lavoro domestico

truffa alle casalinghe

Come difendersi dal taglio delle pensioni

maggio 1979

abbiamo a suo tempo registrato (1) lo svolgersi di una vertenza nazionale sul lavoro domestico, vale a dire la lotta delle donne separate e divorziate per ottenere una modifica della legge del divorzio, cioè per rivendicare dei diritti acquisiti con il matrimonio (e pagati con una vita di lavoro) quasi del tutto vanificati dall’istituzione del divorzio. Queste donne si sono date forme associative diverse, dall’associazione di tipo tradizionale al collettivo femminista e, anche se la vertenza si è conclusa con una revisione minimale della legge del divorzio a base di assistenza mutualistica e di briciole di pensione, la mobilitazione continua. Ne è un chiaro esempio la polemica che il Collettivo Femminista Separate e Divorziate ha iniziato assieme al nostro gruppo con Giorgio Galli su La Repubblica e che è poi proseguita su due numeri di Panorama (2), Stiamo ora registrando gli sviluppi, oltre ad esserne parte attiva, di un’altra vertenza nazionale sul lavoro domestico attualmente in corso: non pensiamo possa essere altrimenti denominata la vicenda delle pensioni sociali (circa settantamila lire mensili) istituite nel 1969 e attualmente sottoposte a drastica revisione, da parte dellTNPS. Tali pensioni, destinate a cittadini ultrasessantacinquenni di condizione disagiata i cui redditi cumulati con quelli del coniuge non superino un certo importo limite, sono comunemente denominate «pensioni delle casalinghe» (3) ed infatti, su ottocentomila concesse, settecentomila sono di donne. Poi’ che dietro la motivazione «assistenziale» si nasconde il contributo dello Stato al mantenimento di donne che non hanno potuto avere una occupazione retribuita né versare contributi pensionistici a causa del lavoro domestico, noi consideriamo tali pensioni come una forma di «remunerazione di fatto del lavoro domestico», esattamente come gli assegni, la mutua, la pensione di reversibilità e il diritto ad ereditare rivendicati dalle separate e divorziate. Con il sopraggiungere della crisi, le donne sono state le prime chiamate a pagarne i costi: anche le erogazioni pensionistiche più tipicamente «femminili» hanno subito un attacco massiccio con un brusco ridimensionamento sia delle pensioni sociali che di quelle di invalidità (ma di queste ultime abbiamo già parlato (4). Si è infatti provveduto ad una drastica verifica dei redditi del coniuge di ogni pensionato sociale (i quali redditi, che all’epoca della concessione della pensione erano al di sotto di un certo importo, oggi invece lo superano: ciò perché tale importo limite non è stato elevato in misura uguale all’aumento medio dei redditi a causa dell’inflazione).

Nella sola città di Trieste la pensione sociale è stata revocata a ben settecento donne nel corso dell’anno 1978; a Roma invece i pensionati sociali hanno ricevuto a fine febbraio l’ingiunzione di denunciare entro il 29 marzo 1979 i redditi propri e del coniuge su appositi moduli e le revoche avvengono sulla base di tali denunce. Come Gruppo Femminista per il Salario al Lavoro domestico di Roma siamo state prontamente informate dalle compagne dell’omonimo Gruppo di Trieste e fin dal mese di gennaio ci siamo messe in contatto con pensionate settantenni che ci hanno dichiarato che si sarebbero separate legalmente piuttosto che perdere i primi soldi veramente di loro proprietà dopo una vita di lavoro: da loro siamo state tempestivamente avvertite dell’arrivo dei moduli di cui sopra.

Ci siamo pertanto rivolte ad una compagna avvocato del Collettivo di via Pompeo Magno, la quale ha approntato il testo di un ricorso amministrativo in cui si invoca l’incostituzionalità di ogni provvedimento di rigetto o di revoca di una pensione sociale in base all’entità dei redditi del coniuge. I motivi invocati sono gli stessi contro il cumulo dei redditi in campo fiscale: il principale è che i coniugati risulterebbero sfavoriti rispetto ai conviventi.

Il testo del ricorso è stato pubblicato integralmente su Lotta Continua; la notizia è stata poi diffusa da vari giornali (La Stampa, La Repubblica, Il Giorno, Quotidiano Donna). Sullo stesso argomento siamo ampiamente intervenute al Convegno «Il Femminismo d’Europa a confronto con le istituzioni» e stiamo anche cercando di diffondere capillarmente il testo di cui sopra perché possa essere largamente utilizzato.

Se il ricorso amministrativo sarà accolto tutte le casalinghe sopra i 65 anni sprovviste o quasi di redditi propri avranno diritto alla pensione sociale e sarà del tutto irrilevante il reddito del marito. In caso contrario la controversia proseguirà in sede legale.

 

(1) cfr. EFFE luglio-agosto 1977 ed EFFE settembre 1978. (2) cfr. LA REPUBBLICA 23-9-78 e PANORAMA 24-10-78 e 23-1-79. Il nostro interlocutore, partito affermando che «la modifica della legge del divorzio era un inaccettabile cedimento della sinistra fatta con il pretesto di favorire il coniuge più debole» era alla fine costretto ad ammettere, dandoci ragione, che giustamente l’elettorato femminile «guarda più alla sua situazione economi-so-sociale di fatto che ai diritti civili», anzi il suo ultimo pezzo si intitolava «La donna torni in campo». (3) Anche se in realtà manca in tali pensioni qualsiasi riferimento alle casalinghe e al lavoro domestico. Ad una «remunerazione di diritto del lavoro domestico» dal punto dì vista pensionistico si sarebbe potuti arrivare negli anni ’50 come conseguenza di una battaglia proposta dall’UjD.I. e appoggiata dalla sinistra sia pure con estrema timidezza e scarsa decisione. Invece tutto finì con una platonica legge di contribuzione volontaria presso enti assicurativi privati: le poche donne che hanno versato contributi assicurativi di una certa entità non indicizzati si sono ritrovate con pensioncine svalutate di diecimila lire o poco più, (4) cfr. EFFE settembre 1978.