INTERVISTA

una donna dall’interno delle istituzioni

“ho il potere di prendere iniziative e di sobbarcarmi un sacco di lavoro”

maggio 1979

Jacqueline Nonon, direttrice dell’Ufficio per i problemi del lavoro femminile ci parla in questa intervista dei suoi problemi di «donna burocrate».

BRUXELLES APRILE 1979

 

per far posto al «quartiere generale CEE» a Bruxelles, file su file di casette liberty sono state cancellate. Ne rimane qualcuna, stretta tra i blocchi di cemento, con i balconcini di ferro battuto, le vetrate floreali e la patetica bellezza delle cose decadute. Nei nuovi residence affittati a prezzi altissimi si è installata la casta dei funzionari, nelle vecchie case sono venuti a stare gli immigrati, soprattutto turchi, nordafricani, zairesi.

I grattacieli del consiglio e della commissione, che portano i nomi altisonanti di «Charlemagne» e «Berlaymont» presiedono inconsapevoli a una duplice decadenza: quella del quartiere massacrato e quella dei miti (funzionalità, modernità, efficienza) in nome dei quali la devastazione è avvenuta.

Dentro ai palazzi CEE, nei cubicoli in cui sono ibernati gli ottomila e passa funzionari della Comunità, scatta il ben noto «effetto-burocrazia». La realtà si scolora, i grandi problemi (i sei milioni di disoccupati, i quattordici di immigrati, le industrie che colano a picco, le città disumane) sono ridotti a dossier numerati, in bell’ordine sugli scaffali, Così è per la questione femminile: documenti, statistiche, direttive. Si fatica a ricordare la realtà che c’è dietro. Né, qui dentro, sembrano essere in molti a volersene ricordare. I problemi delle donne sono di serie B, anni luce dietro lo SME, (Sistema Monetario Europeo), la PAC (Politica Agricola Comune), il FED (Fondo Europeo di Sviluppo) e le diecimila altre sigle che compongono la costellazione di quest’Europa mercantile. Dopo il 1975, anno della donna — divenuto obbligatorio dare se non altro normale udienza alle rivendicazioni delle donne —- sono stati fondati due servizi ad hoc: per l’informazione della stampa e delle organizzazioni femminili, diretto dall’italiana Fausta Deshormes e per l’occupazione femminile, diretto dalla francese Jacqueline Nonon. Ambedue però hanno un organico del tutto insufficiente rispetto alle necessità (una collaboratrice la Deshormes, due la Nonon).

«Questi — dice Jacqueline Nonon, accennando col mento in direzione del Berlaymont (il suo ufficio è in un palazzotto più piccolo in una strada accanto) — non hanno ancora capito l’importanza della questione femminile. Pensano che sia una moda passeggera. A parole, accettano le rivendicazioni delle donne, perché temono di avere noie, nei fatti…».

Mi guardo intorno: la stanza è piccola, stipata dì carte, la scrivania trabocca di documenti. Oltre una porta c’è un minuscolo ufficio, dove lavorano le sue collaboratrici.

«In verità ho una collaboratrice e mezza, una segretaria e una ragazza che lavora a metà tempo. E con quest’esercito mi dovrei occupare di 38 milioni di lavoratrici europee…».

Lo dice senza astio, scrollando la testa con un sorriso, come si fa di fronte alle cose assurde ma scontate.

«Pensare, sospira, che con strumenti più adeguati si potrebbero fare tante cose! In queste condizioni siamo soffocate dalla mole di lavoro».

Mi spiega che l’ufficio, istituito nel 1977, si occupa del lavoro femminile in generale e in particolare della applicazione delle tre direttive CEE in materia (vedi riquadro).

«Uno dei problemi più grossi che incontriamo è la disinformazione delle donne. Poche sanno che in caso di discriminazione possono ricorrere, oltre che ai tribunali nazionali, alla corte di giustizia europea che ha sede a Lussemburgo. Finora soltanto la Gran Bretagna ha presentato denunce sistematiche (più di 2500); negli altri paesi il ricorso alla corte del Lussemburgo è sporadico. Inoltre le donne, che hanno più difficoltà degli uomini ad ottenere e mantenere un lavoro, non osano denunciare le discriminazioni per paura di perdere il posto, di farsi una “cattiva fama”».

