testimonianze dall’ospedale

«ed ora veniamo alle “confessioni” si fa per dire raccolte durante la mia degenza a Rho.
Non ho ovviamente molto tempo per scriverle come vorrei e come meriterebbero di essere scritte».

gennaio 1977

ciao a tutte, rispondo alla vostra lettera del 25 aprile, anch’io con un po’ di ritardo. Ho avuto una serie di piccoli guai in famiglia. Lucietta, mia figlia, ha fatto scarlattina, varicella e, crepi l’avarizia orecchioni una in fila all’altra — mia mamma è stata molto male e tuttora ha continuamente bisogno di cure — la sottoscritta, per non essere da meno, si è beccata un raffreddore tipo cascate del Niagara. Stranamente, i masculi della tribù godono di una salute invidiabile. Meno male.
Non ho potuto ancora, per mancanza di tempo libero (ha! ha! questa faccenda del tempo-libero è la più bella barzelletta che le donne abbiano sentito dalla creazione…) verificare se le edicole del circondario sono in regola con l’esposizione delle locandine di EFFE. Spero di rimediare tra poco. Ed ora veniamo alle «confessioni» — si fa per dire — raccolte durante la mia degenza a Rho. Non ho ovviamente molto tempo per scriverle come vorrei e come meriterebbero di essere scritte, per cui faccio degli appunti, così come vengono, alla buona.
Ignazia, sarda anni 39. Corporatura minuta, viso ed occhi senza espressione — emorragia da una settimana raschiamento —Ogni sera viene il marito a trovarla, trascorre il tempo della visita in un silenzio sepolcrale, ogni tanto si guarda attorno con occhi che non superano la superficie delle persone e degli oggetti, mi dà un senso di gelo. Ogni due o tre giorni arrivano altri familiari, come ad una veglia funebre per un conoscente occasionale. Non sanno che fare. Portano arance e biscotti Plasmon. Ignazia non apre bocca che per salutare all’arrivo ed alla partenza. Nessuno le chiede — salvo il formale come-va-oggi — cosa si sente. Risponde con voce in cui non si sente la vita. È una donna spenta, dentro e fuori. Tuttavia mi ha detto qualcosa di sé. Poche frasi che tuttavia lasciano capire molte cose. Il marito non parla con lei altro che della spesa e del pranzo (a casa) comunque sempre poche frasi, quasi monosillabi. Le piacerebbe parlare con lui di tante altre cose, ma al di fuori dei binari — mangiare — non si va. Il marito non raccoglie. Lei sta chiusa nel suo guscio, lui altrettanto. Chissà perché si sono sposati… Hanno due figli adolescenti. È tornata a casa un giovedì, a riprendere la so-
lita vita infelice, forse non riesce nemmeno lei a capire perché. Uno dei figli è venuto una volta a trovarla. Ma non vedeva l’ora di andarsene, lo si capiva a prima vista. Speriamo che almeno lui e suo fratello abbiano più possibilità di vedere e sentire diversamente dai genitori.

— Barbara, anni 22. Minaccia di aborto, scongiurata dopo una settimana. Capelli nerissimi. Mastica in continuazione gomma che toglie dalla bocca solo per accendersi una sigaretta al gabinetto e per mangiare. Marito sui ventitre, innamoratissimo e sempre lì a coccolarsela. Mi ha detto che anche a casa è lo stesso. Lei si stufa di tutti quegli sbaciucchiamenti e a volte lo tratta male, ma lui non se ne dà per inteso. Mi ha dato l’impressione di essere un po’ immatura, di giocare al matrimonio, comunque erano tutti e due molto giovani e mi facevano tenerezza. Ha dato una scorsa a «noi e il nostro corpo» ed ha immediatamente incaricato il marito di comprarlo. È arrivato il giorno dopo col libro e lo guardavano insieme. Sembravano molto interessati. Mi è sembrata una buona cosa.

— Giovanna, anni 24. Emorragia, aborto quarto mese, avvenuto di notte. Ha partorito il suo bambino morto nel letto, alle quattro del mattino, assistita dall’ostetrica di guardia e attorniata da noi che le facevamo coraggio perché era spaventata (primo figlio). Raschiamento dopo due giorni. Secondo raschiamento a sei giorni dalla prima volta, È di una dolcezza ed una ingenuità, anche nei lineamenti del viso, come una bambina cui stanno succedendo cose più grandi di lei. È vissuta in un paesino del bergamasco fino al matrimonio. Stabiliti a Milano, lei lavora come archivista in un ufficio investigativo. Il marito è di poche parole. La madre invece tiene a far sapere che i ragazzi sono sistemati bene, hanno un bell’appartamento e da poco hanno acquistato il salotto. Giovanna ascolta tutti, crede letteralmente a tutto, si lascia guidare docilmente, non credo abbia mai pensato di avere una volontà propria. Non si può chiederle nulla, altro che di essere così, dolce, buona. Forse le farebbe molto male sapere che la sua visione idilliaca della vita (nonostante la triste e scoccante esperienza dell’aborto) è fuori del tempo e dello spazio.

