un incontro su donne e lavoro

Negli ultimi numeri di EFFE sono state presentate esperienze, di gruppi di ricerca femminili costituitisi recentemente in Italia. Intendiamo inserirci in questo dibattito indicando alcune riflessioni sul convegno organizzato dal CLEF (Centre Lyonnais d’Etudes Feministes) e tenutosi il 12-13-14 dicembre all’Università di Lione sul tema: “La femme et la question du travail”.

febbraio 1981

Molteplici sono state le preoccupazioni che hanno caratterizzato l’incontro: necessità di un confronto scientifico-metodologico tra le ricerche legate al problema della donna e del lavoro; esigenza di puntualizzare sulla situazione che in questo particolare momento attraversa il movimento femminista francese; richiesta di discussione e di dibattito sui problemi legati al vissuto con particolare attenzione al momento della maternità; esigenza di un’autoriflessione sulla questione specifica del lavoro e del ruolo della donna lavoratrice in rapporto alla società, alla famiglia e al movimento stesso delle donne.
Ad ognuno di questi centri di interesse corrispondevano gruppi diversi di donne provenienti quasi esclusivamente dalla Francia. Sei donne italiane, una spagnola e una tedesca erano le sole “rappresentanti internazionali”.
Pur essendo l’ambiente particolarmente eterogeneo non è mancata la possibilità di un approfondimento, considerato che l’arco dei temi andava dal problema della maternità al tema del lavoro nel periodo fascista, dalla questione delle forme complesse del lavoro femminile a quella delle “femmes debauchés”.
Non è possibile qui entrare nel merito dei temi che si sono via via succeduti; vorremmo solo -poter toccare alcuni problemi che ci sono sembrati di grande interesse per la ricerca. Gli approcci sono stati di diversa natura: storico, antropologico, socio-psicologico, politico-sociale e individuale.
L’incontro si è aperto con un’analisi sul problema della maternità come aspetto da un lato biologico, dall’altro sociale.
Al potere della scuola, della famiglia e dei mass-media si è contrapposta la volontà di scelta della donna, nel tentativo di superare Un momento imposto come “naturale, necessario, inevitabile”. Il campò è spaziato dal rifiuto della maternità come ordine globale che assoggetta la donna, alla maternità come creazione e autodeterminazione del soggetto stesso. In un atelier abbiamo discusso il significato e il valore della “maternité celibataire”.
Con il tema Le forme complesse del lavoro femminile si è invece considerato il rapporto esistente tra lavoro salariato, lavoro domestico e vita quotidiana. E’ stata così evidenziata l’ambivalenza insita nel lavoro salariato femminile. Da un lato esso ha rappresentato e rappresenta, pur se insufficientemente tutelato nel suo aspetto normativo, una forma di emancipazione economica e sociale; dall’altro l’inserimento nelle fabbriche ha favorito un’integrazione delle donne nella produzione industriale e nell’ideologia che tale struttura sottende. Accenni sono stati fatti alla normalizzazione del ruolo femminile rispetto alla famiglia, al matrimonio e all’educazione dei figli, che hanno posto in luce un aspetto preponderante della vita quotidiana: il lavoro domestico. Il lavoro domestico, emblema della divisione sessuale del lavoro, è stato analizzato non soltanto come compito che le donne devono adempiere nell’ambito dell’organizzazione generale della casa, ma anche e soprattutto come sfera riproduttiva dei comportamenti, delle rappresentazioni collettive e delle relazioni sociali e interpersonali. Per Helga Sobota, relatrice del tema: “La mise en place du travail menager en Franee. Milieu XVIII – milieu XIX”, li bipolarità dell’attività femminile in lavoro salariato e lavoro domestico rappresenta il frutto di un medesimo processo insito nell’espansione capitalistica.
Intendiamo ora soffermarci su due punti a nostro parere centrali delle giornate d’incontro. Il primo, sollevato da alcune partecipanti, riguardante il problema femminismo e analisi del lavoro delle donne, ha sottolineato il limite di certe ricerche in cui il lavoro delle donne viene sistematicamente riferito a quello degli uomini. Leggiamo sul testo preparatorio agli ateliers: “si analizza il lavoro delle donne negli stessi termini del lavoro degli uomini e non a partire dalla sua specificità”.
Emerge la necessità di trovare nuovi strumenti e nuove categorie di analisi per poter “scrivere un’altra storia” maggiormente legata al vissuto delle donne. Tutto ciò rimanda ad uno studio più approfondito su quelle che sono state le preoccupazioni del movimento femminista francese in questi ultimi anni, alla sua composizione sociologica, al suo ruolo in rapporto sia all’opposizione politica tradizionale che alle sinistre.
