occupazione a padova

questo articolo è stato inviato alla redazione alla fine di Febbraio e solo per un disguido postale non si è potuto pubblicare sul numero di Marzo.

aprile 1977

quando il giorno 16 febbraio si decise l’occupazione delle facoltà di Scienze Politiche e di Psicologia per lottare contro la riforma Malfatti, i Collettivi Femministi che già operavano all’interno di queste facoltà e di quella di Lettere, forti dell’esperienza di lotte del Movimento Femminista Padovano, erano già pronti ad assumere nell’occupazione un ruolo di protagonista e a conquistarsi uno spazio autonomo. Si sono collegati tra di loro, concordando una serie di interventi, e in una delle prime assemblee comuni delle due facoltà occupate hanno subito dato una prova di forza, prendendo il tavolo della presidenza e gestendo a lungo il dibattito. Il contenuto degli interventi si è basato su una analisi femminista dell’attacco che il capitale, nella sua attuale fase di ristrutturazione, sta conducendo, oltre che alla fabbrica storica, anche e soprattutto alla fabbrica sociale, cioè la famiglia e la casa, che è il primario luogo di lavoro della donna — lavoro domestico e di riproduzione complessiva della forza — lavoro, che non è pagato e come tale non viene riconosciuto. Nei confronti della riforma universitaria le studentesse hanno affermato; «La selezione che è uno dei cardini della riforma ministeriale, ha sempre operato in modo massiccio sulle donne. Selezione per noi significa essere giudicate agli esami in base al nostro aspetto fisico e al nostro adeguamento ai ruoli che la società ci impone; selezione per noi significa essere costrette a fare un triplo lavoro (lavoro domestico, lavoro extradomestico, studio), che ci impedisce la frequenza dell’Università e ci costringe all’isolamento, alla disinformazione e alla mancanza di spazio politico per organizzarci sulle nostre esigenze».
È rilevante che i collettivi universitari femministi hanno voluto gestire in modo nuovo l’occupazione, conquistando uno spazio politico autonomo all’interno dell’università per aprirlo a tutto il Movimento cittadino e per farlo diventare luogo di incontro e di dibattito politico con tutte le donne, in vista di una lotta contro lo sfruttamento e l’oppressione che accomunano tutte, qualunque sia la condizione lavorativa. La prima manifestazione di questa volontà è stata la festa data la sera del 18 febbraio nella facoltà di Psicologia occupata. Una festa: infatti ogni momento di lotta è per le donne anche momento di gioia, in cui esse recuperano pienamente la loro creatività. Erano stati invitati anche i maschi, perché, come ha detto una compagna, «imparassero a gioire insieme alle donne senza essere brutali e volgari». Ma essi hanno mostrato di non essere capaci di inserirsi in questa nuova dimensione e, anche se presenti, sono rimasti di fatto estranei.
La cogestione dell’occupazione da parte femminista è avvenuta non senza violente reazioni dei compagni, che ancora, dopo anni di lotta del movimento, hanno tentato di disconoscere le donne come soggetto politico: e questa è stata la dimostrazione che dovunque la donna si organizza in modo autonomo — nella casa, per la strada, sul luogo di lavoro, sul luogo di lotta — si trova a scontrarsi necessariamente, oltre che con lo Stato, con i maschi e deve così lottare sempre su due fronti. Infatti nelle assemblee i compagni hanno interrotto più volte gli interventi delle donne, tentando di sminuire il valore politico della loro azione e sono ricorsi alle vecchie accuse di «settarismo» e di «disgregazione della classe», ai commenti offensivi e addirittura alle intimidazioni. Da notare che alcuni di loro, mentre in colloqui personali con le compagne mostravano di essere disponibili all’autocritica, quando invece partecipavano all’assemblea, si reinvestivano del ruolo di «maschio» e solidarizzavano con gli altri.
In seguito alla situazione che così si era venuta a creare, i collettivi femministi universitari hanno indetto per il 21 febbraio un dibattito sul tema della violenza, a cui hanno invitato tutte le donne della città.
In questa occasione la violenza maschile è stata denunciata in tutte le sue forme, con numerose testimonianze di donne presenti. Ma soprattutto è stata denunciata, in relazione ai fatti avvenuti durante l’occupazione, la forma peggiore, che è quella politica, cioè il tentativo di annullare nella prassi la donna come soggetto politico di lotte autonome, ricacciandola nel ruolo passivo di oggetto o di strumento di lotte gestite da maschi. La stessa analisi politica su cui si erano fondati gli interventi dei compagni e che aveva ignorato la donna e la sua specifica condizione di sfruttamento era stata una forma di violenza. Durante il dibattito è emersa l’indicazione di forme concrete di organizzazione per rispondere e anche per prevenire ila sopraffazione maschile: per esempio, organizzare ronde notturne femministe, come è già stato fatto in altre città, per rompere il «coprifuoco» che di fatto è in atto per le donne.
Al momento in cui vengono scritte queste righe l’occupazione continua. Finora il movimento ha avanzato la proposta di continuare anche dopo l’occupazione la pratica dei seminari femministi autogestiti, facendo pagare alla istituzione i costi degli strumenti di studio, e di pretendere che nelle biblioteche universitarie vengano inseriti testi femministi: «La conquista del diritto allo studio per noi donne significa anche conquista del diritto ad uno studio che ci aiuti al recupero della nostra identità femminile e della nostra storia». Un’altra proposta è stata quella di creare un coordinamento permanente delle studentesse universitarie di tutte le facoltà, al quale partecipino anche studentesse medie e donne insegnanti.