— Elena, anni 36. Totale asportazione degli organi riproduttivi, due figli, sensibile e molto depressa. Era stata curata precedentemente per APPENDICITE (poveretta), ma i disturbi non accennavano a diminuire, per cui i suoi familiari le dicevano che era una malata immaginaria (il «verbo» dei medici è ancora vangelo per molte persone, purtroppo). Finalmente ha deciso di consultare anche un ginecologo. Mi ha detto che era comunque contenta di dimostrare a tutti che non era una pazza,.- anche se a carissimo prezzo. Soffriva molto anche fisicamente dopo l’intervento, aveva continui dolori acuiti dalla sua ipersensibilità ed uno dei medici una mattina, stufo di sentirla lamentarsi, le disse (puntandosi l’indice alla tempia) che lei aveva bisogno di curarsi lì. Evidentemente non aveva capito nulla di lei. Mi disse che suo marito non capiva quanto significasse per lei quell’esperienza brutta e dolorosa e che nonostante le volesse bene sembrava quasi infastidito che lei dovesse subire una «menomazione» di quel genere. Non mi è parso «giusto», anche se sarebbe stato forse «logico», coinvolgerla in un discorso più ampio. Non era il momento più adatto. È una donna intelligente e ci arriverà senz’altro da sola a comprendere ed a far comprendere anche al marito che la «fabbrica dei figli» è importante sì, nella vita di una donna, ma non è «la donna». Spero proprio che ce la faccia.

— Lucia, anni 61 di Catania. Isterectomia e asportazione di tutto. Dieci figli e dieci aborti fra l’uno e l’altro. Non ha specificato se tutti spontanei o procurati, ma è probabile siano stati tutti spontanei, altrimenti non avrebbe dieci figli. Parlava in siciliano stretto e quel poco che si capiva era accompagnato da espressioni talmente colorite che faceva ridere tutte. Si è ripresa in pochi giorni, essendo di costituzione molto forte. I suoi accenni al marito erano fatti di mimica e gesti più che eloquenti (lui era a Catania e lei temporaneamente ospite di una figlia). Pare che lui sia sempre a livello-coniglio, sia per la fretta che per la frequenza. Lei comunque non ha mai dato importanza a «chidee cose» e i «figghi» sono venuti uno dietro l’altro. Lei è contenta, anche se aveva dovuto subire un’operazione (era la prima volta che entrava in ospedale e che si faceva visitare). Tra l’altro ci ha fatto ridere tutte a crepapelle quando le hanno dovuto radere «a pelliccia», non le era mai capitato e non se ne capacitava, Di notte russava come un trombone e si sentiva per tutto il reparto, ragion per cui le sue compagne di camera la svegliavano verso le tre — si addormentava molto presto — per consentire alle altre di dormire. Aveva un viso mobilissimo e due occhi penetranti, vivacissimi. Me la ricorderò a lungo. Sarebbe stato del tutto gratuito e forse un pò controproducente per lei, anche solo pensare a «farle prendere coscienza di sé». Sarebbe stato come parlarle marziano, ovviamente,

— Irma, anni 19. Aborto «bianco», cioè dovuto alle condizioni di lavoro della fabbrica. Raschiamento. Lei lavora da un anno in una piccola tessitura, tre telai enormi per un’operaia che deve controllarli scarpinando dall’uno all’altro per tutto il tempo. Le ho chiesto se vi era qualche commissione di fabbrica che si interessasse di questo problema, al che mi ha guardato come se le avessi chiesto la luna.
Nota: A proposito della rasatura. Ho notato che TUTTE, dopo, dicevano che era «brutta». Evidentemente quella parte del nostro corpo è ancora considerata estranea e «vergognosa». Ho tentato, inutilmente, di far capire a qualcuna che non era così (a me personalmente faceva tenerezza, piuttosto, così pelata…), non poteva essere «brutta» una parte di noi se veniva «accettata». Invano. In quella parola ho sentito rifiuto, disgusto, e ancora e sempre il condizionamento culturale negativo del CORPO! Scusate, forse non mi spiego molto chiaramente, è un pò difficile cercare di metter giù delle sensazioni, come mi è stato difficile trovare le parole con quelle donne così ostili a se stesse. Speriamo che il piccolo seme da me gettato possa dare qualche risultato.
Non esiste nessuna commissione, la fabbrica è troppo piccola. Le ho detto allora di far presenti le condizioni di lavoro a qualche sindacato e di sensibilizzare anche le sue compagne che tra l’altro anche loro ogni tanto abortiscono, e sanno bene il motivo, ma non fanno nulla per tirarsene fuori, forse non ne hanno piena coscienza oppure si «rassegnano» (la rassegnazione della donna dà ancora frutti abbondanti, disgraziatamente) e pensano che morto un figlio se ne fa un’altro. Probabilmente nella loro mente la vita umana consapevolmente concepita non ha raggiunto il punto di sensibilità necessaria per averne piena coscienza, tanto è vero che anche per Irma, dopo il raschiamento, era come se non fosse successo NIENTE. Con questo non intendo dire che lei «mancasse» di sensibilità. Purtroppo la VITA ha raggiunto un tale grado di alienazione che anche moltissime donne non le danno molto valore e non si rendono conto di come tale atteggiamento prima di tutto mentale sia estremamente dannoso non solo per loro stesse, ma anche per gli altri. Il lavoro da fare a tutti i livelli è d’i dimensioni non dico oceaniche, ma addirittura cosmiche. E qui il discorso della riforma dei cervelli aprirebbe un capitolo interminabile, per cui è meglio che lo chiuda subito.

