un bellissimo frutto magico

“I corridoi s’affollavano di donne di ogni razza e colore, di ogni età…”

settembre 1980

In luglio di quest’anno sono successi dei fatti che avrebbero dovuto suscitare la solidarietà delle donne in tutto il mondo: in Iran alcune donne sono state massacrate a colpi di pietra come pena per aver trasgredito la legge del Corano, la quale ritiene il corpo della donna — e quindi la sua sessualità — proprietà del marito; in India le donne hanno manifestato a Nuova Delhi contro il crescente pericolo di stupro, perpetrato ora persino dalla polizia; e nell’Unione Sovietica tre donne sono state espulse per il “delitto” di aver pubblicato una rivista che denuncia, attraverso le esperienze personali, la vita di oppressione quotidiana della donna russa.
Quasi contemporaneamente a questi fatti sono venute a Copenhagen circa ottomila donne provenienti da tutti i cinque continenti per partecipare ad un convegno sulla condizione della donna. Come si spiega che da un convegno simile non è uscita nessuna dichiarazione di solidarietà e di disdegno per la bieca oppressione della donna rispecchiata in questi avvenimenti?
Sarebbe troppo facile rispondere che, anche se il convegno del Forum doveva essere alternativo a quello ufficiale delle Nazioni Unite, erano presenti gli stessi elementi per impedire quello che formalmente era lo scopo degli incontri: discutere sulla discriminazione ancora subita dalle donne e formulare proposte concrete per abolirla.
Sarebbe troppo facile, perché questi elementi cioè donne e uomini motivati soltanto dall’interesse a portare avanti la politica ufficiale di un Paese (Iran, Iraq, ecc.) o di un gruppo (la “quarta intenazionale» e l’O.L.P., per esempio) costituivano una piccola minoranza al Forum, ed anche se ben organizzati e decisi ad usare il convegno come piattaforma per le loro idee, non avrebbero potuto bloccare la volontà di migliaia di donne. Difatti, questa volontà mancava o non trovava sbocco per esprimersi.
Un esempio clamoroso è stato l’ enorme ritratto di Khomeini, posto in uno dei corridoi del convegno, davanti al quale alcune iraniane — vestite in una versione modificata del chador e spalleggiate da uomini iraniani — facevano a turno a spiegare ad una folla di donne sbalordite che Khomeini è “il liberatore delle donne”. E quando una brasiliana diceva del ritratto “strappiamolo”, una tedesca ha risposto, “ma non possiamo imporre la nostra cultura; se le iraniane vogliono Khomeini, dobbiamo rispettare la loro scelta”. Però se qualcuna, chiedeva, invece, delle donne iraniane che non vogliono Khomeini, che manifestano nelle strade di Teheran contro l’imposizione del chador e vengono licenziate per il loro rifiuto di portarlo, la risposta di una delle iraniane veniva secca “non possiamo permettere ad una minoranza di danneggiare la maggioranza”.
E il ritratto di Khomdnd, con il suo sguardo di patriarca astioso e fanatico, non veniva strappato. La folla si disperdeva e gli uomini iraniani sorridevano.
La mancata reazione in questo caso non può essere attribuita al semplice opportunismo di chi trova un facile alibi per non essere coinvolto quando un regime terroristico proclama sia la fedeltà di tutti i sudditi che il maleficio di _ pochi deviati o stranieri che non fanno i fatti loro. C’era, credo, invece un disorientamento psicologico di fondo che colpiva quasi tutte le donne al convegno.
Le danesi avevano fatto degli sforzi immani per dare un’organizzazione che permettesse ad ogni donna di seguire il suo interesse specifico. Per elencare solo alcuni temi del convegno: l’evoluzione delle teorie femministe; “networking” tra donne di diversi Paesi, ossia la diffusione di informazione e di notizie importanti per formare legami operativi; il lesbismo; metodi efficaci per ottenere credito e per creare nuovi tipi di lavoro remunerato in ambienti rurali; la donna e la religione; la prostituzione; la donna e la prigione; la mutilazione dei genitali femminili; la donna e l’arte; violenza contro la donna nella famiglia;
In tutto c’era una media di centocinquanta “workshops” (gruppi di discussione) al giorno! Era peggio della proposta di Salomone di dividere il bambino in due. Ogni mattina ci si trovava di fronte ad una scelta angosciosa: andare ad un gruppo significava escluderne un altro. E naturalmente un tale numero di “workshops” significava una logistica assai complessa, con le diverse stanze situate nel labirinto di corridoi dell’edificio in cui il convegno aveva luogo. A volte ci si perdeva completamente in questo labirinto, e con disperazione si finiva per partecipare ad un gruppo che non c’entrava affatto con la scelta originale.
