pubblicità

un modo più intelligente di vendere miti

conoscere gli strumenti della pubblicità vuol dire sapersene difendere meglio. La pubblicità è solo uno dei metodi usati per persuaderci a vivere in un modo che non risponde a nostri reali bisogni.

ottobre 1977

dal ’68 in poi la pubblicità è diventata la «diva» della produzione, su di lei si sono scatenati gli strali degli intellettuali, si sono fatte indagini sul suo linguaggio, sulla possibilità di essere meno suggestiva e più informativa. Articoli, convegni, dibattiti per trovarle un ruolo adeguato rispetto ai profondi cambiamenti della società, quando in piena crisi e relativa «austerità» riproponeva un modello di consumismo immutato e offensivo di fronte alla richiesta di sacrifici al Paese, e alla maggiore presa di coscienza dei consumatori. Effe pubblicava non più di un anno fa un appello al mondo pubblicitario: «Questa pagina attende una pubblicità che non offenda la donna», altre compagne in tutta Italia attaccavano striscie con la scritta «questo offende la donna» sui manifesti più oltraggiosi. Denunce, ma anche la richiesta di cambiare. Come dice Amalia Cortese Ardias «una pubblicità che aiuti a ritrovare una propria identità di essere umano, in pari dignità uomo e donna e non nel conformismo. Certo sono temi difficili da collegarsi alla vendita dei prodotti. Ma certamente essa può diventare un fattore determinante nel “ricreare” l’immagine della donna». Oggi che la campagna pubblicitaria della Cori propone un’immagine non certo «tradizionalmente» offensiva della donna e che sembra quasi rispondere alle parole dell’Ardias, quanto si può affermare ancora tutto questo? possiamo davvero chiedere alla pubblicità un reale rinnovamento? ma soprattutto quanto la pubblicità può realmente ricreare l’immagine della donna senza poi finire per rivenderle quella stessa immagine, svuotata di ogni contenuto reale di lotta, e attraverso essa semplicemente ancora e solo un prodotto? Non è facile rispondere a queste domande senza cadere in posizioni radicali di rifiuto della pubblicità, fuga molto comoda e insidiosa dalla quale non disdegnano nemmeno certi pubblicitari che si giustificano con il fatto di «doversi guadagnare il pane quotidiano e che-le-loro-lotte-le-fanno-altrove…». Posizione peraltro abbastanza tipica di certo intellettualismo radicalborghese che risolve il suo conflitto di classe e la sua schizofrenia politica allevando conigli, e varie sui generis… Proviamo ad analizzare la pubblicità e, in sintesi, le dinamiche economiche, produttive e politiche del sistema attraverso le quali si esprime e le loro complesse interrelazioni. Attaccare e denunciare solamente la pubblicità e chiederle un cambiamento è profondamente inutile, e mistificante, in quanto cambia l’immagine, ma non i contenuti del sistema che esprime. La pubblicità si maschera, parla un nuovo linguaggio politico, economico, sociale manipolandolo ai suoi fini. Tanto qualunquismo politico per vendere un jeans, un po’ di «pluralismo» applicato alla siderurgia, forse nel senso che «è un’azienda che opera da un anno al servizio di tutto il mercato al quale ha fornito una quota crescente della sua produzione». ‘Le affannose dichiarazioni di due grosse aziende sul loro contributo economico’ alla crisi del Paese attraverso slogans come «Può anche viaggiare in camion la ripresa» e «Vi mostreremo dove parte il nostro contributo alla ripresa economica» con immagini che fanno sottointendere una pioggia di sana valuta straniera. Pubblicità Domani si chiede «se essi riescano a contribuire . a una vera e propria coscienza della crisi, o restino fatalmente coniugati al modo in cui il potere, vendutoci a suo tempo il ‘boom’, rende merce anche la depressione».
E non potremo ringraziare mai abbastanza i pubblicitari che ci hanno indicato «una strada migliore per la liberazione della donna», e noi qui a lottare per i nostri diritti e la nostra dignità, prendendo faticosamente coscienza della nostra oppressione e del nostro sfruttamento, pensate, una bella vacanza e avremmo risolto tutto! E che dire dello slogan «Moquette è bello» ci sembrerà certo di averlo sentito da qualche altra parte.,. Filosofia pubblicitaria! Donna è bello, moquette è bello, uguale: la donna è una moquette! Ben altra cosa comunque i contenuti «rivoluzionari» che appaiono sotto lo slogan «Né streghe, né madonne», ma ne parleremo a parte. Giustamente è semplicistico liquidare la pubblicità accusandola di condizionarci, di creare falsi bisogni, costruire nuovi modelli, proprio perché la pubblicità opera una politica di assenso strumentale alla vendita, essa non crea bisogni inesistenti, ma si adegua a bisogni e modelli preesistenti nella cultura di massa. «Possiamo anche dire che la pubblicità ha operato in due direzioni, su valori condivisi e nello spazio ‘ neutrale ‘ che si creava quella che è stata definita la ‘cultura di massa’, valori condivisi che si riportarono a tutto quanto c’è di sottocultura nella società italiana, e non solo quella italiana, che trovava subito punti di contatto con un certo tradizionalismo familistico ed una concezione maschilista della società. Su questo tallone di Achille ha infierito la cultura di massa e la pubblicità che si è fatta paladina dei piaceri familiari», come sottolinea Amalia Cortese Ardias, sempre nel suo intervento al Convegno: le donne e l’informazione.

