storia di eccentrici inglesi delle loro muse e di una severa poetessa

maggio 1980

The cup of cold water” è una parabola. Narra di un giovane re e di un giovane cavaliere che un giorno, assetati, si fermano davanti alla casa di un boscaiolo. La figlia di quest’ultimo, bellissima, naturalmente, porta loro da bere e, come in ogni bella fiaba che si rispetti, il re e il cavaliere se ne innamorano perdutamente. Ma, mentre il re nasconde la sua passione, è fidanzato con una principessa altrettanto “bella” e “degna” d’amore, il cavaliere si dichiara. La giovinetta lo respinge. Ama il re di cui però, ancora, non conosce il rango. Il cavaliere, disperato, si confida con il re e questi, sacrificando il suo sentimento per la fanciulla, la prega di legarsi al suo amico. Lui sposerà la principessa come “onore” vuole. L’ha scritta Dante Gabriele Rossetti, poeta e pittore, padre della Confraternita preraffaellita, un movimento artistico sorto nell’Inghilterra Vittoriana, le cui tele, disprezzate per anni, sono poi tornate prepotentemente di moda sulla scia dell’amore per il liberty che anticipavano.
La storia racconta la vicenda d’amore che travolse la vita di Dante Gabriele e quella dì altre tre persone: il re, difatti, è lui; il cavaliere, l’amico William Morris, poeta e decoratore; la principessa, Lizzie Siddal, sua “diafana” moglie; la figlia del boscaiolo, la “sensualissima” Jane, moglie di Morris, amata da Rossetti. Dante Gabriele era figlio di un patriota abruzzese che, dopo i moti napoletani del 1821, era fuggito a Londra. Furono, forse, questo padre carbonaro, amante della poesia e una madre, donna “colta” e “saggia”, a determinare la scelta dei figli: pittore e poeta stravagante Gabriele; critico d’arte William Michael; poetessa malinconica, con slanci mistici, Christina.
Si dice che Rossetti scrisse a cinque anni un dramma, a dodici una ballata in prosa, a diciotto un romanzo così diabolico “Sorrentino” da suscitare una disapprovazione tale, in casa, che fu costretto a distruggerlo.
Il disegno lo attirava e pur non trascurando la letteratura, decise di frequentare l’accademia. Ma fu subito insofferente allo studio disciplinare, il conservatorismo lo infastidiva, né gli piaceva la pittura in voga con quelle “figure di cera dipinte!”.
Così la pensavano anche James Collinson, Thomas Woolner, Holman Hunt e J. Everett Millais e di comune accordo nacque l’idea di ispirarsi ai pittori primitivi italiani precursori di Raffaello. Ma dalle loro opere raffinate al massimo, dal particolare accuratissimo (niente del reale veniva trascurato dal loro pennello che indugiava su felci, alberi, fiori, foglie, animali e alla figura umana donava una magica intensità) ecco sprigionare una sensualità morbosa, fra turbamenti, estasi e tormenti che fu la loro prima caratteristica e che determinò uno stile.
William Morris, appassionato del Medioevo, come tutti i preraffaelliti, del resto, disegnava dettagli architettonici ispirandosi all’arte gotica, modellava la creta, intagliava il legno. Inizia a dipingere sotto l’incitamento autoritario dì Rossetti su tutti i suoi amici: “Queen Guenevere” è l’unico dipinto ad olio che ci sia rimasto di lui anche se, dopo mesi di lavoro lo abbandona e a terminarlo, sarà Dante Gabriele. Scrive poemi: popolati, come è stato scritto, da “figure di sognanti guerrieri e belle sonnambule”. Poiché credeva nella creazione artistica “artigianale” fondò un laboratorio dove si eseguivano disegni per carte da parati, tessuti, mattonelle, ceramiche, mobili, vetrate. Proclamava: “non bisogna avere in casa cliente che non sappiamo utile o che non pensiamo bello”. Elizabeth Eleonor Siddal aveva 17 anni quando Rossetti la vide la prima volta. Era inverno, anno 1850. Lui aveva una personalità dominatrice, un certo non so che, una sorta di magnetismo. Lei, i critici si sono affrettati a sottolineare, se ne sentì conquistata. Si dice che l’italiano avesse un fascino particolare nell’attrarre le persone… forse la sua inquieta bizzarria. Era solito fermare per strada le donne dal cui tipo di bellezza era attirato per farne sue modelle. La lunga relazione con Fanny, una donna “perduta” secondo le cronache del tempo, ebbe inizio proprio così. Elizabeth (Lizzie secondo il più noto dei suoi vezzeggiativi) divenne subito la modella preferita di quella cerchia di pittori: per il candore della sua pelle, per ì suoi lineamenti finissimi, per gli occhi grigi e pensosi, per l’aspetto tutto languido e malinconico. Trasparente.