Ma la frustrazione ancora più grossa era il desiderio di stabilire dei contatti personali più profondi, di capire — nei limiti del possibile — la realtà delle altre; invece, ci si sentiva ostacolate dal fatto che tra un “workshop” e l’altro c’era poco o niente tempo, e alla fine di una giornata estenuante ognuna ritornava al proprio alloggio.
Anche se è vero che questo desiderio è sempre stato presente in qualsiasi convegno di donne in altri anni, a Copenhagen era come un bellissimo frutto magico pendente dal ramo di un albero, che si guardava con meraviglia ma impossibilitate a raggiungerlo.
I corridoi s’affollavano di donne di ogni razza e colore, di ogni età, piccole ed alte, vestite a volte con tessuti così colorati e belli da rivaleggiare con gli uccelli della foresta tropicale. Un gruppo di donne nere, altissime con le spalle larghe ed i capelli pettinati in tante treccioline lunghe fermate con delle perline, ti toglievano H fiato con la loro bellezza e ti portavano indietro nel tempo fino alle leggendarie amazzoni del sedicesimo secolo nel regno di Benin sulla costa occidentale dell’Africa.
Ci si sentiva spettatrici e partecipanti, nello stesso tempo, di una passeggiata di tutte le donne del mondo, con una voglia matta di fermare qualcuna tra la folla per conoscerla. A volte si riusciva a scambiare, due parole — nella mensa, per esempio, mentre si beveva un caffè — ma poi bisognava affrettarsi per arrivare al “workshop”.
E nella confusione del labirinto di stanze e del grande numero di partecipanti, non si vedeva più la donna filippina che ti aveva fatto vedere la fotografia delle sue tre bambine, o la donna keniota che ti aveva parlato della sua nonna materna dal carattere forte, che non ha fatto “circoncidere” sua figlia.
Il senso di disagio, di disorientamento creato, da questa situazione ambientale e psicologica è stato registrato da tutte le donne con cui ho potuto parlare. Inoltre era come fossimo tutte affette da un grosso choc culturale: l’impatto dell’incontro era quasi troppo forte, troppo stimolante, un’esperienza quasi da stordire. Tutto questo ha contribuito a rendere più difficile di superamento delle nostre differenze per arrivare ad una sintesi dei punti fondamentali di lotta comune; ed ha bloccato le nostre reazioni quando si dovevano affrontare aspetti diversi da quelli dell’oppressione nella propria cultura.
Questa è una delle ragioni, quindi, per cui si accettava — per la maggior parte di noi in silenzio la tesi di certe donne africane, secondo la quale asportazione della clitoride delle bambine, in alcuni paesi dell’Africa, non è una mutilazione, ma un rito di circoncisione, un costume culturale come quello per i bambini maschi. Solo poche persone hanno protestato che un tale costume, dove la bambina subisce un intervento estremamente doloroso e pericoloso, destinato spesso ad avere delle ripercussioni molto gravi sulla sua salute, equivarrebbe per il bambino maschio alla castrazione! C’era un clima di strano pudore in cui si tacevano le conseguenze dirette di questa mutilazione, e così si evitava anche di discuterne i motivi politici: l’asportazione della clitoride toglie alla donna la sua capacità di godere e quindi, costituisce un modo di assicurare all’uomo la verginità e la fedeltà della moglie, perché senza un organo di piacere è più probabile che essa si sottometta alla legge della proprietà sessuale.
Inoltre, ci è stato richiesto, in maniera più o meno esplicita, di non parlare troppo della “circoncisione” delle donne, perché gli uomini al potere nei Paesi in questione potrebbero irrigidirsi all’improvviso contro chi tenta di informare le donne sugli aspetti negativi, igienici, e sull’”inutilità” dell’intervento. Paura comprensibile; però rispecchia la vecchia speranza, rivelata poi vana, che se la donna non dà troppo nell’occhio tutto andrà bene.
Come nel caso di chi ascoltava muta le iraniane al convegno, l’errore di base è stata una mancata analisi, comprensione della cultura patriarcale, i cui fondamenti sono comuni per tutte le donne, anche se si manifestano in forme diverse; perciò questa cultura va rifiutata in qualunque modo si esprima, e non si può mistificarla come una tradizione più o meno accettabile perché storicamente “accettata” dalle donne.
Purtroppo la poca chiarezza su questo punto è stata manipolata da alcune donne per contestare gli “atteggiamenti razzisti e imperialistici” di chi si crede “superiore” e vuole interferire nelle usanze culturali delle altre.