 

pubblicità e comunicazione di massa
La pubblicità nell’ambito della comunicazione di massa si differenzia essenzialmente per questi motivi:
1° Per il suo carattere persuasorio finalizzato al raggiungimento degli obiettivi di mercato, comunicazione quindi per portare a conoscenza del pubblico un dato prodotto, servizio, immagine, e creare la predisposizione all’acquisto.
2° Si rivolge ad un pubblico relativamente ristretto e omogeneo differenziato per genere di consumo. Di qui la scelta dei veicoli pubblicitari, o mass-media, in base alla loro audience, devono avere cioè un pubblico di lettori rispondente all’immagine del potenziale consumatore in base alla distribuzione geografica, sesso, età, ecc.
3° La ripetitività del messaggio pubblicitario indirizzato a questa fascia di consumatori (target group del prodotto) contemporaneamente presente su diversi veicoli e adattato alle loro caratteristiche tecniche: solo voce per la radio, immagini e testo per la stampa, voce e immagine (azione) per la televisione e il cinema.
Sono questi i veicoli di comunicazione, che oltre ad essere i supporti del messaggio pubblicitario, sono essenzialmente i mezzi di informazione della cultura di massa, quindi di ideologie e modelli comportamentali, legati a gruppi di potere economico e politico, i veri e reali manipolatori dell’opinione pubblica. La manipolazione strumentale operata dall’informazione attraverso l’uso di strumenti non sempre facilmente identificabili, il taglio di un articolo, la predominanza di una notizia invece che un’altra, una informazione sempre meno obiettiva e qualitativamente valida, la scelta e l’impaginazione delle fotografie e della copertina. Di questi giorni due esempi particolarmente significativi L’articolo apparso in prima pagina del Corriere della Sera del 3 ottobre che dà notizia delle gravissime ustioni di Roberto Crescenzio in seguito all’incendio provocato da molotov lanciate in un bar di Torino «dagli ultra di sinistra». Il giornalista trascrive gli attoniti commenti degli amici di Roberto «Con la politica non aveva avuto mai a che vedere…» «Mai andato a una assemblea, a un comizio…» e aggiunge il suo commento «Dai discorsi affiora l’immagine di un ragazzo serio, pulito, ansioso di crearsi un avvenire…». Dando il tocco finale deamicisiano «Indossava il vestito della festa, pantaloni grigio chiaro e…». E Roberto Crescenzio viene usato per riaffermare valori reazionari e borghesi. Il senso è evidente: un ragazzo serio, pulito non deve fare politica. Penso a Walter Rossi, il militante di Lotta Continua ucciso freddamente dai fascisti, il parallelo è immediato e amaro, che cosa è per il Corriere della Sera, quale l’opinione che forma dei suoi lettori? «Ultra di sinistra ucciso dai neofascisti a Roma» questo il titolo della notizia, uno che quindi, tacendo politica e non rispettando i canoni del buon qualunquista, o meglio la maggioranza silenziosa che dà il voto a destra, quanto meno, forse, doveva pensarci prima. Un altro esempio dell’enorme margine di sottocultura della nostra stampa è la copertina dell’Europeo n. 41 un paio di gambe (con collant) di donna che si sfila le mutande, continua la provocazione delle copertine sul nudo. È evidente il compiaciuto avallo al sessismo e ai valori patriarcali, sessuofobici e cattolici che permeano la nostra società.
E non illudiamoci troppo sull’avanzamento delle sinistre, le nostre lotte sono ancora ben lontane da aver prodotto dei cambiamenti sull’opinione pubblica e sulla tanto discussa «qualità della vita». E questo il direttore dell’Europeo, Valentini, lo sa bene quando punta sulla resistenza al nuovo, sulla sessuofobia e sulla repressione dell’italiano medio con il duplice scopo di rallentare la sua crescita morale, sociale e politica e aumentare le vendite. Il sistema si avalla anche così grazie alle doti brillanti del sig. Valentini, mantenendo e stimolando la sottocultura, l’ignoranza e il voyeurismo, In questo contesto credo che certi messaggi pubblicitari, con i loro contenuti dichiaratamente e apertamente persuasori e finalizzati sono certo meno subdoli e meno pericolosi. Con questo non voglio certo togliere alla pubblicità le sue precise responsabilità nella riaffermazione di questi stessi valori, ma solo inserirla in una fase più ampia di giudizio, che tenga presente le interrelazioni esistenti tra la pubblicità, anche essa mezzo di comunicazione, e gli altri mezzi di comunicazione di massa. Non dobbiamo dimenticare che questi ultimi, oltre ad essere i supporti della comunicazione pubblicitaria, sono essi stessi dei prodotti, e perciò inseriti in una logica di mercato che adopera gli strumenti del marketing, che analizzeremo in seguito, tra cui anche la pubblicità.