Si affaccia con l’estetizzante pittura preraffaellita, attraverso un mondo dì sogno e di fantasia, un gusto raffinato, estraneo, prima di allora, alla cultura vittoriana.
I preraffaelliti popolano le loro tele di “Ofelie e Beatrici floreali, di creature febbrili, di donne lunari che sapevano di terrore e di piaceri or ora consumati”. Burne Jones, pittore di leggende per eccellenza, accanto alle sue leggiadre fanciulle dipinge strani cavalieri e re dalla bellezza troppo classica, fra gli unì e le altre non c’è gran differenza, sono simili… troppo e poi, quegli occhi cerchiati… così, nonostante l’affannosa ricerca della spiritualità; beh, si, quelle occhiaie ricordano troppo, al vittoriano, l’ebbrezza del vizio.
Lizzie era figlia di un coltellinaio di Sheffield e di una modista, è certo che dovette faticare parecchio per scrollarsi di dosso quella nascita così poco artistica per quella cerchia di artisti londinesi amanti solo di ciò che era “intenso”!
Lizzie dipingeva. Scriveva poesie. Aveva talento. L’amore come rifiuto, dolore, desolazione, gelosia, separazione, sacrificio, in una parola come martirio è il messaggio delle sue opere. Le sue rime e i suoi quadri trovarono nel critico Ruskin, portavoce della confraternita, lusinghieri e ampollosi consensi: “noble gloriosus creature”. E le offrì una rendita annua di 150 sterline in cambio dì quei dipinti che evocavano antiche ballate dove giovani donne aspettano invano il ritorno dal mare dei loro uomini. Qualcuno ha detto che superò il suo amante-maestro sta di fatto però che di lei si parla solo in riferimento a lui e quella storia d’amore per il posto d’onore che occupa tra quegli strambi. II suo aspetto diafano, il suo pallido viso, specchio della testa che dentro rodeva, erano agli occhi di quegli “esteti” motivo di forte fascino.
Bellezza dolorosa e, quindi, ancor più romantica, Lizzie incarna l’eterno femminino in compagnia di Clarimonde del Poe, delle vampire del Byron, delle peccaminose di Gautier e Flaubert e ancora ancora ancora…
E la sua storia sembra un terrifico romanzo. Fu per Dante Gabriele una paziente e schiva compagna come nei quadri di cui era modella ideale.
Quando posò, per il pittore Millais, in una vasca da bagno piena d’acqua per meglio rappresentare Ofelia annegata, non disse nulla quando l’acqua, riscaldata da lampade, gelò.
Autunno 1875. Entra in scena Jane Burden. Ha i lineamenti forti, le sopracciglia folte, il viso duro, la bocca carnosa, un lungo collo da cigno, i capelli corvini, l’aspetto zingaresco e un certo non so che di mascolino.
Il fascino “angelico” di Lizzie scompare sotto la “prepotente” corposità di Jane.
Il padre era un gestore di scuderia; anche lei, si dice come Lizzie, sentirà il peso di queste sue origini. Rossetti ne è attratto più che mai. La dipinge con un vestito blu, davanti a un mazzo di rose, con vesti medievali tessute a mano. Poi, sempre più travolto da quell’amore “proibito”, la identificherà con le grandi adultere del passato. In alcuni quadri il viso di Jane si sdoppia in più immagini: il “Salotto sul prato” donne e madonne hanno quel volto; in “Astarte siriaca” la sua figura si triplica.
L’oscillare tra l’impulso sessuale e la ricerca dell’edificazione così caratteristiche della personalità fortemente morbosa di Rossetti, sono presenti in tutta la creazione preraffaellita: il misticismo vive un tormentato e disperato connubio con l’estasi dei sensi.
William Morris sposa Jane nel 1859. L’anno dopo Rossetti sposa Lizzie. Dieci anni erano passati da quel primo incontro: lui aveva tante volte promesso, lei ogni volta sorriso, anche se sempre più mestamente. La salute sempre più malferma, la tisi a poco a poco la consumava… poi la perdita della bambina, nata morta, le pesa come un fardello troppo doloroso. Decide dì morire, una fiala di laudano, lasciata vuota sul comodino, indicò come. Oscar Wilde racconta che quella sera i due avevano litigato e quando lei chiese per alleviare le sue sofferenze un po’ di laudano, ‘lui disse prendendo la bottiglietta: «Bevitela tutta allora». Uscì. Quando tornò la trovò moribonda.
