mi consenta di dissentire

Una lettera della segretaria del CNDI ci offre lo spunto per approfondire il dibattito sul problema dell’adozione.

luglio 1979

cara Avvocatessa Remiddi, leggo il Suo articolo in Effe del mese di marzo e non posso fare a meno di dirle che, mentre ho sempre molto apprezzato la lucidità giuridica con cui Lei imposta le Sue battaglie per il femminismo, questa volta devo dissentire completamente da come Lei vede le cose.

Con la diffusione della contraccezione e la legge sull’aborto, sia pure applicata tra molte difficoltà, le madri non coniugate si sono ridotte grandemente (sto raccogliendo le statistiche) e la maggior parte di esse si tiene i figli, perché li vuole e li ama. Quelle che li abbandonano, o meglio non li riconoscono al momento della nascita, riconoscimento del tutto libero, per cui non arrivo a capire come Lei parli di “meccanismo orripilante”, sono purtroppo più che povere, ignoranti, vittime di una famiglia o di una società patriarcale, delle vere e proprie minorate psichiche, vittime di traumi subiti nella prima infanzia o in famiglie tarate o, più spesso, in istituti assistenziali, dove sono state ricoverate fin dalla più tenera età. Sono stata alla testa per 18 anni (dal 1944 al 1952) di un Istituto creato nel 1917 dal vecchio Consiglio Nazionale delle Donne Italiane, appunto per facilitare alle madri non coniugate di tenere il proprio figlio. Ma, malgrado avessimo un buon servizio sociale (due assistenti sociali diplomate) in alcuni casi era meglio non insistere per il riconoscimento della madre e cercare una famiglia che volesse adottare i bambini.

Dalle statistiche tenute allora con l’assistenza di medici abbiamo rilevato che il 45 per cento delle ricoverate (provenienti appunto dalle classi meno abbienti) presentava gravi carenze psichiche dovute alle condizioni in cui erano vissute nei primi anni di vita e alla carenza di affetto. In tutto sono stati dati in adozione (con la vecchia legge allora vigente) 183 bambini in 10 anni, perché prima i non-riconosciuti venivano mandati in Brefotrofio. Molte di quelle famiglie che hanno adottato quei bambini sono rimaste in contatto con me o con le assistenti sociali e abbiamo potuto constatare che i figli di ragazze con test mentali da vere deficienti sono cresciuti del tutto normali, alcuni perfino molto intelligenti.

Cosa dunque privilegiare: una madre indifferente al figlio e che non è in condizione di allevarlo, oppure un bambino che può domani essere qualcuno se cresciuto in una famiglia che sempre lo ama, talvolta anche troppo, avendo invano desiderato avere figli propri? Tenga anche presente che in moltissimi casi, particolarmente quando all’origine del rapporto con l’uomo c’è stato un inganno o una violenza, la madre ha un sentimento ambivalente verso il figlio, ossia di odio-amore istintivo, per cui si sente sollevata quando le si propone di darlo in adozione. Logicamente l’adozione dovrebbe essere trattata con estrema prudenza da assistenti sociali specializzate — cosa che purtroppo non sempre avviene anche perché la magistratura italiana solo recentemente ha scoperto il problema delle adozioni e finora lo ha trattato alla stregua di una questione patrimoniale. Il bambino era un «oggetto» che appartiene prima di tutto al padre e, se quello non c’è, alla madre. Si informi sull’applicazione del nuovo Codice della famiglia dal giudice tutelare la dott. Guida di Milano. E non parlo del fenomeno del commercio di bambini dati in adozione da parte di famiglie troppo numerose nell’ Irpinia e in altre regioni miserrime d’Italia. Personalmente lo condanno fino a un certo punto, perché sono ipocrisie d’una società che non è capace di dare un minimo di vita decente a tutti i suoi cittadini e poi si indigna e condanna un padre o una madre che prendono soldi per far star meglio gli altri figli, sicuri che il bambino sarà trattato benissimo. Vorrei anch’io che la Società italiana potesse sanare al più presto queste piaghe: ma so benissimo che ci vorrà molto tempo. E allora perché non rompere il circolo vizioso che condanna molti bambini ad essere come i loro genitori, creando un’adozione più umana e rispettosa degli interessi di tutti, madri e bambini? E creda a me, molte madri non sposate sono in fondo contente di essere sbarazzate di una responsabilità non desiderata e subita per paura o per ignoranza. Lei immagina un’umanità formata solo da individui coscienti e responsabili: ahimè, io che sono molto vecchia so che la natura umana ha delle tortuosità e delle ambiguità che si scoprono solo con l’esperienza. L’importante è che degli innocenti non paghino le colpe o i torti ricevuti dai loro genitori, E questa è la sola giustificazione dell’adozione. Domandi a Sua madre chi sono io: abbiamo per molto tempo lavorato insieme nel C.N.D.I. appunto per migliorare la condizione della donna in Italia. Non so più nulla di lei da parecchio tempo: me la saluti molto, Con molta amicizia.

