scacco alla regina?

Stiamo vivendo il più grosso rivoluzionamento culturale e sociale che si è prodotto nella storia: il rivoluzionamento delle identità sessuali. Sul maschile e il femminile un’analisi di Laura Grasso, pubblicata per l’8 marzo dal «Quotidiano dei lavoratori», che viene qui riproposta, su richiesta della autrice, per aprire una discussione tra le donne.

aprile 1981

Uno dei nodi più grossi che ci troviamo ad affrontare come donne, oggi, è quello, io credo, di una ridefinizione teorica di due concetti base che sono stati il punto di partenza da sempre di qualunque analisi avente per oggetto la condizione della donna: il maschile e il femminile.
Si tratta infatti, di un campo di indagine non solo ampissimo ma anche estremamente complesso e contraddittorio, con tali e tante sfaccettature al suo interino da rendere quantomeno problematico un discorso sufficientemenite chiaro a proposito. E non potrebbe essere diversamente dal momento che stiamo vivendo quello che è il più grosso rivoluzionamento culturale e sociale mai prodottosi nella storia in termini così estesi e profondi: il rivoluzionamento delle identità sessuali, di quei processi psicologici e sociali attraverso i quali ogni individuo, di entrambi i sessi si è/era finora riconosciuto in quanto appartenente, appunto, ad un sesso specifico.
Appartenenza che, al di là dell’evidenza fisica e biologica e delle relative caratteristiche anche psicologiche ad esse connesse, non è più oggi così sicura come lo era in passato, almeno per la maggior parte di donne e uomini; le minoranze infatti sono sempre esistite ma non hanno mai avuto voce sufficiente per poter incidere nel profondo del corpo sociale, come invece è avvenuto e sta avvenendo in questi ultimi anni.
Posto allora che all’interno di ogni individuo esistono elementi comuni anche all’altro sesso — in ogni donna c’è una parte maschile come in ogni uomo c’è una parte femminile — tì problema è quello di definire «politicamente» questi elementi. Di capire cioè quanto il maschile e il femminile presenti nei due sessi siano un prodotto culturale, e quindi segnato da quei rapporti’ di potere che hanno fatto del maschile il sesso dominante e del femminile il sesso subordinato, e quanto invece non siano espressioni di una modificazione del maschile e del femminile, di una trasformazione quindi delle identità sessuali da identità cultaralmente e storicamente date a identità di tipo «nuovo».
E’ l’analisi del vecchio e del nuovo, quindi, presente in ognuna/o di noi il punto centrale da cui muoversi per una critica politica delle identità.
Nulla di nuovo a proposito, mi si può dire, dal momento che proprio su questo si è mosso il femminismo in un lavoro di autoanalisi quotidiana su sé e gli altri, le altre. Il che è vero ma solo in parte, per una certa parte del femminismo e per un periodo di tempo limitato.