Ciononostante abbiamo riscontrato l’intenzione di evidenziare l’effetto di “conoscenza” che il movimento ha avuto nell’Ultimo decennio nei confronti della ricerca. Il sistema concettuale sviluppato nelle lotte e nelle analisi del movimento avrebbe condizionato le ricerche e gli studi negli anni ’70.
Il secondo punto riguarda il ruolo della ricerca, l’uso e il contesto in cui viene inserita. Far ricerca dentro o fuori le istituzioni è stato un dilemma presene te in molti interventi, come pure altri pressanti interrogativi quali la committenza, il senso, la direzione e la destinazione.
Il tema II lavoro delle donne e il fascismo presentato da Aline Barrachina Moron, Anne Marie Troger e Luisa Passerini nei tre esempi spagnolo, tedesco e italiano, ha messo in luce non soltanto l’aspetto di controllo e dipendenza delle donne dal sistema di dominio, ma anche la possibilità di manifestare, pur in forma limitata e in certa misura conforme al regime, la loro irriducibilità di “esseri inermi” nelle mani del potere. Ciò non significherebbe l’esistenza di forti solidarietà femminili nel periodo fascista né di un potere effettivo delle donne, ina la presenza di una notevole contraddittorietà del sistema fascista nell’ambito del rapporto tra ideologia e realtà quotidiana.
Anne Marie ha rilevato come la nuova ideologia degli intellettuali e tecnocrati nazisti fosse profondamente legata allo sviluppo del capitalismo moderno, e come tale richiedesse una specifica” divisione sessuale del lavoro non soltanto nella separazione tra sfera produttiva e riproduttiva ma anche nell’ambito della produzione. Il programma nazista non consisteva in una totale eliminazione della forza lavoro femminile bensì affermava la necessità di incanalarla in forme determinate e direzioni specifiche. L’estensione della meccanizzazione e quindi del lavoro a catena conseguente all’ondata di razionalizzazione della seconda metà degli anni “’20 ha avuto risvolti diversi nei confronti delle donne della classe operaia e quelle della classe media. Se le prime venivano sottoposte ad un costante addestramento alla doppia giornata di lavoro (lavoro alla catena e lavoro domestico) le seconde erano soggette alla continua proposta di una morale sostitutiva del mestiere tale da frenare il desiderio di professioni qualificate. Occorreva sostituire la figura della madre e della padrona di casa a quella della donna socialmente riconosciuta. Ed è a quest’ultima classe di donne che si rivolse la campagna contro i cumuli dei salari. Nel tentavo di rafforzare la propria ideologia conservatrice la classe intellettuale nazista si è servita della condizione femminile non solo per rifiutare alle donne una professione qualificata ma anche per dirigerle verso i più duri lavori di fabbrica. Quest’ultimo processo ha riguardato in particolare le donne proletarie e straniere.
Presentiamo alcune definizioni, fornite dagli psicologi del lavoro degli anni ’20 in Germania, concernenti le diverse attitudini dell’uomo e della donna in rapporto al lavoro di fabbrica.
“Certe attitudini esterne differenziate (particolari) delle donne si riferiscono alla loro costituzione psichica, come per esempio la maggiore sensibilità nel toccare, la maggiore adattabilità al caldo e al freddo, la maggiore abilità della mano;… di conseguenza la donna ha una mobilità e una destrezza non confrontabili a quelle dell’uomo”.
Anche l’intelligenza, secondo costoro, differisce da quella dell’uomo: “…questa è la causa per cui la maggior parte delle donne è priva di capacità di osservazione, .pensiero astratto, capacità tecnica e rimane indietro rispetto agli uomini. Ecco perché le donne sono raramente adatte ai lavori che esigono comprensione, senso tecnico continuo”. (A. W. I. Hahrbuch – 1939).
Da un’analisi più complessiva si può dire che il nazionalsocialismo ha avuto un ruolo modernizzatore rispetto al lavoro delle donne. Tuttavia Anne Marie sostiene, contrariamente ad alcuni teorici della modernizzazione, che si debba identificare qui la modernizzazione come sfruttamento della forza lavoro e gerarchizzazione sociale e non come miglioramento delle condizioni dì libertà, uguaglianza e prosperità.
