racconti inediti

quebec

gennaio 1982

Quando torna a casa, una casa piccola come un racconto e — come un racconto — solitaria, non può fare a meno di chiedersi perché non si sia in grado di costruire un racconto in una forma altrettanto quadrata. L’affascina il disegno armonioso nella sua robustezza. Con la valigia riprende possesso dei quattro muri, veramente quattro, regolari, a parte lo stanzino-armadio. Entro simile regolarità un animale soffrirebbe. A Quebec lei aveva notato che gli scoiattoli ignoravano il senso lineare della rete stradale. Era così, forse, che l’uomo si imponeva sul disordine della terra selvaggia, nella Nouvelle France in modo singolarissimo, per quella divisione in strisce perfette ognuna col fronte sul Saint Laurent, la via d’acqua. Ci vuol poco a trarre le somme, cioè escludere gli animali inutili, e i poeti. Ma dopo tutto non è stata proprio lei, a Quebec, ad abbandonare il pigmeo, lo gnomo, un fulvo musetto, nasino di gomma che nell’orientarsi sdegnava cartelli e simmetrie? Come vane quindi le lacrime durante il volo per Dorval e nel bus che la portava a Mirabel, lacrime di cui Popé non avrebbe colto il valore le avesse viste, se in primo luogo lei non aveva accettato il messaggio impetuoso degli occhi al momento della partenza e in secondo luogo era venuta via con un scatto, senza volgersi indietro. Un addio brusco non lo si cancella più. E nel riprendere possesso della stanza quadrata è addirittura più vano illudersi di assicurare a Pope entro una forma, ovviamente non quadrata, la stabilità della parola scritta.
Quale sollievo recherebbe al dolore di lui questa stabilità, ammesso che di stabilità si tratti? L’esperienza le insegna che nessun racconto riesce a serrare per intero un personaggio, tanto meno un organismo vivo. Lei sa di essere stata in altri racconti, specialmente in uno. Ma non la contengono, non l’hanno contenuta mai tutta. Un nome — spesso Annamaria, ma anche Silvana, anche Rossa, perfino Andrea, Brentano, Furio, Sombre, è stata ragazza, è stata ragazzo, donna, vecchio, che cosa valeva e vale dato che non c’era e non c’è racconto a fermarla e continuano lingue di fuoco a uscire per ogni dove.

Si sente prigioniera del pressoché illimitato grembo della creazione come se tra le pagine con cui è già emersa e il creare non esistesse una sostanziale frattura ma lei e il grembo fossero un magma pigro, letargico, forse paziente, in lento moto formativo, con un dondolare di ragioni realissime e reali e batticuore smorzato. È nel processo, è il processo stesso. E questo significa essere personaggio mentre rimane pur sempre autore, poiché lei personaggio e lei autore vedono nella nascita un quasi disperante distacco, la precisa e ghiaccia identità di ognuna al di qua e al di là del diaframma.
Così, da una parte tendere al distacco, ma quello totale, nei secoli, senza più ritorni e rimpianti e sbavature e imperfezioni; dall’altra il posporlo per un terrore del definitivo. Intanto, però, già la prima volta con Popé lei era cosciente che insieme sarebbero entrati in un racconto, e che quel primo giorno segnava la soglia, come dire l’iniziazione a un impegno del quale Popé, anima mia, era assolutamente ignaro, accontentandosi — come si accontentava — di incrociare lo sguardo e il destino. Una minuzia dell’universo qual era lui di più non esigeva. Ma i battenti s’erano spalancati, a dispetto delle geometrie di quartieri residenziali avviando a merende sull’erba, alla conquista del sole, del vento, alla scoperta del Park Holland e del Bois de Coulonge.

Lì nel Bois non era stato più problema di vita e parola scritta. Le lingue di fuoco ormai inseguivano Pope, e Popé un buffo volpino a livello dell’erba, si lasciava acchiappare per poi svincolarsi di nuovo in evoluzioni della più grande sfrenatezza. Se il moto del grembo creativo poteva chiamarsi letargico, egli, dopo l’abbagliamento di una libertà, ad esso imprimeva un ritmo folle, gioioso, sempre restando all’oscuro della portata del proprio cominciare ad esistere in quanto personaggio. Finché una sera entrambi si erano dovuti tirare indietro, coscienti o no, perché, toccati i loro limiti, stavano alla soglia di un altro racconto in cui non avevano il diritto di entrare.