 

I femminili
Prendiamo ad esempio la stampa per le donne, i cosiddetti femminili, Essi nascono ingegnosamente da menti maschili per coprire questa grossa quota di mercato, che non essendo certo la più produttiva, è comunque quella che ha un notevole potere d’acquisto, in quanto gestisce il reddito familiare per sé, per la casa, per i figli e influenza i consumi dell’uomo.
La funzione politica dei femminili è di mantenere inalterato il ruolo della donna attraverso la riaffermazione della «mistica della femminilità» un solido puntello per il potere sessista attraverso l’imbonimento, la gratificazione, la pseudo-informazione, l’affermazione imprescindibile della femminilità in armonia con il proprio ruolo. La funzione economica dei femminili è mantenere e stimolare il mercato consumistico che gira intorno al ruolo e alla funzione della donna in questa società. La pubblicità riafferma sotto forma di fissaggio psichico questa immagine.
È proprio nei femminili che troviamo la fusione tra le due metodologie distinte dell’informazione di massa e la pubblicità come informazione persuasoria. Si esprimono nei redazionali pubblicitari, (vere e proprie pagine pubblicitarie a pagamento che hanno l’apparenza falsamente innocua del servizio giornalistico), aumentando la loro credibilità presso la lettrice del 100%. Questo giornalismo coatto esercitato attraverso lo sfruttamento delle redattrici dei femminili è ampiamente documentato e denunciato dal Collettivo Giornaliste di Rinnovamento della Lombardia nel loro intervento al Convegno Donna e Informazione tenuto a Milano la primavera scorsa. «È questo il modo più sofisticato di persuadere la lettrice all’acquisto del prodotto, molto più sofisticato della pubblicità tabellare, che è una proposta diretta e ben riconoscibile, e anche dei cosiddetti ‘publiredazionali’, che vengono spesso eseguiti dalla redazione, ma si distinguono per l’indicazione ‘pubbliredazionale’ e per la diversa impostazione grafica».
«La dipendenza dalla pubblicità rende schizofrenica l’immagine del periodico, che pure si presenta come strumento di divulgazione di cultura e di informazione, perché porta delle contraddizioni tra le diverse parti (attualità e settori ‘consumistici’) e crea disparità all’interno delle redazioni. Dal questionario si rileva che: nella moda il 46% delle redattrici fa esclusivamente redazionali d’appoggio; il 18% delle redattrici è subordinato alla pubblicità per il 90%; il 7% per l’80%; l’11% per il 60; e soltanto il 4% per il 30%. Nella bellezza, il 54% delle redattrici è subordinato alla pubblicità al 100%; l’8% al 90%; il 15% al 50% e solo ,l’8% al 5%. Nell’arredamento, il 29% delle redattrici è legato alla pubblicità al 100%; l’11% all’85%; l’11% al 70%; il 12% al 50% e solo il 6% al 2%. Nell’attualità invece ci sono alte percentuali di condizionamento solo nelle rubriche fisse ‘(libri, dischi). La pratica redazionale d’appoggio provoca spesso nella giornalista una crisi d’identità professionale, non per quanto riguarda le specifiche capacità o il settore nel quale svolge il suo lavoro, ma perché di fatto quotidianamente la limita nella libertà di informare le lettrici. Infatti nel questionario il 56% delle intervistate dichiara di non poter rifiutare servizi d’appoggio alla pubblicità, mentre solo il 12% ha la possibilità di contrattarli. Questo risulta privilegio delle qualifiche più alte (condirettrici, caporedattrici, qualche volta capiservizio) ed è comunque inversamente proporzionale al budget pubblicitario di ciascun settore (alle redattrici di attualità non vengono chiesti redazionali d’appoggio)».

