la mia vita non ho mai visto nemmeno un cane che per bere non avesse bisogno di una scodella a parte.

 

Una storia feroce

Il 21 dicembre tutti i sorveglianti, senza eccezione erano ubriachi. Sbirciavano continuamente dalle feritoie, ci indirizzavano complimenti equivoci, sbraitavano l’uno contro l’altro nei corridoi. Siamo poi venute a sapere che quel giorno, o il giorno prima, non ricordo bene, a “Le Croci” era giornata di paga.

Una ragazza coraggiosa, avendo visto dalla feritoia il muso sorridente di un sorvegliante gli chiese:

Dammi da fumare!

Ah… e tu poi cosa mi darai in cambio? — rispose quello guardandola con uno sguardo di intesa.

Ma la ragazza cominciò a rispondergli per le rime, qualcosa del genere: “Se hai tanta furia puoi benissimo fare da solo, senza bisogno delle mie prestazioni”. Tutta la cella si mise a ridacchiare.

Il sorvegliante aprì la porta e le ordinò di uscire dalla cella.

Non andare! — le gridò una donna più anziana. — Se vogliono sbrogliarsela che chiamino il caporeparto. Glielo diremo noi che è stato lui il primo ad offendere.

Ma di che dovrei aver paura — sbuffò la ragazza e si avviò audacemente verso la porta.

La portarono via. Dopo qualche minuto udimmo le sue grida e le sue implorazioni. Gridava in un modo così terribile e così a lungo che tutte noi ci sentimmo inorridire: “Che cosa le staranno- facendo?”.

Dopo un’ora la spinsero dentro. Ella si rannicchiò in un angolo e rimase a lungo seduta con il viso coperto dalle mani, senza rispondere alle nostre domande. Tutte cercavano di consolarla come potevano. Infine la ragazza si tolse il fazzoletto dalla testa e noi ci accorgemmo che questi disgraziati le avevano rasato metà testa, lasciando i capelli solo al centro e ai lati in modo che uscissero da sotto il fazzoletto.

Bisogna dire che nelle prigioni femminili a volte rapano a zero, quando trovano i pidocchi (succede anche questo). Ma in primo luogo nessuno aveva ancora fatto un controllo per i pidocchi e poi anche se avessero trovato qualcosa su di lei- che senso- aveva raparle solo- metà testa?

—Non fa niente, fregatene — la con
solavano — Un ciuffo è rimasto e ai lati i capelli si vedono. E poi nel lager te li lasceranno crescere.

— Se fosse solo per questo! — esclamò la ragazza e continuò a piangere più forte di prima. Ella non raccontò più niente e noi non le facemmo più domande.

Perché non ho fatto niente in sua difesa quando ho udito le sue grida? In quel momento, e in verità in tutto quel giorno, io reagivo molto poco all’ambiente che mi circondava. L’ultima volta che mi ero incontrata con delle criminali era stato nella primavera del 1964, quando stavo a “Le Croci” per l’articolo 191, resistenza a pubblico ufficiale. Forse la naturale estraneità della persona per bene capitata per caso in mezzo a gente disonesta. Ero occupata dai miei problemi: chissà dove, ancora a caldo, avevo annunciato lo -sciopero della fame, era stato il mio primo slancio di protesta, e adesso bisognava prepararlo in tempo, contare le proprie forze, fissare il periodo. Dopo qualche giorno avevo già capito che le mie forze sarebbero durate a lungo, e che ero capitata in un ambiente molto migliore di quello in cui mi ero trovata immersa il 13 settembre 1976, dopo l’arresto a causa delle scritte murali.

Quella volta il riflesso di difendere il mio vicino, che mi aveva abbandonato raramente nella vita quotidiana, non aveva funzionato. Ancora oggi mi vergogno di questa storia, perché penso che avrei dovuto comportarmi in modo irreprensibile dal primo momento, dal primo passo in questo nuovo cerchio.

Ci sono state in seguito situazioni nelle quali mi sono comportata in modo non degno? Direi di no. Sebbene ci siano stati momenti di smarrimento interiore, ci siano stati degli errori, ma non di quelli di cui ci si debba vergognare. Alcuni episodi della vita di prigione li ho rivissuti continuamente nella memoria, cercando di capire il modo in cui avevo agito e il perché. (Queste ultime righe le sto scrivendo alla vigilia della udienza, dopo la quale probabilmente andrò ad accumulare molte altre esperienze).