Luisa Passerini attraverso l’uso della storia orale ha analizzato le rappresentazioni che certi gruppi di donne hanno dato del fascismo italiano, fornendo utili indicazioni per la ricerca dei contrasti e delle ambivalenze caratterizzanti la loro quotidianità. La sua ricerca, basata su di un’indagine condotta a, Torino attraverso un centinaio di interviste a uomini e dorme e riguardante il periodo tra le due guerre, ha mostrato come la rappresentazione del lavoro faccia emergere rilevanze di natura diversa.
Una delle considerazioni espresse da Luisa è che l’identità, per le operaie più anziane nate tra il 1890 e il 1909, non è legata al mestiere, alla carriera, alla fabbrica, ma include un concetto di lavoro come totalità che ricopre tutta l’esistenza (al lavoro di fabbrica segue il lavoro domestico, la crescita dei figli…) e che non ha gli stessi aspetti ideologici e trionfalistici dell’ideologia del mestiere. Nel detto “siamo nate per lavorare” è insita sia una dignità arcaica che un’antica maledizione alla quale è impossibile sfuggire.
Da questo primo gruppo di donne la fabbrica, oltre che luogo di sfruttamento, sembra essere vissuto come un luogo di informazione, comunicazione e circolazione delle notizie. Esiste la constatazione di un miglioramento reale della loro vita rispetto a quella delle loro madri e nonne. Si assiste ad un rifiuto, seppur labile, della politica demografica proposta da Mussolini nella volontà di ridurre il numero dei figli.
Un altro gruppo di donne più giovani, nate tra il 1910 e il 1925, sempre appartenenti alla classe operaia, manifesta nella possibilità di partorire in ospedale anziché in casa, nella maggior cura e attenzione ai lavori domestici, nella partecipazione alle manifestazioni fasciste e nel desiderio di indossare la divisa un senso di libertà e gratificazione.
Tuttavia la discordanza tra vissuto e dinamiche di dominio si rivela in una serie di norme definite. TI contratto dei metalmeccanici, ad esempio, prevedeva quattro categorie di qualificazione per gli uomini e solo due per le donne. Stabiliva inoltre che le categorie più elevate delle donne godessero di un salario inferiore rispetto a quello degli uomini.
In un terzo gruppo di donne, appartenenti al basso ceto medio e impiegate Fiat, la rappresentazione di libertà e autonomia passa da una lato attraverso i ricordi del loro tempo libero (la domenica andavano a fare escursioni in montagna con i colleghi di lavoro e la sera andavano al cinema o a concerto) dall’altro attraverso il senso di orgoglio e indispensabilità del loro lavoro.
Anche qui la frattura fra normativa e realtà si esprime nella politica istituzionale, nell’interdire, ad esempio alle donne insegnanti nei licei, l’insegnamento delle discipline fondamentali e nel’ assegnar loro le materie di minore importanza (Legge del 1926).
In questi stralci del discorso di Luisa Passerini ‘appare la forte contraddittorietà di un regime come il fascismo: da un lato assistiamo alla campagna demografica mussoliniana accompagnata dal concetto prioritario per le donne del matrimonio e della procreazione, dall’altro all’oggettiva possibilità per le donne impiegate di una mobilità individuale. Anche se questa mobilità irreggimentata rappresenta in ultima istanza un elemento di sostegno al sistema è pur vero che si affaccia una nuova dimensione, un nuovo modo di porsi delle donne rispetto al lavoro e al tempo libero.
Chieste considerazioni rimandano dunque ad un ampliamento, seppure non indiscriminato, della categoria del lavoro femminile visto anche nel più complessivo rapporto dei soggetti con la natura.
Per quanto riguarda una valutazione più globale del convegno ci è sembrato, sensazione avvertita anche nell’assemblea conclusiva di domenica 14 dicembre, che il dibattito non sia riuscito ad evitare momenti di accademismo da un lato (discussioni spesso astratte rispetto al quadro generale dei lavori e scarsamente in relazione tra di loro) e psicologismo dall’altro (tendenza a prendere in considerazione soltanto la riflessione interiore e la coscienza individuale come metro di analisi della situazione femminile).
Tuttavia a questi momenti si è aggiunta anche la volontà di un gruppo di storiche facenti capo all’Università di Lione, di inserire la condizione femminile in un preciso contesto storico sempre in mutamento.
Solo considerando questo rapporto soggetto donna ed epoca è possibile rendere giustizia alla finalità e al valore del lavoro femminile e distruggere il mito della “naturalità” e “necessità” attribuito a qualità innate delle donne.