Dante Gabriele decise di chiudere dentro la tomba della moglie i tanti versi che le aveva dedicato. Un atto sacrilego che destò scalpore. In seguito, per ambizione e sotto la pressione degli amici, pensò di dissotterrare il manoscritto che, dopo accurata disinfezione, fu dato alle stampe. C’era, fra le altre, una poesia dedicata ad una prostituta, Jenny “povero fiore”. Il pater familias sobbalzò. Le austere ladies vittoriane, pure.
Intanto, dopo la morte della moglie, Rossetti si era stabilito, per alcuni periodi in casa Morris dando platealmente inizio a quel ménage che non poco scandalo suscitò nella Londra vittoriana. Vi abitano Jane, le figlie, William e l’italiano. William è sempre più di frequente in viaggio. La salute di Jane, anch’essa cagionevole, pare migliori quando il marito è lontano. Quando non vive con i Morris, Dante Gabriele Rossetti abita a Tudor House, in Chelsea. Vicina, fra le altre, è la casa del frenetico poeta Swinburne, le cui stravaganze non si contano, di George Eliot e un po’ più in là quella del pittore Burne Jones: soffitti bassi; legni scuri, una tenue luce che penetra dalle vetrate, è lì che nascono le sue figurette verginali e androgine. Impazza il culto della bellezza. La rosa e il giglio sono i simboli del gusto del tempo. Il pavone è l’animale più amato. Nel suo giardino Rossetti ne ha. In casa una collezione di porcellane azzurre. Soffre d’insonnia. E’ inquieto e tormentato. Il lautano un po’ l’aiuta, così l’alcool che l’intontisce. Lautano ed alcool diventano indispensabili. Le crisi nervose si susseguono. Dicono che il suo intimo sia diviso dal morboso rimpianto per Lizzie e l’amore passionale per Jane. A quest’ultima dedica dei versi, la vista gli si è indebolita, non può dipingere, nella raffigurazione poetica, per una sorta d’influsso magico, Jane ha i biondi capelli di Lizzie.
Ha scritto Oscar Wilde che, mentre il mito dei preraffaelliti si stava spengendo cercava di conquistare la Londra che conta con giochi eruditi e un garofano verde all’occhiello, a proposito delle due donne celebrate dal Rossetti “una dalla lunga gola d’avorio, la strana mascella di taglio quadrato, i vaghi, disciolti capelli che egli ama tanto ardentemente l’altra dalla dolce femminilità, dalla bocca simile ad un bocciolo, la stanca bellezza, il pallido viso.,.”.
Robert Buchanan, un critico, si fa portavoce delle chiacchiere che ormai non potevano essere soffocate su quella storia proibitissima per un paese che sì era posto all’ insegna del viver morale. Buchanan accusa a più riprese la Confraternita di “carnalità”. “La sua poesia sa di rosa malsana” — tuona contro Rossetti — “egli è sensuale dalla testa ai piedi”. Lo insulta “vuol trasformare Londra in Sodoma e Gomorra”. Il poeta ha un crollo nervoso. Soffre di allucinazioni, è preso da mania di persecuzione. Per fortuna c’è il cloralio a cui chiedere aiuto, in cui rifugiarsi, come già aveva fatto la “tenera” Lizzie: resta in coma due giorni ma è salvo. Ritorna alla fattoria le chiacchiere si intensificano. Morris trae un po’ di… sollievo dalla relazione… epistolare con Giorgiana, moglie di Burne Jones. Poi fa un viaggio in Italia in compagnia di ambedue. Infine William decide di lasciare la casa la cui proprietà è a metà con Rossetti. Ne compra un’altra “The retreat” che viene arredata con i mobili che Dante Gabriele aveva regalato a Jane. Intanto, sempre più forte, si fa strada in lui la decisione dell’impegno politico, fra la gente, per le strade, accanto ai lavoratori. E’ socialista, non più un ingenuo predicatore contro la civiltà industriale per la gioia del lavoro artigianale, per la conquista del bello e dell’utile.
Rossetti scrive a Fanny, corpulenta sua amante per tutta la vita nonostante il carico dei suoi tre mariti “Buon elefante, vieni a trovarmi. Il vecchio rinoceronte è infelice… ecco un piccolo assegno che l’elefante raccatterà con la sua proboscide per le sue presenti necessità”. Nel giorno dì Pasqua del 1882 muore, Morris poco dopo; dì Jane che sopravvisse ai due uomini qualcuno ha detto che era ancora bella, altri hanno con malignità commentato che l’unica cosa dì valore che sapeva fare era la marmellata di cotogne e qualche altro a proposito del suo matrimonio ha scritto che amando Morris più gli oggetti che le persone, lei rappresentò per lui “la cosa più preziosa che collezionò”. Ma guarda caso furono sempre altri a parlare: frigida, mediocre.
Jane ha un nome, ha un volto, ha una storia e un suo grande silenzio.