De Gaspé, Mémoires, l’episodio della spaniel di Montgomery. Sul generale irlandese che schieratosi con i ribelli americani aveva perso la vita durante l’assalto a Quebec i giudizi contrastavano, ma non si poteva disconoscerne le virtù militari: come sottolineava uno strano misterioso membro della sventurata spedizione di Burgoyne, lo stesso Carleton aveva reso omaggio alla salma.

Nessuna ufficialità in de Gaspé. Les anciens canadiens e i Mémoìres offrivano un ghirigoro famigliare, di carattere intimo, intorno a fatti pubblici e privati verificatisi nell’arco di oltre cent’anni. Una tale fonte di notizie e notiziole ci voleva per capire meglio le premesse della civiltà in mezzo alla quale si trovava: solo la turbavano il corso svagato, l’annullamento di metodi ossature coerenze esterne, tutto ai fini di una distillazione d’antiche rose. Con lo snidare ricordi e subito smarrirli per una nuova traccia, con l’inserire un anello nel centro esatto di uno molto più piccolo, con l’andirivieni in una materia quasi perversamente fluida senza il minimo tentativo di solidificarne un minimo punto, de Gaspé le sfuggiva dalle dita.
a il cane aveva riempito cinquantadue righe filate, e non una interruzione. Alla distanza di circa un secolo dall’assedio c’era ancora da smaltire qualche risentimento. Il suddito di Sua Maestà Britannica Philippe Aubert de Gaspé era un francocanadese della più bell’acqua, arroccato nei titoli nobiliari, profonde le radici, umore locale-provinciale. Al nonno Philippe-Ignace Aubert de Gaspé, capitano di fanteria e cavaliere dell’ordine di Saint-Louis, gli inglesi, 1759, avevano distrutto la magnifica dimora a Saint-Jean-Port-Joli (uno fra i numerosi nomi ammalianti della geografia coloniale); di lui i lettori dei Mémoires apprendevano lo stato di servizio, trascritto per loro edificazione dagli Archivi della Marina, Francia: forte dopo forte, uomo d’arme, da Michilimakinac alla Belle Rivière (altro nome ammaliante), all’Acadia e, sotto Montcalm al portage di Carillon (forse il più ammaliante dei nomi ammalianti). Contro selvaggi e inglesi e truppe coloniali. Ma dopo la Conquista gli avversari erano le tredici colonie, e qui le cose si complicavano nell’anima franco-canadese, perché il vecchio risentimento doveva per così dire scindersi, biforcarsi: la porzione d’esso che concerneva l’impero britannico bisognava soffocarla (il dramma interiore sarebbe scoppiato con le vittorie napoleoniche) mentre poteva avere libero sfogo quella nei confronti dei ribelli, i quali però godevano dell’appoggio francese. Antiche lealtà e lealtà recenti, residui e nuove micce: il groviglio era ancora individuabile nei Mémoires.