— Angela, anni 37. Ha partorito allo ottavo mese un bambino morto per insufficiente ossigenazione della placenta. Sta attraversando momenti molto brutti anche perché il marito è un farfallone che corre dietro a tutte le sottane e la riempie di corna. Quel figlio, se fosse vivo, le avrebbe fatto compagnia, forse avrebbe un pò cambiato il marito, questa era la sua speranza. Io ne dubito, in genere. La nevrosi del «don giovanni» non perdona. Mi è capitato spesso di sentire che i figli sono accettati ed amati perché sono «in funzione» di qualcosa o di qualcuno. Non per sé stessi, ma come «mezzo». E questa è una cosa abbastanza alienante, almeno per me. I miei figli (non è che lo dica per sembrare a voi diversa dalle altre, ho solo la mente abbastanza lucida per averlo capito in tempo, fortunatamente…) li amo veramente per ciò che SONO, non perché siano il simbolo di qualcosa, o perché mi danno delle «soddisfazioni», o perché io rivivo in loro, con quella forma di narcisismo contrabbandato inconsapevolmente per amore materno e paterno che fa spesso enormi guasti nella mente e nei corpi dei figli. A volte queste riflessioni mi spaventano un pò, mi dico che «normalmente» non si dovrebbero nemmeno pensare, si toglierebbe a qualcuno qualcosa a cui aggrapparsi (scusate se dico «qualcosa» ma è ormai nel linguaggio comune definire con quella parola anche ciò che si riferisce alle persone). Ma d’altronde tanti figli sono amati proprio per quello ed allora si riesce anche a comprendere perché tanti bambini abbandonati negli istituti non possono trovare molte persone così altruiste da adottarli solo perché i bambini hanno bisogno, Il più delle volte sono proprio le famiglie adottanti quelle che «hanno bisogno» di un figlio. Tempo addietro mi è capitata sotto gli occhi una definizione: «I figli sono l’espressione del NOSTRO godimento». Se a prima vista l’espressione mi era piaciuta, in un secondo tempo mi ha aperto la mente ad una constatazione. I figli sono spesso un’altra «scappatoia» dal pensiero della morte, sono l’immortalità più facilmente a portata di mano. Scusate, forse le mie farneticazioni vi sembrano oscure, e viste s.otto il comune metro di giudizio è probabile che qualcuno direbbe che sono cinica. Chi lo sa, può anche darsi che lo sia, chi è mai riuscito a conoscersi così a fondo da poterlo escludere in assoluto? Comunque vi assicuro che nei miei figli vedo veramente quattro ragazzi con una personalità talmente diversa dalle nostre (di mio marito e mia) che sono contenta di aver fatto, finora, un buon lavoro. Sarà perché amo talmente la mia libertà interiore — che sia questa una forma di egoismo? — che il solo pensiero di «plagiare» qualcuno mi fa venire i brividi.