Jolanda Torraca

 

Cara Signora Torraca, non ho bisogno di chiedere di Lei a mia madre (che La saluta molto); La ricordo personalmente da quando, appena adolescente, accompagnavo mamma alle riunioni sulla “condizione della donna”.

Sono spiacente se, forse per lo spazio limitato, non ho espresso con chiarezza la nostra impostazione sulla adozione; e poiché sono d’accordo in gran parte con quanto Lei scrive, credo sia opportuno tornare sull’argomento. La ringrazio di avermene dato l’occasione. La Sua preziosa esperienza si riferisce agli anni precedenti all’introduzione dell’adozione speciale avvenuta nel 1967 e gli argomenti che Lei adduce furono proprio quelli che determinarono la riforma: necessità di vuotare gli istituti di assistenza all’infanzia e dare una famiglia ai bambini abbandonati. Purtroppo questa riforma, come tante altre in Italia (per esempio il divorzio) èarrivata troppo tardi rispetto all’evoluzione sociale; infatti, se da uria parte le domande di adozione si sono accumulate senza esito, dall’altra i bambini da adottare sono divenuti sempre più rari per la contraccezione, l’aborto, il miglioramento delle condizioni economiche, giuridiche e sociali della donna. Ma tuttavia gli istituti continuano a essere pieni di minori che hanno bisogno di assistenza. E ciò perché gli adottanti richiedono generalmente bambini piccolissimi e negli istituti rimangono quelli più grandi (fra l’altro l’adozione speciale è consentita fino agli 8 anni), e perché possono essere adottati soltanto quei minori che sono privi di una apprezzabile assistenza da parte dei genitori o di altri parenti stretti. E quindi restano ricoverati tutti i bambini che hanno qualcuno che li ama e li segue periodicamente, anche se non ha la possibilità di prenderli con sé. Vediamo dunque che il limite della adozione speciale èproprio nella esclusività del rapporto fra adottanti e adottalo e nella sua alternatività con i vincoli familiari originari per cui non risolve tutti i casi, e sono i più numerosi, in cui un vero e proprio abbandono non esiste.

Ma anche quando viene applicata mi sembra gravissimo poi che l’“abbandono» sia considerato come dato giuridico irreversibile che segna la definitiva frattura con il nucleo di origine è il passaggio del bambino in una nuova famiglia. A parte tutti gli abusi che possono derivarne (quante volte sono stati dichiarati in stato di abbandono bambini che non lo erano affatto!), io ritengo Che le difficili condizioni di vita, i problemi socio-economico-familiari che impediscono di fornire al minore la necessaria assistenza dovrebbero essere invece considerati come situazioni di fatto su cui intervenire soprattutto in via preventiva e comunque successivamente per risolverle.

Il meccanismo di trasferire d’autorità il bambino presso una famiglia “pulita e rispettabile” togliendolo a una madre povera e ignorante obbedisce a una morale rigida e punitiva, oltre che classista, che non sempre corrisponde all’interesse del minore; e quanto alla libertà di scelta della derelitta che, magari dietro interessati consigli e pressioni, dichiari di voler abbandonare il figlio, esprimerei qualche riserva. Mi sembra quindi più che opportuno limitare l’adozione, questo strumento di Soluzione individuale di problemi sociali (che ancora una vòlta si basa sulla ruolizzazione della donna) ai rarissimi casi di effettivo totale e definitivo abbandono, di reale mancanza dei genitori; in tutti gli altri casi di carenze assistenziali anche gravi dovrebbero intervenire altri strumenti di tipo sociale. D’accordo sulla necessità di evitare lunghi ricoveri in istituto; d’accordo sulla opportunità di inserire i minori in famiglie che li accolgano; ma bisognerà considerare queste soluzioni come integrative e non sostitutive del patrimonio affettivo e relazionale del bambino. In alcune città italiane (principalmente Genova e Torino) sono stati compiuti positivi esperimenti di affidamento di minori e famiglie, senza il vincolo dell’adozione e senza troncare i rapporti precedenti; una soluzione che è certamente più aderente alle necessità soprattutto del bambino e che non turba con interventi autoritativi i legami familiari esistenti.

Laura Remiddi