Il «nemico» interno e la frattura dell’identità collettiva

Non è un caso infatti che proprio quando il lavoro di autoanalisi tra dorane ha portato a evidenziare le contraddizioni esistenti all’interno del mondo femminile, ponendo in primo piano le diversità da donna a donna e riconoscendo quindi anche l’esistenza di una molteplicità di identità femminili, in contrasto con l’esistenza iniziale di una unità simbolica, un’identità collettiva in cui il genere donna si riconosceva, proprio allora si è avuta una battuta d’arresto di quella che sembrava una marea montante e inarrestabile. In realtà la marra non si è fermata, si è invece dipanata in mille rivoli che rischiano però di non ricongiungersi agli altri se l’analisi delle diversità tra donne non passa anche e soprattutto attraverso l’analisi del femminile e del maschile che queste diverse identità esprimono, per capire appunto quanto di «vecchio» e quanto di nuovo c’è in esse.
Pensiamo per esempio al modo in cui un numero sempre maggiore di donne si è in questi anni inserito in posti lavorativi di prestigio, conferenti un certo tipo di status sociale e professionale: se per alcune si è trattato e si tratta di un percorso compiuto in piena coscienza del pericolo di perdersi nella cultura «altra», e della conseguente continua ricerca di un modo di essere «donna» all’interno di un ruolo lavorativo tradizionalmente appannaggio dell’altro sesso, per altre questo percorso si è ancora una volta frammentato, diviso, destinando nuovamente al pubblico la parte emancipata di sé e al privato tutto il resto. Un’immagine quindi di donna sì in trasformazione, che tenta di giocare varie identità, ma ancora e sempre in modo separato: la razionalità scissa dall’emotività, la paura di mostrarsi fragili compensata da un atteggiamento aggressivo, e così via.
Il che ha fatto sì che non solo queste singole donne che .si sono, frammentate hanno perso la possibilità di un rapporto dialettico con. se stesse, un rapporto in cui fondere il proprio maschile e il proprio femminile nella costruzione di un’identità non più stereotipata — né in un senso né nell’altro — ma anche che le altre donne con cui queste sono entrate in contatto si sono sentite cancellate e negate da un processo perverso di recupero dei più vieti meccanismi di competizione femminile. Inevitabili nel momento in cui il sesso principale di riferimento è sempre — se pur inconsciamente — l’altro e non il proprio. Nel momento cioè in cui l’espressione di sé viene vissuta all’insegna di un maschile tradizionale fatto di graduatorie, prestazioni, efficientismi, bravure.
Ma non è certo solo nel pubblico che i rapporti tra donne sono spesso difficili e carichi di distruttività reciproche: i meccanismi per cui una donna ha bisogno di vincere su un’altra o di renderla dipendente da sé, a seconda dei casi, sono l’introiezione profonda, in ognuna di noi, dei ruoli di potere e dipendenza che da secoli hanno legato madri e figlie, donne adulte e donne giovani in una lotta feroce per la sopravvivenza all’interno di una cultura maschile in cui sopravvivenza di alcune significava annientamento di altre che, sopravvissute nonostante ciò, avrebbero in seguito annientato ‘altre dopo di sé .in un cerchio ininterrotto di lotta fra donne.
Il tutto sotto lo sguardo soddisfatto dell’uomo-padrone, talmente astuto da far spesso apparire la donna quale vera detentrice di un potere di cui in realtà era solo schiava.
Sembrerebbe un discorso antico questo, un discorso appartenente a un passato remoto che non riguarda più noi, donne di oggi, cresciute politicamente all’insegna di un messaggio di amore fra donne, di solidarietà, di complicità. Sappiamo che non’ è così, sappiamo di essere ancora, spesso le nemiche di noi stesse e delle nostre simili nel momento in cui dentro di noi continuano ad agitarsi i vecchi modelli del femminile e del maschile.
Vecchi modelli che non agiscono ovviamente, solo nei rapporti tra donne — già analizzare costantemente questo aspetto sarebbe comunque un processo di crescita collettiva non indifferente — ma ad agire anche nel rapporto con l’uomo. E qui si apre un capitolo che ho l’impressione sia stato iniziato con un grande lavoro di scrittura collettiva per poi essere interrotto, lasciato a metà, sospeso.
E’ come se, scoperte le differenze anche antagoniste tra noi, venendo meno quel grande processo di identificazione collettiva che ci faceva sentire tutte comprese in un grande corpo simbiotico di mamma buona, avessimo in parte perso, insieme all’identità collettiva o comunque al grosso senso di appartenenza che aveva caratterizzato i primi anni del neofemminismo, anche il sentirci «sesso in lotta», controparte specifica di un sesso altro da noi. Come se, scoprendo il nemico dentro di noi, avessimo un po’ dimenticato che, se il maschile interno è sicuramente da combattere, nondimeno continua ad esserlo anche quello esterno, anche quello .gestito da chi, non solo culturalmente ma anche biologicamente «è» sesso maschile.