E’ lo stesso meccanismo, osservo, che scatta nei casi di violenza carnale: le donne spesso preferiscono non ricorrere ai tribunali perché non si fidano della giustizia, perché sanno che le istituzioni sono sempre state contro di loro.

«Quindi occorre lavorare per rendere le istituzioni verametne rispondenti ai bisogni delle donne. E’ ovvio che non bastano le leggi, le direttive, per quanto importanti. Il male va preso alla radice. Per quel che riguarda il lavoro femminile, prendere il male alla radice significa fare i conti con la educazione, con gli schemi culturali oltre che con le strutture di mercato».

Allunga una mano verso una pila di documenti, sfoglia un dossier:

«Ecco qui, basta guardare i risultati di questa inchiesta condotta l’anno scorso in Francia. La maggioranza dei genitori continua a formare le figlie per il matrimonio. Finché questa mentalità non sarà cambiata, finché si continuerà a considerare il lavoro extra domestico come secondario rispetto alla vocazione di moglie e madre, le donne continueranno a costituire una forza lavoro di serie B. Fortunatamente, negli ultimi anni, la consapevolezza di questi problemi si è accresciuta, specie tra le giovani, e le cose stanno sia pur lentamente cambiando».

Il nostro dialogo è interrotto da continue telefonate.

«Telefonano e scrivono in continuazione da tutti i paesi CEE» dice, gli occhi castani sorridenti, «le richieste d’informazione ci piovono da tutte le parti. Lavoriamo dalle otto di mattina alle otto di sera e qualche volta anche oltre».

Però non mi sembra oppressa, le faccio notare, da quel mulinello d’impegni. Pare quasi che «lavori per allegria», vivace com’è, per nulla contaminata dal letargo burocratico che alligna in tanti uffici CEE.

Ride:

«In verità, confessa, io sono un’attivista. Lavorare mi piace, mi piace fare cose concrete, vedere i risultati, questo non vuol dire che non capisca i problemi del doppio lavoro, la fatica di dividersi tra casa e ufficio, tra casa e fabbrica, Per molte donne purtroppo il lavoro è solo un’ esperienza alienante, che svolgono per necessità economica. Anch’io, naturalmente, lavoro prima di tutto per mantenermi, ma ho la fortuna di fare un lavoro che ho scelto. Inoltre non ho responsabilità di figli e marito». «So bene, continua, che a questo punto chi mi ascolta è tentato di pensare che abbia sacrificato la famiglia al lavoro. Nient’affatto. In realtà io non ho mai avuto voglia di avere figli, di farmi una famiglia. A cinquant’anni, non ho rimpianti, rifarei senza esitazioni la medesima scelta».

Fortunata lei. Per la maggioranza delle donne, però, maternità e lavoro continuano a essere due scelte, se non opposte, difficili da conciliare. Il fatto che la società ci forzi a scegliere l’uno o l’altra, o comunque ci faccia pagare cara la sfrontatezza dì voler fare ambedue le cose, è una delle più grosse violenze che pesino sulle donne.

«Ne sono cosciente. Ripeto che io ho avuto una serie di fortune, però non mi considero il modello della donna emancipata, non mi sento diversa dalle altre donne. Per me è molto importante la solidarietà tra donne, il prendere coscienza insieme delle nostre potenzialità, della nostra forza».

In questa coscienza ha avuto un ruolo il movimento delle donne, il femminismo?

«Io mi considero femminista. Come si fa a non sentirsi femministe quando si vive nel mondo del lavoro, in cui bisogna difendersi ad ogni passo? Non ho molti contatti con i gruppi di Bruxelles, perché ho molti impegni, ma ho continui rapporti con le donne: con le sindacaliste, con le delegate di fabbrica, con le lavoratrici insomma. Anche qui, in questo ufficio, cerchiamo di lavorare in maniera non burocratica, non gerarchica. Ovviamente abbiamo i nostri problemi, perché nessun rapporto umano è idilliaco, ma certo io non ci tengo a “fare il boss”; non cerco il potere».

Prendo la palla al balzo: il potere, appunto. Come lo vive, lei che è una delle poche donne nella CEE ad avere un posto di grande responsabilità, il rapporto con il potere, V inserimento di una istituzione piramidale ai cui vertici, manco a dirlo, ci sono solo uomini?