Lo zio dell’ottuagenario memorialista, Charles de Lanaudière, quando aveva salvato il cane militava come aiutante di campo del generale Carleton, che aveva sepolto Montgomery con tutti gli onori. A guardare bene, l’episodio si presentava un po’ ambiguo. Non che si discostasse dalle solite testimonianze della fedeltà canina, ma vi aveva un ruolo l’ultimo amico rimasto — per l’appunto — fedele a Montgomery. Si era accucciato sulla tomba, grattando la terra ed emettendo guaiti se qualcuno si avvicinava. Qui, per chi narrava, le cose si complicavano ulteriormente. La retorica ottocentesca faceva capolino, ma nascendo da una congiunzione davvero repulsiva di sarcasmo e pietà. Montgomery non era rimpianto da nessuno: non dagli inglesi, che egli aveva tradito; non dai canadesi, a cui aveva distrutto le case nel 1759 mentre serviva sotto Wolfe; forse gli stessi amici lo avevano dimenticato. Restava il cane, un superbo esemplare della razza degli spaniels. Con i guaiti chiedeva ai passanti di scavare con lui per riportare alla luce, vivo, il padrone? E supplicava proprio coloro che glielo avevano ucciso? Charles de Lanaudière, informato dopo tre giorni, si precipitava sul posto ma oltre una settimana doveva trascorrere prima che a forza di carezze e cure l’animale si decidesse a seguirlo. Sarebbe diventato il beniamino della famiglia, concludeva de Gaspé, e gli sarebbe stato dato il nome di Montgomery. Dal groviglio dei sentimenti franco-canadesi saltava fuori il particolare ironico o rabbioso che l’amico più fedele di Montgomery si era legato ai nemici; il fatto del nome costituiva la freccia finale.
Oppure no? La malizia (o ferocia) non era nel memorialista ma nelle circostanze? Egli attraversava il giardino dei morti sfiorando ora una lapide ora un cespuglio o una croce; sulle pagine si stendeva velatura da tramonto; lei ricordava con quanta dolcezza un canadese contemporaneo aveva citato il libro di Giobbe: Je Mourrai dans mon nid, / J’aurai des jours nombreux cornine le sable. / Mes racines s’ètendent vers les eaux, / La rosee passe la nuit dans mon feuillage.
Québec dalle e verdi come l’oliva ancora sul ramo. Quebec e di suoi cannoni. Intorno alle bocche di fuoco nel Bois de Coulonge o dentro infiniti cerchi d’aria per gli avvallamenti dei campi di battaglia o in alto lungo gli spalti vagabondava l’ignaro Pope: mentre il problema di lei autore-personaggio era il racconto e sempre il racconto, la grande misteriosa bocca di fuoco addormentata che doveva pur svegliare girandole della morte e della gloria.
Sì, perché consegnandosi a una pagina si sceglie il congedo dalla propria esperienza. Ogni racconto è testamento allegrissimo e spietatissimo. Ogni parola narrante è colpo di sciabola inferto al sangue delle arterie. E in questi rapporti fra vita e scrittura come si fa quando il personaggio di un autore incontra il personaggio di un altro autore. Quando un testamento minaccia lo spazio di un altro testamento. Ci si blocca alle soglie dell’episodio già creato, teniamo a distanza lo spaniel
Montgomery, unica scappatoia la pedante citazione. Tutte cose da discutere con Yvon — se al sole nella veranda non avesse mantenuto l’immobilità degli indiani.