(Però, quando la delegata iraniana alla conferenza dell’ONU ha sollevato, in un intervento con la stampa, la questione dello sfruttamento della donna occidentale attraverso la pubblicità dei mass-media e l’industria dei cosmetici, nessuno l’ha incolpata di interferire nella cultura e nei costumi di altre donne).
Se, poi, questa accusa di “imperialismo” viene da donne occidentali, si rischia veramente di cadere in una specie di razzismo alla rovescia: nessuna di queste donne accetterebbe l’obbligo di mettere il chador e le verrebbero i brividi all’idea di essere sottoposta all’asportazione della clitoride, ma pare che per le donne non occidentali tutto ciò vada bene, perché queste ci sono abituate, anzi probabilmente li desiderano.
Per non parlare delle donne di varie correnti di sinistra aderenti alla linea di: se un Paese è “rivoluzionario”, non va criticato, e soprattutto non va criticato quando si tratta di questioni di secondaria importanza, come, per esempio, la vita della donna. (Comunque quando il regime iraniano ha cominciato la repressione dei gruppi della sinistra, con la giustiticazione che le idee di questi ultimi erano in contrasto con la cultura del popolo, i compagni non hanno esitato ad obiettare, e non si sono preoccupati che tale critica potesse apparire come una presuntuosa interferenza nei costumi tradizionali degli iraniani). Sarei curiosa di sapere se queste stesse donne fossero dell’opinione; spesso espressa nell’Italia meridionale, che delitto d’onore non va abolito perché fa parte del costume. Tuttavia, malgrado tutte le aspettative non soddisfatte, il convegno ha rappresentato un momento di grande importanza per il movimento delle donne. Abbiamo iniziato un dialogo a livello mondiale, e nonostante tutte le nostre differenze si sentiva nell’aria, si intuiva negli sguardi di tante, la coscienza della nostra somiglianza: una somiglianza che nessuna differenza poteva cancellare.
Cosa sorprendente è stata l’assoluta naturalezza con cui le donne del Terzo Mondo hanno adoperato il termine “sorelle” mentre parlavano al convegno, a differenza delle donne europee, le quali appaiono spesso imbarazzate ad usare questa parola di solidarietà e di affetto.
Inevitabilmente il divario nelle condizioni economiche del mondo, l’appartenenza ad un mondo urbano o rurale, il peso ancora sentito del razzismo, e il neocolonialismo fanno sì che spesso abbiamo ancora esigenze, bersagli immediati da colpire e tempi diversi. Ma il commento di un giornale di Copenhagen — “quando le donne hanno fame e non hanno acqua, non hanno certo bisogno del femminismo” — ha il solo scopo di negare gli obiettivi finali che abbiamo, invece, in comune.
Se manca la prospettiva femminista, qualunque cambiamento sarà orientato unicamente verso il miglioramento della condizione maschile. Questo è risultato chiaramente dai discorsi sulle nuove tecniche di sviluppo nel Terzo mondo, dove le donne vengono sempre di più emarginate dalle sfere produttive e dove, soprattutto, vengono escluse dalla nascente economia monetaria- Il femminismo, quindi non è una torta riservata alle donne occidentali; è un insieme di concetti e di valori tendenti alla creazione di una società diversa/per la cui realizzazione è basilare il cambiamento dell’attuale ruolo sessuale, produttivo e riproduttivo della donna.
Due riflessioni sono maturate dopo Copenhagen. Anzitutto, modificare la vita della donna significa capire che oggi ì tre aspetti — sessualità, produzione, e riproduzione — non sono mai scindibili: opprimere un aspetto porta fatalmente all’oppressione degli altri aspetti. Il convegno ha messo in evidenza sia la necessità di ribadire questa stretta relazione che l’esigenza di rivalutare l’importanza della sessualità (nel suo senso più ampio), relegata da molti partecipanti dal Terzo mondo — è doveroso riconoscerlo — al secondo piano. (E’ difficile spiegare perché si minimizza la sessualità se pensiamo ai tanti momenti storici in cui l’oppressione sessuale si è rivelata interdipendente con gli altri aspetti del ruolo femminile: per prendere un esempio solo, ì tipi di produttività aperti alla donna sono sempre stati fortemente condizionati dalla misura in cui la donna viene segregata per controllare la sua sessualità).
Inoltre il convegno ha dimostrato che abbiamo bisogno di comprendere con più chiarezza che facciamo la stessa lotta
anche quando> prende forma diversa
che possiamo e dobbiamo reagire con solidarietà tutte le volte che la cultura patriarcale aggredisce la donna.