La donna e le nuove identità maschili

Se è vero infatti che tra donne il processo di modificazione dell’identità è, come si è visto, un processo lungo e difficile, ancor oggi, pieno di contraddizioni, è ancor più vero che il processo di modificazione dell’identità maschile non sembra attualmente essersi prodotto se non piccola parte, per alcuni uomini, e in modo mistificato e opportunista per altri. Per non parlare di chi non si è modificato, affatto, ed è ancora la maggioranza.
Mi pare che di fronte a questa insufficiente, mancata o pseudomodificazione dell’identità maschile ai siamo poste, ci poniamo, con strumenti del tutto inadeguati, o comunque non «politici».
E’ come se, nel momento in cui ‘l’avversario non è più stato tale, o meglio, ha mantenuto solo in parte le caratteristiche visibili ed esplicite del suo essere antagonista al mondo delle donne mascherandosi — in modo più o meno consapevolmente mistificato, a seconda dei oasi — da maschio «nuovo», abbiamo perso collettivamente e singolarmente la capacità di agire un rapporto politico con l’uomo e col maschile in genere. Anche la lotta contro il maschile interno alle donne infatti — parlo sempre del maschile stereotipo la cui connotazione principale è l’esercizio di un potere «su» e contro il femminile — si è fermata per -due motivi, mi pare, fondamentali.
Da un lato, per la difficoltà di distinguere tra maschile «buono», inteso in termini di capacità di autonomia e non passività, e maschile «cattivo», inteso come si è detto in termini di esercizio di potere; difficoltà di distinzione che rischiava di determinare una situazione di paralisi totale per l’incubo ricorrente di riproporre sempre e comunque vecchi modelli emancipatori.
Una paralisi che le donne hanno giustamente rifiutato portando però, anche, un certo grado di depoliticizzazione nel vissuto femminile: se l’emancipazione non era più il mostro cattivo e incontrollabile, tanto valeva calarcisi fino in fondo rischiando però contemporaneamente di allontanarsi, e in molti casi è successo-, dallo specifico femminile.
Dall’altro lato, la mancata critica al maschile «negativo» presente nelle donne — e i numerosi e molteplici casi di esercizio di potere di alcune donne su altre ci dimostrano che questo maschile è tutt’altro che sconfitto — si è prodotta anche, direi, perché il modello più esplicito di maschile «negativo» cui si uniformava la gran parte dei comportamenti maschili correnti e che aveva quindi rappresentato per lungo tempo il modello contro cui combattere — anche tra donne — si è modificato in forme e aspetti creando un vuoto di punto di riferimento. Per fare un esempio, è molto più facile combattere un capitale rappresentato in modo chiaro dalla figura di un padrone che un capitale multinazionale, diffuso in mille forme e aspetti nel corpo sociale. Il problema era quindi di riuscire ad orientarsi in una molteplicità di tipologie maschili che si andavano modificando sulla spinta del femminismo e che non per questo però perdevano le loro caratteristiche di potere.
Proviamo allora a evidenziare quali sono queste tipologie, le più comuni se non altro, tra quelle esistenti: la prima è rappresentata da uomini facilmente riconoscibili, che continuano ad esprimersi secondo modelli tradizionali. Nei loro confronti il discorso è meno complicato anche se danno luogo a comportamenti femminili spesso discutibili, ma di questo parleremo in seguito.
La seconda tipologia è invece rappresentata da uomini che sembrano aver abbandonato la veste del maschio potente per assumere quella che poi è in realtà sempre stata l’altra faccia del maschile, e cioè la veste di bambino dipendente e narcisista che delega alla donna-madre la totale gestione dei rapporti, deresponsabilizzandosi a tutti i livelli in modo clamoroso e buttando ancora una volta sulle spalle della donna — usando quindi la donna — tutto il peso del vivere adulto. Un modo di essere uomo che è stata finora alimentato dalla complicità della donna col proprio ruolo di madre, complicità che però mi pare stia per fortuna venendo meno nonostante che il modello di maschio-bambino deresponsabilizzato e accentratore stia ancora andando perla maggiore, attualmente, nel mondo maschile.