«Prima di tutto, dice con un sorriso ironico, io qui dentro di potere ne ho assai poco. Più che altro il potere di prendere iniziative e di sobbarcarmi un sacco di lavoro. Comunque non ho mai avuto mire di potere, non mi interessa la scalata della piramide. Quel che mi ha spinto a lavorare è stata la curiosità di conoscere la realtà, la voglia di partecipare alle cose, e anche di far avanzare le questioni sociali. Non ho mai sentito la necessità di adeguarmi al modello maschile, quanto ai miei rapporti personali con i colleghi, sono buoni».

Ci pensa un attimo, poi aggiunge con disarmante onestà:

«Va anche detto che i rapporti sono buoni perché loro non si sentono minacciati. Se prendessi più spazio gli farei paura, così invece non si preoccupano, non sono obbligati a prendere sul serio il problema». «Anche quando lavoravo in azienda, ricorda, avevo ottimi rapporti con i colleghi: appunto — rispunta l’ironia — perché ero una mosca bianca, non rappresentavo una minaccia».

La menzione dell’azienda mi incuriosisce. Quale azienda, chiedo?

«Prima di entrare alla CEE, nel 1958 (tra parentesi, ci sono entrata come segretaria, il che era di rigore, a quell’epoca, poi sono passata alla formazione professionale e ho iniziato a occuparmi di donne nel 1950, con una ricerca sul lavoro femminile) ho avuto altri lavori».

Senza autocompiacimento, ma con evidente gioia di ricordare esperienze che le è piaciuto vivere, racconta la sua iniziazione al lavoro.

«Mio padre, che era ingegnere, voleva che facessi l’insegnante, unica carriera, a quei tempi, indicata per una ragazza di buona famiglia. Così, finito il liceo ad Antibes, ho fatto un anno di lettere alla Sorbona. Poi ho capito che l’insegnamento non mi interessava e mi sono iscritta ad un corso per la gestione delle aziende. Il mio primo lavoro è stato in una ditta di importazioni e gestioni marittime; ero assistente del direttore e mi occupavo dell’amministrazione. A 27 anni sono entrata in una grande azienda elettrotecnica con funzioni da executive. Lavoravo molto, anche perché a quei tempi l’etica del lavoro era diversa, c’era più emulazione, più dedizione. Comunque, anche allora, non lavoravo per far carriera, ma perché mi piaceva, perché avevo coscienza della importanza di essere una donna indipendente, non l’appendice di qualcuno».

A questa consapevolezza ha contribuito il fatto di avere in famiglia modelli femminili emancipati.

«Mia nonna aveva lavorato in un’azienda, mia madre diceva sempre, quando mio padre non c’era, che il periodo più bello della sua vita era stato quando lavorava».

D’accordo, ma non pensa di dare troppa importanza ai lavoro, di farne l’unico cardine a supporto della liberazione della donna, correndo così il rischio dì limitarsi all’emancipazione?

«Non credo, riflette, perché per me, come ho già detto, lavorare è un modo di partecipare, di essere presente nella realtà, nella vita appunto. Però non nascondo che a volte mi sento mancare il tempo per ‘vivere, per le cose che mi piacciono. In una giornata così, me ne andrei volentieri al parco a fare una camminata. Mi piace camminare, vedere gli amici, tranquillamente, senza sentirmi strangolata dal tempo».

E’ un problema, questo del tempo, che le donne sentono in modo particolare. Perché l’hanno sempre dedicato ad «altro da sé», {famiglia, lavoro, grandi cause) tenendo per sé solo le briciole, sempre con la sensazione di commettere un furto, sempre con sensi di colpa. Come se il tempo non ci appartenesse: perché in fondo è la nostra vita che non ci appartiene, almeno non ancora e non come vorremmo.

Mi sta a sentire, si passa le dita tra ì corti capelli castani. «In effetti, dice, il mio più gran rimpianto è di essere soffocata dalle carte, ma…» allarga le braccia, guarda l’orologio, si scusa: deve tornare a lavorare. Sono le sei, i funzionari sono quasi tutti. sfollati, il week-end (è venerdì) incalza. Ma lei rimane lì, nel palazzone svuotato, con le sue carte. Mi chiede se voglio «un bonbon», apre una scatola, mi dà un cioccolattino. Guardiamo fuori dalla finestra: è una delle rare belle giornate di Bruxelles, sugli alberi del “parco spunta un verde timido, lungo i viali corrono i ragazzini in bicicletta.

«Eh oui, quelle envie», dice lei, che voglia di una passeggiata».