violenza in famiglia

quando il potere obbliga al silenzio

Si è svolto a Siracusa il primo congresso di vittimologia negli stessi giorni l’istat ha resi noti i dati secondo cui in italia i casi di violenza sono scesi del 46%. è diminuita l’entità degli atti delittuosi o la fiducia nelle istituzioni?

gennaio 1982

Si è svolto a Siracusa, presso l’Istituto superiore internazionale di scienze criminali, un seminario di vittimologia. Il seminario, presieduto da Cherif Bassiouni e diretto da Emilio Viano, ha visto impegnati ottantatrè studiosi di tutto il mondo nel tentativo di mettere a fuoco non più e non solo la figura del criminale, bensì quella della vittima, delineandone, sotto il profilo psico-sociologico, gli atteggiamenti, i comportamenti, le reazioni. Il dibattito si è incentrato essenzialmente su tre temi: la violenza sui vecchi, la violenza sessuale, la violenza in famiglia.
Per quanto riguarda gli anziani, i dati assai scarsi ed il lavoro di ricerca ancora nella fase iniziale, non consentono un’analisi esauriente del problema.
Lungamente dibattuti, invece, i temi della violenza in famiglia e della violenza sessuale. Il dato comune è quello dell’omertà dietro cui si perpetuano atti di violenza impuniti e impunibili poiché coperti dal silenzio delle stesse vittime.
Il problema dei bambini che subiscono violenze all’interno del nucleo familiare, ad esempio, trova, da noi, il primo ostacolo in un retroterra culturale nel quale il sistema educativo si basa su un rapporto univoco di violenza e repressione e dove i termini famiglia-padre-autorità sono sinonimi. Il bambino picchiato è vittima, al tempo stesso, di un certo tipo di educazione e di un modello culturale di cui egli interiorizza, via via, tutta la violenza che rigetterà prima o poi, nelle forme più diverse. La violenza, nell’ambito familiare, viene quindi legittimata dall’autorità di chi la compie e in quanto tale subita, giustificata, nascosta. Con questi presupposti è, evidentemente, assai difficile stabilire quale sia il confine oltre il quale le percosse non sono più “atto pedagogico” ma sevizie gratuite e fini a se stesse. “All’uomo che picchia — afferma Luisella De Cataldo Neuburger, avvocato e psicologa, vicedirettrice del Centro di psicologia giuridica dell’università degli studi di Milano — rispondono violenze di altro tipo e così via. Tutti messaggi che i protagonisti si lanciano”. Questa analisi, pur corretta in linea teorica, non tiene forse però sufficientemente conto della prassi quotidiana nella quale certe violenze vengono consumate. “I messaggi” e “le vendette” da parte di una moglie o di un figlio, qualora ci siano, non sono che episodici tentativi che quasi mai colpiscono realmente il destinatario e difficilmente con la stessa brutalità. La mancata denuncia di queste violenze, dunque, non ha origine solo nella “concezione sacrale della famiglia che non può essere messa in discussione”, ma nel valore binomio appartenenza — priorità di cui moglie e figli sono gli involontari depositari.
La denuncia è percepita, allora, come il massimo atto di ribellione, la profanazione di un diritto, la sfida temeraria ad una potere legittimo, l’abbandono sfrontato di un privilegio: avere,un marito-padre-padrone. È con questa realtà che bisogna fare i conti, si cerca una risposta al perché “il 60% degli stupri non denunciati si verifica all’interno della famiglia”. Del resto la violenza sessuale e, tra tutte, quella che maggiormente esprime il rapporto di secolare sudditanza tra l’uomo e la donna, l’atto più significativo e bieco di un potere assoluto e malato. La vittima, sempre intimamente sola, è ancora più sola e disperata quando la violenza sessuale viene subita nell’ambito familiare, là dove sola non dovrebbe,, non potrebbe, non vorrebbe essere.
Negli U.S.A. una legge impone ai vicini di casa, pena una multa o la reclusione, di denunciare i casi di sevizie ai bambini, e, qualora la denuncia dovesse rivelarsi priva di fondamento, l’accusato non ha il diritto di querelare il denunciante.
Ma da noi le cose vanno assai diversamente e non solo perché non esistono norme tutelative similari, ma per il fatto che la stessa madre, pur superata ogni reticenza, ogni timore, ogni vergogna, si trova di fronte ad un muro di sguardi comprensivi e paterni, a fiumi di parole che tentano la riconciliazione invitando al perdono, ad una autorità sensibile, certo, tanto da non prendere troppo sul serio una piccola scaramuccia in famiglia.
Ma non basta. Bisogna considerare un altro dato. Quali sono le strutture pubbliche che lo Stato mette a disposizione per la tutela dell’infanzia? Un bimbo, pur sottratto al disamore della famiglia, a quali mani verrà affidato? Questo Stato, incapace di offrire i più essenziali servizi sociali (scuole, case, asili, ospedali) e fragile nel garantire un minimo livello di dignità umana attraverso una reale politica occupazionale, quali certezze offrirebbe in un caso tanto difficile e problematico? Allora meglio una famiglia violenta, meglio gli urli, le botte e tutto il resto, meglio, molto meglio che l’orfanotrofio. .
Così la violenza nella famiglia, come fuori, ed il silenzio che la copre, hanno certamente la propria origine in secolari motivi culturali, in codici etico-sociali che non si cancellano con un colpo di spugna, ma sono altresì il frutto di un potere politico inadeguato e inetto che genera il malcontento, l’insoddisfazione, la rabbia, la sfiducia e dunque genera violenza non offrendo, a chi questa violenza è costretto a subire, nessun tipo di alternativa realmente valida per uscire dal silenzio.