Ci sono infine uomini che rappresenterebbero le «punte avanzate» dell’altro sesso, che apparentemente non tentano di imporre il potere sulle donne e nemmeno le sfruttano infantilmente, che si corresponsabilizzano nel rapporto non solo con la donna ma anche col figlio. Ecco, qui forse sta il punto più alto della contraddizione fra i sessi che viviamo attualmente, perché il rifiuto da parte di questo tipo di uomo del vecchio abito tradizionale e l’assunzione conseguente di un modo «femminile» di essere, è un punto estremamente delicato, da osservare con molta circospezione. Se infatti questo uomo si pone al femminile, di quale femminile si tratta?
Prendiamo i «nuovi padri», per esempio, e domandiamoci se in questa attenzione per il figlio, in questo assumersi un ruolo materno, non ci sia intanto l’assunzione di un’identità femminile stereotipata: la mamma; e, ancora più a fondo, se questa assunzione di ruolo materno non rappresenti in realtà il desiderio maschile di essere madre essendo contemporaneamente padre. Eliminando quindi la donna dal rapporto e realizzando così il più completo sogno di onnipotenza che possa essere espresso: il potere di padre e madre riuniti in un’unica persona, il potere assoluto.
C’è da chiedersi in sostanza se, almeno per ora, l’assunzione del femminile da parte di alcuni uomini non contenga in sé sogni nascosti di onnipotenza, dì appropriazione del femminile. Se attraverso il «diventare» donna l’uomo non esprima in effetti il più alto livello di competizione col sesso femminile, assumendo ancora una volta nei suoi confronti un ruolo di potere — espropriando la donna anziché di pariteticità.
Ciò non significa ovviamente auspicare il mantenimento dei vecchi modelli di identità, ma piuttosto invitare ad una riflessione seria sui meccanismi profondi e più o meno nascosti che regolano i rapporti tra i sessi.
E’ un invito all’autoanalisi rivolto agli uomini— pochissimi di loro sono però disposti a farla — ma soprattutto alle donne — me per prima — per riflettere su tutto questo e farne di nuovo un patrimonio di elaborazione collettiva.
Di fronte alle trasformazioni dell’identità maschile, così ambigue e cariche di messaggi nascosti, molte di noi si sono infatti fermate trovandosi senza armi adatte per combattere una lotta contro un avversario che ha cambiato aspetto e richiede quindi tattiche e strategie adeguate. La mancanza di strumenti politici più elaborati per esempio ha comportato da parte di molte donne la ricerca del maschio tradizionale vissuto come antagonista «certo» e non oscuro contro cui si sa quali armi usare.
Fino a che punto poi, contro questo maschio esplicitamente antagonista si continui effettivamente a combattere non saprei, dal momento che sembra esserci in molte donne l’accettazione di una sfida — in termini prevalentemente sessuali — evocata da questi maschi, con l’idea di essere forse comunque più forti di loro e il risultato effettivo, mi pare, di una accettazione acritica di un rapporto basato su schemi di potere tradizionali. E questo non solo nel rapporto di coppia ma anche, per esempio, nel rapporto di analisi: si sa di analisti uomini che con grande amabilità definiscono le proprie pazienti giovani chiamandole «fighette» e le meno giovani «nonnette» (?!!) e che, ciononostante, sono ricercati e ambiti dalle donne per l’immagine di tecnici «esperti» che li circonda.
Questi e tanti altri esempio si potrebbero fare a proposito, tanti esempi in cui viene infine da chiedersi se non c’è il pericolo che, con un copione un po’ modificato ma nella sostanza collaudato da secoli, il Re non stia dando scacco matto alla regina.