congresso dell’UDI

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dal 19 al 22 gennaio si è tenuto a Roma il congresso nazionale dell’Udi, che ha segnato la crescita dell’associazione rispetto alle tematiche femministe ma anche il permanere di contraddizioni proprie della “organizzazione” di stampo maschile.

febbraio 1978

sono andata al X Congresso dell’UDI per due ragioni. Primo, mi interessava capire quali erano i problemi che le donne dell’UDI ritenevano oggi essenziali e quale proposta politica avevano elaborato. Secondo, volevo verificare in che misura era avvenuto questo famigerato «recupero del femminismo da parte dell’UDI». O, messo in positivo, volevo individuare quali elementi di femminismo erano entrati nell’impostazione ideologica e soprattutto nella prassi dell’UDI.
Dai documenti ufficiali è emerso soprattutto che ci troviamo in un delicato momento sociale e politico, dove le donne rischiano di vedersi restringere anche gli spazi di partecipazione conquistati nell’ultimo decennio e di subire la tentazione di «rifugiarsi nel ruolo come in una tana che ci protegge dalla giungla della della vita sociale». Per combattere questo pericolo e far avanzare le lotte delle donne l’UDI propone di «raccogliere e riproporre le grandi direttrici di lotta che sono maturate nel movimento delle donne in questi ultimi anni e riproporre in termini nuovi ciò che fa parte del patrimonio storico dell’emancipazione». Le donne dell’UDI vogliono attaccare la società maschilista, elaborando una strategia complessiva che unisca donne che partono da diverse esperienze. Solo attraverso la solidarietà, l’autonomia e l’unità delle donne è possibile «creare un movimento autonomo e organizzato delle donne, che faccia superare questa crisi con un cambiamento che porti il nostro segno». Concretamente nella proposta politica finale le donne dell’UDI indicano nella conquista della legge sull’aborto, nell’attuazione dei consultori, nel diritto al lavoro delle donne, nell’applicazione della legge sulla parità alcuni degli obbiettivi di lotta prioritaria. Come rispondere a questo appello all’unità dell’UDI e alle sue specifiche proposte politiche? Per quanto mi riguarda il tipo di rapporto che potrò come femminista stabilire con l’UDI, dipenderà anche soprattutto dal modo in cui verrano sciolti alcuni nodi sul come far politica che sono emersi anche durante il congresso. Mi trovo a scrivere queste mie impressioni sul congresso UDI dopo il convegno femminista sull’aborto e mi sembra utile riflettere sulle due esperienze, per chiarire alcuni aspetti unitari della nostra lotta, ma anche per sottolineare le profonde differenze che separano modi diversi di «fare politica», anche tra donne e che si esprimono in diverse interpretazioni degli stessi vocaboli.
Prendiamo ad esempio la parola «apertura». Il diverso tipo d’accesso ai due incontri nazionali, dimostra chiaramente che si può usare la stessa parola e darle un significato operativo e sostanziale diverso. Al congresso «aperto» dell’UDI, nonostante le compagne organizzatrici sapessero che noi femministe avevamo rimandato il nostro convegno per permettere alle donne interessate di partecipare ad ambedue, si è potuto entrare solo con invito. Anzi alle sedute di gruppo è entrata solo chi era munita d’un invito permanente. Infatti una di Effe, alcune compagne di Radio Donna e del MLD con o senza inviti, sono state sbattute fuori senza troppe cerimonie, secondo una prassi congressuale tradizionale e maschilista.
Le compagne dell’UDI si sono giustificate dicendo che il congresso era aperto a chiunque avesse dimostrato interesse a dibattere la loro proposta partecipando ai preconvegni. Fatto sta che chi non aveva potuto o voluto partecipare a questa fase iniziale e non aveva perciò passato l’esame dell’interesse preliminare, si è trovata bocciata senza appello alle porte del congresso. Al contrario al convegno nazionale femminista nessuno ha chiesto tessere od inviti, e femministe e non, sono entrate e hanno tranquillamente preso parte ai lavori. Questo è solo un esempio banale ma indicativo della contraddizione che è emersa nel congresso UDÌ, rispetto al rapporto con il femminismo inteso come ideologia e prassi. Mentre diversi elementi dell’ideologia femminista si ritrovano nel nuovo statuto dove si parla di «creare una contrattualità politica nuova che sconfiggendo la divisione dei ruoli, l’oppressione e la subordinazione