Ma c’era una volta un cavallo bianco. Se ne erano occupati storici etnografi esploratori. Non veniva quindi invaso alcun dominio d’artista, a meno di non considerare artisti i voyageurs dell’Ovest che con nostalgia, stregati, avevano passato i fatti di mano in mano, di generazione in generazione, a partire dal Settecento, ossia da una guerra feroce tra assiniboines e sioux nel Manitoba. Yvon non avrebbe ascoltato. Una sera era emerso dal buio del marciapiede. Un’altra sera l’aveva avvertito alle spalle; il tempo di scattare: un vuoto. Di lui, se s’incontravano fuori, appena l’occhiata supremamente obliqua. Era nell’interno della cucina davanti a tazze e bicchieri che ingenuo liberava qualcosa di sé. O del fratello Jacques campione di hockey su ghiaccio, a quindici anni con i Maroons di Lachine, della Lega Metropolitana di hockey Junior A; via via fino all’equipe Les Canadiens di Montreal e alla coppa Stanley. Rimbalzavano nomi quasi da un altro sistema planetario ma il possibile-impossibile racconto di lei li scartava o spontaneamente dileguavano secondo aghi magnetici a lei ignoti. La cometa Bèliveau aveva sostato, incerta. Così la rondella, i pattini, gli appunti di Yvon, il suo libro su Jacques, niente comunque che tendesse a rimanere tranne l’ansia per le facce dei giocatori, tutte fisiche, quando invece dalla scrittura si lasciava catturare il cavallo bianco, anche se nei remoti anni nessun guerriero né sioux né assini-boine era riuscito a raggiungerlo perché alla maniera di una cometa appariva e dispariva. In una striscia di terra — sempre la stessa — chiamata poi Prairie-du- Cheval-Blanc. Da Hot de bois a Hot de bois. Fra biancospini e albatrelle e nespoli selvatici. La criniera spuma. Le raggianti disperate corse. Portandosi dentro senza pace l’anima senza pace della ragazza assiniboine che in piena fuga era stata trafitta da frecce sioux e disarcionata. Gli uccelli volavano bassi. Gli uccelli sentivano la pioggia. Si accumulavano nuvole dal Manitoba al Labrador, dal cielo di agosto al cielo di settembre. I tuoi capelli, aveva detto, il colore.
Erano le ultime passeggiate con Popé. Andavano entrambi vagamente alla deriva. Il cavallo bianco stimolava il dispregio per la segnaletica, o i sensi vietati magari addirittura non esistevano. D’altronde il vecchio dei Mémoires, a parte che il suo vagabondo rimembrare si confaceva alla canizie, indicava questo vagabondaggio quale ricetta letteraria, proprio come uno scoiattolo impaziente della regolarità piccolo e raggrinzito sulla pagina, né più piccoli di così potevano essere gli scoiattoli canadesi, usciti all’aperto (asseriva Mark) per rifornirsi di cibo prima dell’ibernazione e ipso facto inauguranti l’autunno quando non si vedeva ancora una foglia rossa. Tanto valeva procedere subito agli acquisti: il minuscolo capolavoro che è un canotto in miniatura, poi nella baracca del giovane Alain Prèvost al Coin du Trèsor presso Ste-Anne due wazos, oiseaux, grigioneri del grigio-nero della steatite. Ma i capelli (il colore). Rilievo cieco di chi si ferma all’elusivo soggetto portante senza neppure alla lontana intuire l’ermafroditismo che permette di creare personaggi femminili e personaggi maschili: cioè l’identità artistica con i suoi gameti di sessi opposti. Anzi, una talmente complessa identità da inglobare la natura animale, la vegetale, tutta l’altra inorganica, insomma l’intera catena dell’essere. Nel frattempo era ormai ovvio il salto qualitativo da Park Holland agli alberi, ai prati del Bois lungo Chemin St-Louis con l’arcano stordimento d’acque tra cimitero e cimitero — il St-Patrice vicino a quello del Mont Hermon, e i campi di battaglia.

Sui campi di battaglia, dinanzi a un solitario cannone, l’avidità con cui Popé divorava l’esotico mélange ensoleillé ove entravano ananasso papaia arachidi uvetta banana cocco e sale marino riempiva uno dei momenti privilegiati che non si sarebbero perduti, mentre il nome di almeno un ingrediente evocava e convocava altri nomi, corolla terminologica fra le più prestigiose nel Nuovo Alberti. Raisin de mer, le uova di conchiglie, chiocciole, nicchi; raisin de seiche; cuscute o barbe-de-moine parassita del cedrangolo e del trifoglio; airelle, donde il robbo di mortella; camarine; raisin de chèvre o rauno; la morelle noire o uva di lupo; parisette, l’herbe à Paris, uva di volpe; raisin d’ours; infine, sì (come non arrivarci se c’era di mezzo uno scrittore ?) le grandi raisin, carta velina per stupende edizioni dei classici, raffinatezza insieme con sogno nevrotico. Ecco allora il vero enorme salto qualitativo perché una manciata di frutta offerta a Pope nella distesa erbosa riconduceva al grembo della creazione, al senso angosciante di un racconto che forse per non nascere, dunque non distinguere usbergo e pelle, non recidere autore da personaggio, ermafroditismo da scelta, avrebbe rifiutato qualsivoglia struttura, quadrata o no, regolare o libera, facendo morire Pope, lasciandolo morire, seppellendo con lui i cannoni, e con i cannoni Quebec.