 

le concessionarie pubblicitarie
Un discorso a parte meriterebbero le Concessionarie pubblicitarie e i loro l’apporti con il mondo della pubblicità e i mezzi di informazione. Le più importanti sono la Sipra, Spi, Spe, Manzoni, Rizzoli, Mondadori, Pubblikompass, ne esistono poi altre minori, ma sono queste sette che si dividono il mercato pubblicitario. Veri e propri gruppi di potere finanziario e politico, raggruppano, sotto la loro gestione, praticamente tutti i mezzi di informazione di massa, dividendosi più o meno equamente e amichevolmente questa fantasmagorica torta di miliardi e miliardi.
Attraverso i loro contratti esclusivi con i mezzi: stampa, radio, televisione, cinema, ne garantiscono il finanziamento, (siamo sempre nell’ordine di cifre da capogiro per ogni singolo mezzo), ed è evidente come questo possa condizionarne l’autonomia di gestione. Le agenzie pubblicitarie dopo aver pianificato la scelta dei mezzi adatti alla diffusione della campagna, si rivolgono alle Concessionarie rispettive dei mezzi scelti, e avranno una umiliante tangente del 15% sul contratti effettuati per i loro clienti, in tutto rispetto alla mafiosa gestione del potere dei padrini della pubblicità.

 

il marketing
Quando esiste un prodotto, e anche per decidere l’esistenza e un cambiamento del prodotto stesso, scattano delle operazioni che potremo definire, strategie di marketing, cioè lo studio e l’analisi di dati rilevati attraverso indagini socio-demoscopiche, sia quantitative che motivazionali sul prodotto, sul mercato, sul consumatore. Druker definisce il marketing come «l’insieme delle attività necessarie a convertire il potere d’acquisto in domanda di beni e servizi». È un metodo di lavoro interdisciplinare che consente di applicare i risultati di lavoro ottenuti in campo psicologico, economico, organizzativo, distributivo, pubblicitario, alla risoluzione di problemi connessi con mercato, prodotto, utente. Ad esempio le analisi di marketing permettono in pubblicità di capire se esiste una reale necessità di fare una campagna, sapere come deve essere fatta, riscontrarne la validità in base agli effetti ottenuti. Problemi ovviamente risolti più o meno correttamente a seconda delle capacità di intuito, e di giusta e corretta valutazione dei dati, visto che il marketing non si può certo definire una scienza, ma un articolato strumento di indagine che deve far vendere bene il prodotto di una azienda, attraverso il coordinamento di tutte le sue strutture produttive e distributive. Gli schemi mostrano le varie articolazioni delle operazioni.