Interferenza
“Io dirti il mio segreto? Oh no, davvero! un altro giorno forse, chi lo sa? oggi no certo. Nevica e poi fa freddo e tu sei (dì no?) troppo ciarliero
Oh bella tu hai bisogno di sentirlo? Ma il mio segreto è mio: non voglio dirlo”
Cristina Rossetti (“Il mio segreto”)
Una voce emerge solitaria dal suo limbo. Note di sogno, di rimpianto, di morte.
Un’etichetta: “severa poetessa” l’ha inchiodata nei libri di letteratura inglese!
Che cosa ha a che vedere in questa storia funerea e grottesca di poeti luciferini e muse melanconiche?
E’ Christina sorella di Dante Gabriele, Nell’aspetto e nel volto tutte le caratteristiche idolatrate dai preraffaelliti: esile e ma-latina, marmoreo candore, occhi profondi tra il grigio e l’azzurro. Ma c’era nella sua persona qualcosa di particolare: un taglio incisivo e tagliente che emergeva in tanta sua ascetica proiezione verso il cielo!
Una corrente sotterranea attraversava la gentile e pia Christina. Non si sposò perché alla sua fede – protestante — non volle venir meno: e James era cattolico e Charles un libero pensatore!
Nel soggiorno dì casa Rossetti, mentre in giardino fiorivano i lillà e tassi e vombati passeggiavano, Christina fissava sulla carta le sue visioni. Come già da bambina. Solo che i suoi fratelli, compagni di giochi e di componimenti, avevano da tempo preso il volo per il mondo, E lei lì ad assistere il vecchio padre ora cieco e paralitico (ma “patria, umanità, religione” era ancora il suo motto). E lei lì e sua sorella si era fatta monaca anglicana.
Però tra quelle sue poesie, per lo più rifiutate dagli editori, frutto di tanto ascetico livore (16 dicono i critici) tali da indurre alle lacrime (lo dicono i critici) e non adatte ad una conferenza (lo dicono i critici) esplode precisa, forte, la coscienza di sé e della propria situazione. “Io, povera colomba che non deve tubare, aquila che non deve librarsi”.
“Tutte le mie parti si perdono in specchi, dove io mi scorgo. Me stessa a destra, me stessa a sinistra, me stessa in ogni luogo. Me stessa creatura solitaria, me stessa faccia inquisitrice…”.
Esplode piena, nell’amore, la voluttà, rompe gli argini, straripa… E, infine scopriamo con gioia ne “Il mercato dei folletti”, poemetto che i vittoriani volentieri una volta pubblicato diedero da leggere ai loro figlioletti, Christina e la sua perversità.
Vi si racconta di due sorelline, Lizzie e Laura, alle prese con crudeli folletti, venditori di appetitose frutta proibite (tanto più appetitose non c’è dubbio quanto più proibite).
E’ succhiare il verbo che più ci ricorre.
“Poi succhiò quei loro tondi frutti rossi o dorati… / Mai simili ne aveva gustati… / Succhiò e succhiò e succhiò / sempre più / Frutti nati da quel frutteto sconosciuto; Succhiò finché ne ebbe le labbra doloranti…”.
In un recente saggio la studiosa americana Ellen Moers ha intuito nell’attacco dei folletti alle due sorelle un piccolo universo dove risaltano crudeltà e sessualità infantili. Le molestie fisiche ricevute in quanto bambina dai fratelli, possono aver assunto nel rimmaginazione di adulta, data anche la povertà della sua esperienza, abnormi proporzioni e forti coloriture erotiche.
E il pensiero corre in quel soggiorno di casa Rossetti dove i ragazzi discorrevano di Dante e nel cassetto ben riposto c’era il Faust del Goethe! Ma come si conclude il poemetto altamente “scandaloso” e cruento di Christina? Dopo varie vicissitudini le due sorelle si ricongiungono e…
“Ti sono mancata? Vieni a baciarmi. Non badare ai miei lividi. Stringimi, baciami, succhia i miei liquidi. Spremuti per te dai frutti dei folletti. Che dei folletti sono polpa e succo. Mangiami, bevimi, amami. Vezzeggiami, Laura. Per amor tuo ho sfidato la forra. E ho affrontato i mercanti folletti”.
Schiva, ascetica, ritrosa… sì! Però…
“Tu non. eri affatto una santa. Prendevi in giro, facevi gli sberleffi».
(Virginia Woolf)
Troppo poco questi sberleffi geniali e dì incanto, che ancora chiedono con fierezza l’immortalità, per scalfire il vostro silenzio: tu, Jane, che sei stata fissata sulla tela come Pandora, tu, Lizzie, che ti sei lasciata gelare in una vasca.
“Portatemi i papaveri traboccanti di sogno e di morte, e quell’edera che inghirlandando soffoca e le primule che si aprono alla luna”…