— Imelde, anni 35. Ciste ovarica, due figli. Il marito (l’ha detto lei) è un debole che si perde in un bicchiere d’acqua. Tutto il peso dei figli e della casa è sulle sue spalle. Quando lei cerca di fargli assumere delle responsabilità in questo campo lui dice che tocca a lei, come moglie e madre, provvedere. Se a volte lei non sta bene lui però perde la testa, sta lì a guardarla come un allocco, oppure si mette a piangere. Lei gli vuol bene e lo considera il suo terzo figlio. Tra l’altro lei lavora a domicilio quattro ore al giorno perché lo stipendio non basta. È talmente sfinita alla sera che crolla letteralmente sul letto. Per soprammercato ha una suocera impicciona che ha la mania del clistere, anche per il mal di denti, per cui ha dovuto spesso litigare con lei. Un giorno che non ne poteva più le ha messo sotto il naso il libro di Spock (dove dice che il clistere ai bambini va fatto con molta prudenza, e che da altra parte serve a ben poco, solo a liberare l’ultimo tratto dell’intestino, ecc.), al che la suocera impermalosita le ha detto che lei aveva tirato su quattro figli senza bisogno dei libri e che erano tutti sanissimi (forse di corpo sì, ma di mente? in senso lato, si intende…). Fortunatamente non coabitano. Ho avuto la conferma quando ho visto sia il marito che la suocera. Lui aveva una faccia talmente anonima, poveretto, e per giunta non diceva una parola, al contrario della madre che sembrava una mitragliatrice, facendo abbondantemente anche la sua parte.

— Lucia, anni 26, due figlie. Minaccia di aborto, scongiurata con riposo (letto rialzato sul davanti) e iniezioni. Si è sposata incinta di quattro mesi. In viaggio di nozze, — forse per stanchezza dei frenetici preparativi, forse per il cambiamento del suo corpo e della sua vita, forse per la nostalgia di casa e la paura di essere moglie e mamma così all’improvviso, senza una adeguata preparazione al matrimonio e alla maternità; capita a molte, a quanto pare, di piangere apparentemente senza motivo le prime sere in viaggio di nozze — non se la sentiva di far l’amore col marito («far l’amore», che bell’eufemismo, per tanti… sarebbe meglio dire accoppiamento, forse si toglierebbe finalmente la maschera ad un luogo . comune tanto mistificatorio…) e gli disse di avere pazienza. Lui, ovviamente, non ci sentiva, le rispose che invece di sposarsi doveva farsi suora, che non capiva perché, adesso erano liberi e non dovevano più nascondersi, non potevano fare l’amore. Per cui lei alla fine, pressata e stanca di discutere, lo lasciò fare, passivamente, come voleva lui. A mio avviso il marito deve aver qualcosa del mandrillo perché una volta che andarono al mare per quattro giorni, da soli, lui le saltava letteralmente addosso al mattino, appena svegli, al pomeriggio quando facevano il pisolo — si far per dire — nonché alla sera prima di addormentarsi. Lei non ha più osato rifiutarsi, si è sempre comportata passivamente, ed ha sopportato questo tour-de-force convinta in fondo che doveva essere così. Non ha mai parlato con nessuno di questo e non so proprio perché si sia confidata con me. Le ho detto di leggere «Il matrimonio moderno» di Griffith, tanto per cominciare (in fatto di semplice informazione era proprio a livello zero), se vuole far qualcosa per migliorare, per aiutare anche il marito, visto che lui da solo non ci arriva. Spero tanto che si svegli un pò. Ovviamente non le ho detto nulla di Effe e nemmeno le ho dato da leggere «Noi e il nostro corpo», perché deve avere dentro tanta di quella rabbia, forse senza saperlo, che per ora è meglio che si svegli per gradi. Le ho dato il mio numero di telefono, non l’ho ancora sentita Si vede che le cose stanno migliorando. Ho finito. Non è un granché, probabilmente avete già sentito tante storie di questo genere, comunque penso che possano servire egualmente a qualcosa. Adesso vado a lavare i piatti. Tanti cari abbracci sorelleschi.

— Bruna, anni 38, cinque figli. Ciste alla Bartolini sinistra. Il primo figlio ha diciassette anni. L’ha portato dalla psicologa perché era particolarmente difficile. È venuto fuori che il ragazzo risulta soffocato dalla personalità del padre che non gli lascia spazio. Non mi ha detto se ne ha parlato con il marito, ne dubito. Tra le altre confidenze mi ha detto che non osa ribellarsi nemmeno lei, quando il marito a letto la cerca, perché lui va in bestia. Se gli chiede di accompagnarla a far la spesa grossa per la famiglia lui si rifiuta e le dice che deve arrangiarsi, sono compiti suoi. Allora lei prende la cinquecento e fa tutto da sola, caricandola e scaricandola. Forse anche lei non arriva a pensare che potrebbe svegliare i suoi ragazzini (sono tutti maschi…) e farsi aiutare da loro. Anche questo è un capitolo enorme che deve essere ancora scritto, intendo quello dei figli maschi tenuti dalle madri come sultanini, serviti in tutto, forse anche per una sorta di. omaggio alla «maschinilità», chi lo sa cosa c’è nella testa di tante persone… E chi sa se si riuscirà mai a trovare una chiave per decifrare apparentemente assurdo significato di tante nostre azioni?