 

le indagini motivazionali e quantitative
Le analisi motivazionali nascono in America, intorno agli anni ’40, in risposta all’esigenza dell’industria, che produce in modo sempre più indifferenziato e consumistico, di conoscere il consumatore e le sue motivazioni di acquisto, attraverso lo studio in profondità delle sue aspirazioni e dei suoi desideri. I ricercatori motivazionali sono stati chiamati «persuasori occulti» e «manipolatori», termini che indicano il potenziale pericolo di queste indagini; vorrei però ricordare quanto la «scienza» sia spesso parziale e poco obiettiva, soprattutto la psicologia e la sociologia, principali discipline usate dalle analisi motivazionali. Uno strumento di indagine non dovrebbe essere giudicato fine a se stesso, ma per i fini che persegue. Quindi, partendo da presupposti psicoanalitici che il consumatore è vulnerabile non tanto nella sua sfera cosciente quanto nella sua attività inconscia e subconscia che condiziona l’acquisto, una analisi condotta in modo da scoprire gli aspetti più deboli della personalità del consumatore, porterà alla creazione di messaggi pubblicitari che agiranno nelle sue sfere emotive. Il consumo diventa quindi soddisfazione di desideri, gratificante soluzione a sensi di colpa, insicurezza affettiva, aspirazioni frustrate. Agendo in questa sfera emotiva la donna ne diventa la vittima maggiore, la pubblicità si rivolge soprattutto a lei come principale consumatrice, aspetto conseguente al suo ruolo, riproponendole modelli comportamentali in tal senso e gratificandola attraverso la vendita di miti e valori del «feminino» che si tradurranno poi in gratificanti fughe e compensazioni attraverso «l’oggetto» di consumo.
Betti Friedan nel suo libro «La mistica della femminilità» del 1963, analizzando gli studi condotti sulle casalinghe americane da un famoso ricercatore motivazionale, Dicheter, scrive: «Bisogna riconoscere che i ricercatori motivazionali hanno capito certi aspetti della realtà, della vita, delle esigenze delle casalinghe; una realtà che era spesso sfuggita ai loro colleghi della sociologia accademica e della psicologia terapeutica, che vedevano le donne attraverso un velo freudiano funzionalista. Con proprio profitto e con vantaggio dei loro clienti, i manipolatori hanno scoperto che milioni di casalinghe americane apparentemente felici hanno complesse esigenze che la casa, l’amore e i figli non possono soddisfare. Ma dal punto di vista di una moralità, che non si esaurisca nel dollaro, i manipolatori sono colpevoli di usare le loro intuizioni per vendere alle donne cose che, per quanto ingegnose possano essere, non soddisferanno mai questi bisogni sempre più disperati. Sono colpevoli di persuadere le casalinghe a testare a casa, ipnotizzate davanti al televisore, mentre tutte le esigenze umane restano insoddisfatte, sviate dall’imbonimento sessuale verso l’acquisto di oggetti. I manipolatori e i loro clienti non possono essere accusati di aver creato la mistica della femminilità. Ma sono i suoi fautori più potenti, sono i loro miliardi a coprire il Paese di immagini persuasive che adulano la casalinga americana, ne deviano il senso di colpa e ne mascherano il crescente senso di vuoto».
Abbiamo visto come la pubblicità è inserita in un ampio contesto politico, economico-produttivo, come si differenzia dalla comunicazione di massa, di cui fa parte e quali sono gli strumenti che le permettono di operare a livelli persuasori differenziati per necessità di mercato e prodotto. Teoricamente la funzione del pubblicitario è essenzialmente quella di visualizzare gli obiettivi di mercato dell’azienda. Il messaggio pubblicitario è caratterizzato dalla velocità e dalla immediatezza della comunicazione che trasmette.
Punta quindi sulla percezione del messaggio in termini di suggestione, impatto, curiosità, memorizzazione. La comunicazione viene quindi codificata attraverso dei simboli costruiti sull’analisi dei dati informativi sul mercato consumatore, e sullo studio delle relazioni tra la «personalità» del prodotto e il fruitore del prodotto stesso. In una società dove si parla sempre più impropriamente di bisogni, e dove i bisogni appunto, sono sempre maggiormente soddisfatti da una produzione indiscriminata, uno dei maggiori problemi della pubblicità è la differenziazione dalla concorrenza. Deve cioè saper vendere un prodotto che è assolutamente identico, per uso e struttura, ad altri sul mercato. Diventa quindi necessario motivare il consumo in modo diverso dal bisogno reale. Si crea quindi la «personalità del prodotto», si carica cioè il prodotto di significati trascendenti il suo uso. L’acquisto avviene: 1° attraverso il riconoscimento della personalità del consumatore in quella del prodotto, 2° acquisizione della personalità del prodotto attraverso l’atto dell’acquisto. Il prodotto assume il significato di status-symbol, l’appagamento di istanze emotive più o meno conscie. Si vendono valori attraverso i prodotti. La pubblicità non produce cultura, si limita a riflettere e avallare la cultura di massa e i suoi valori, un enorme contributo alla diffusione del conformismo borghese. E alla fine produce essa stessa dei cambiamenti riflessivi, in quanto un cambiamento a livello produttivo investe a catena altri cambiamenti rispondenti a nuove esigenze modificando quindi anche i modelli comportamentali e di acquisto.
In questo senso il mondo della pubblicità è stato uno strumento di consenso funzionale al sistema. C’è voluto il ’68 per far breccia su questa concezione e porsi in posizione di analisi critica verso la pubblicità.