 

Innovazioni a “Le Croci

Dal 1964 nel carcere “Le Croci” sono cambiate molte cose. Allora le donne erano tenute in un solo reparto insieme agli uomini e occupavano in tutto due piani di uno dei bracci della “Croce”. Le celle non erano grandi, solo per quattro persone. Adesso ci sono celle da 8, da 12, da 20 persone e anche di più. Si trovano in un nuovo reparto a quattro piani costruito da poco. Ma il posto ugualmente non basta per tutte. Ho visto delle celle in cui sotto ogni panca c’era una persona. Perfino all’ospedale a volte i malati giacciono sul pavimento.

Alle finestre sono apparse persiane di ferro. Nel 1964 dalla cella potevo ancora vedere il sole.

Ma ci sono state anche alcune innovazioni in “meglio”. Al posto dei buglioli di ferro negli angoli hanno messo dei gabinetti. Questo è molto comodo per i sorveglianti che così non devono portare fuori i prigionieri due volte al giorno, ma le celle piene zeppe sono mal aerate e l’aria è molto pesante. Hai continuamente la sensazione che non è il gabinetto che sta in un posto abitato, ma sei tu che abiti al gabinetto.

Al posto del solito spioncino rotondo ci sono 4elle finestrine li vetro che misurano circa 15 per 40 centimetri. Dalla parte esterna sono coperte da pannelli che possono restare sollevati. Adesso i sorveglianti possono guardare senza farsene accorgere i prigionieri dal corridoio.

Ancora una novità: un lavandino con rubinetto. Logicamente c’è solo acqua fredda. Nel ’64 i prigionieri nel “giorno del bagno” davano la biancheria alla lavanderia dove lavoravano le donne delle pulizie. Adesso tutto viene lavato direttamente nelle celle. Di tutte queste comodità usufruiscono quindi le donne delle pulizie e i sorveglianti. Dietro queste tende di camicie bagnate stese sulle brande si svolge quindi una vera “vita familiare”.

Prima non c’erano specchi, ma almeno le stoviglie venivano lavate in cucina e non nelle celle con acqua fredda e sapone.

Ancora un mutamento sostanziale in meglio: tutte le sorveglianti del reparto femminile sono donne. Prima erano su per giù metà e metà. I sorveglianti uomini verso le donne non si comportano male e inoltre i più crudeli non venivano mandati nei reparti femminili. Le sorveglianti anche allora erano terribili: quasi tutte vecchie, con un’esperienza di vita di prigione ancora dei tempi di Stalin. Adesso sono apparse molte sorveglianti giovani. Io non riesco a immaginare che tipo di vita può portare una giovane donna contemporanea a scegliere una professione così strana. Evidentemente alla base di questa scelta sta il solito problema dell’alloggio. Certo alcune vengono attratte dalla paga relativamente alta e dalle vacanze supplementari. Ma il tirocinio in questa professione non passa senza lasciare tracce. Tutte sono mostruosamente rozze, sia nel rivolgersi alle prigioniere sia all’esterno.

Nel carcere è apparso ancora un nuovo edificio: un piccolo cartonificio. Le carcerate che desiderano lavorare in questo guadagnano circa 30 copeche al giorno. Ma a lavorare ci vanno non solo per il denaro, ma soprattutto per avere degli scambi.

Mi ricordo che nel 1964 le donne abbastanza presto dopo la ratifica del verdetto venivano mandate nel lager. Adesso esse languiscono qui a volte per dei mesi, perché il numero dei prigionieri che vanno al lager, a differenza di quelli che restano nel carcere, è severamente limitato.

 

Chi processano

Una volta aprirono la porta della mia cella di isolamento e portarono dentro una ragazza di circa 16 anni, piena di lividi e di graffi. Si rannicchiò in un angolo e aveva l’aria di una bestiolina.

Io tacevo. Mi dispiaceva che era stata infranta la mia solitudine, mi ci ero abituata.

E come si chiama? — domandò la ragazzetto dopo un’ora.

Julija Nikolaevna. E lei?

Jul’ka. Che bellezza, vero?

Divertente.

Ella mi venne più vicino e mi guardò negli occhi.

—Julija Nikolaevna, lei non mi batterà molto forte? Non mi piace quando
ho il viso pieno di graffi.

Io sobbalzo sulla mia branda e lei si rifugia di scatto nell’angolo e sì copre la testa con ambedue le mani.

Ma che hai? Sei diventata pazza? — grido in un accesso di collera.

Sì — mi risponde lei innocentemente — dopo una meningite mi hanno tenuta due anni in un istituto per minorate.

In qualche modo cerco di calmare la povera minorata. Poi le domando:

Ma cosa ai fatto per farti mettere dentro?

Ho rubato un ombrello. Era così bello, rosso e a fiori.

E perché avevi bisogno di un ombrello non tuo?

Così. Era molto bello. Poi la mia vicina ha detto che ero una ladra. Io sono andata alla polizia e ho raccontato tutto.