delle donne porti al superamento della società maschilista e alla creazione d’una società a misura di persona»; nella pratica sono emerse molte contraddizioni. Quelle che volevano un congresso diverso hanno ottenuto ad esempio la divisione in gruppi di lavoro, che ha permesso molta più partecipazione diretta. Tuttavia altri aspetti del congresso hanno rispecchiato un metodo di lavoro maschilista, di cui i documenti teorici affermavano di volersi liberare. L’insistenza sul dover produrre a tutti i costi un documento finale, l’abilità con cui nei piccoli gruppi alcune dirigenti ricucivano gli interessi «devianti» e controllavano l’andamento dei lavori mostra purtroppo che si è badato per talune più al prodotto che al processo, anche a scapito della qualità del prodotto, come spesso avviene nelle assise decisionali maschili. Ad esempio nell’assemblea plenaria è stata talvolta soffocata la discussione attraverso una troppo stretta adesione alle procedure formali. Si è evitato così di far affiorare apertamente i contrasti tra quelle delegate che volevano un’UDI organizzata in modo meno gerarchico e più partecipatorie e quelle che preferivano appoggiarsi su metodi più collaudati (vedi discussione sull’articolo V dello statuto e le differenze tra le fautrici del «decidono e dirigono», e del «coordinano e organizzano», come prerogative degli organismi dirigenti). Liberarsi dal maschilismo, significa anche trovare forme di organizzazione che non riproducano i meccanismi della gerarchia oppressiva, della delega deresponsabilizzante, della negazione dei vissuti personali in nome d’un predominio del «politico». Ho sentito dire in assemblea che le femministe non si calano nel sociale. Questo è inesatto, noi ci immergiamo ogni giorno nelle lotte, solo noi non lottiamo per le donne, ma per noi donne. Non è vero che rifiutiamo ogni organizzazione, come ha detto un’altra delegata in favore d’uno assoluto spontaneismo assembleare. Chi opera nel movimento sa che continuamente ci sono compagne che si assumono compiti di coordinamento, promozione ecc. La differenza sostanziale sta forse nel fatto che queste compagne che «dirigono» sanno di avere una delega temporanea e che non possono attribuirsi nessun privilegio per il lavoro che svolgono nel movimento. Se lo fanno vengono giustamente criticate e invitate a desistere. Non a caso c’è stata una rotazione di questi ruoli tra le femministe storiche e nuove, visibile nelle assemblee di movimento. La società maschilista è invece organizzata in modo da favorire la propensione di coloro che detengono il potere ad autoperpetuarsi. Solo la morte, o feroci lotte intestine, riescono infatti ogni tanto a cambiare i massimi dirigenti dei partiti, dei sindacati. Purtroppo non basta essere organizzazione di donne per sfuggire a questa logica maschile. Infatti anche al congresso UDÌ, tra le prime cinquanta riconfermate nell’organismo dirigente nazionale, ci sono molte «recidive del potere», donne che hanno già dato un contributo a quel livello da anni. Possibile che tutte le vecchie militanti riconfermate pensino proprio di essere indispensabili e che non fosse possibile un’ancora maggiore rotazione delle cariche? Mi sembra si sia persa un’occasione importante per dimostrare che le donne si sanno veramente organizzare in modo diverso. Almeno, per non agire nel più tradizionale dei modi, si sarebbe dovuto dare più spazio alla discussione dei nomi proposti in assemblea. Far votare in blocco 50 nomi approfittando del fatto che erano quasi le tre del pomeriggio dell’ultimo giorno e che molte compagne dovevano prendere i treni, mi sembra ancora purtroppo un esempio di gestione maschile. Sono consapevole che spesso alle riunioni femministe si finisce per prendere decisioni solo tra le compagne che rimangono fino alla fine delle assemblee e che pure questo modo di decidere è criticabile. Mi sembra comunque che il movimento femminista abbia il merito di porsi continuamente questi problemi anche se non ha ancora trovato modi interamente soddisfacenti di risolverli. Mi è parso che al congresso dell’UDI sia emersa l’esigenza di autocentrarsi, di mutare l’organizzazione mentre si imposta un nuovo programma politico. Tuttavia questo bisogno è stato ancora troppo soffocato da altre compagne che forse non si fidano del nuovo e non credono nella possibilità reale di creare un’organizzazione veramente diversa da quelle maschiliste imperanti dovunque.