 

un tentativo di cambiamento
Gli anni che vanno dal 1969 al 1976 sono segnati da profondi mutamenti nei comportamenti collettivi e privati che si esprimono in una richiesta di una nuova qualità della vita che si fondi sulla partecipazione e su un modello di consumo non più indiscriminato. Lo sviluppo del mondo capitalistico, basato sul basso costo delle materie prime importate dai Paesi del terzo mondo, è profondamente scosso. È l’inizio sia della fine della società dei consumi, che di un’epoca di austerità caratterizzata dalla diminuzione del potere di acquisto che induce a spese più oculate verso beni duraturi. Dal consumismo si passa al consumerismo, cioè la richiesta di un modo più maturo e consapevole di produrre e comunicare che vede il consumatore non più come «terminal» passivo del processo pubblicitario ma come soggetto attivo e ascoltato, come protagonista. In. molti Paesi Europei nascono associazioni di consumatori per la difesa dei loro diritti, per promuovere il movimento legislativo a favore dei consumatori (Ombudsman in Svezia e Danimarca), e l’azione degli organismi internazionali, attraverso la Protection Consumer Chart, presentata al Consiglio della Comunità Economica Europea.
Il mondo della pubblicità si trova maggiormente coinvolto, proprio per la sua funzione di tramite tra l’industria e il consumatore, in una necessità di cambiamento.
È del 1974 il Convegno a Milano su «Produzione, comunicazione, consumerismo» organizzato dall’Utenti Pubblicità Associati, dalla Federazione Relazioni Pubbliche Italiana e dalla Associazione Tecnici Pubblicitari; da.. cui emerge una ottimistica possibilità di realizzare una nuova maturità del consumatore, aiutandolo e indirizzandolo attraverso una pubblicità più corretta e responsabile, con una capacità più equilibrata di informazione. L’impressione riportata da Anna Bartolini, giornalista presente al Convegno, è stata quella di «assistere ad un grande rito collettivo della ” riparazione “». A distanza di quattro anni queste parole sono ancora attualissime, in quanto non è corrisposto un effettivo cambiamento, anche perché è mancato un adeguamento dell’industria alla nuova realtà del Paese, in fondo convinta che la crisi sia solo congiunturale e che si possa tornare, in tempi più o meno lunghi, ai vecchi modelli di consumo. Idea avallata da un disegno di politica economica che si esprime attraverso illustri economisti, come Nino Andreatta, esperto economico della D.C., che vedono in un ritorno ad un modello di consumo indiscriminato, la possibilità di una ripresa industriale. Su queste contraddizioni del mondo politico-economico, la pubblicità come ruota del carro, stenta ad adeguarsi alla domanda di reale rinnovamento che viene dalle forze sociali più avanzate.