una feluca sul Nilo

Parliamo con Lalla Abouf-Saif, intellettuale femminista e regista cinematografica egiziana della sua vita e di quella delle altre donne arabe.

aprile 1981

Laila Abou-Saif vive a II Cairo. E’ un’intellettuale femminista, regista di cinema e di teatro. Nel ’79 è stata invitata alla rassegna di cinema femminista organizzata a Sorrento dalle Nemesiache. Ha presentato il suo primo lungometraggio, ”Dov’è la mia libertà” (35mm, 85 minuti, colore), un viaggio di esplorazione visiva attraverso la condizione della donna egiziana, una dichiarazione di amore e di rispetto. E anche l’elaborazione del lutto per la morte della sorella, avvenuta nell’inverno del ’77. Laila è una donna dall’età indefinibile, ha la faccia bella e dura di chi è abituata ad affrontare situazioni faticose e di non potersi permettere debolezze. Si porta intorno un alone di tristezza e di forza, è estremamente lucida. Sa di essere sola e di aver scelto la strada più scomoda per vivere e lavorare nel suo paese. Non crede che le condizioni di esistenza delle donne egiziane possano migliorare in fretta. In Egitto non esiste un movimento delle donne. Le grandi lotte collettive che da noi hanno reso di attualità tutto quanto riguardasse il femminile e che sono già quasi un ricordo sfumato, non sono mai cominciate. Sporadicamente nel corso del ‘900, alcune donne coraggiose hanno strappato il velo, tentando una ribellione radicale contro una cultura che considera la donna poco più che un elettrodomestico in grado di fare figli. L’oppressione della donna è sancita dalla religione e da costumi quasi immutati da secoli. L’unica novità, negli ultimi decenni, è costituita dall’apertura di qualche spiraglio emancipatorio. Le donne possono studiare e fare lavori che in passato competevano solo agli uomini. Ma si tratta di scelte comunque eccentriche, perché la maternità e il matrimonio sono socialmente considerati gli sbocchi naturali per la donna. Poche hanno il coraggio e l’opportunità di rinunciare a queste garanzie per assumere la difficile parte della mosca bianca. E’ come se esistesse una seconda società, quella delle donne, con struttura autonoma, leggi, simboli e linguaggio propri, organizzata però sulla dipendenza dall’uomo e sul riconoscimento indiscusso del suo potere.
La complicità con l’oppressione ha radici salde e profonde nelle donne arabe. I prezzi della ribellione, ma anche solo della diversità, sono alti: emarginazione, isolamento, solitudine.
Le donne che Laila Abou-Saif mostra sono forti e appassionate, ingenue come bambine e sagge come vecchie. Sono donne rispettose delle tradizioni e dorme “nuove”. Non sono modelli, sono ritratti costruiti con grande amore e con molta disperazione. Il film di Laila avrebbe dovuto essere proiettato quest’anno alla recente rassegna .(15-22 marzo) di cinema delle donne organizzata dall’Associazione Sheherazade a Firenze Per lungaggini govemativo-burocratiche le pizze non sono arrivate in tempo. Peccato. Quella che segue è una conversazione con Laila, in un pomeriggio di ottobre, sedute a un bar di Sorrento.

Chi sono le donne che fanno cinema in Egitto?
Ce ne sono altre due. Una è più anziana di me e ha più esperienza. Viene dalla scuola di Cinema del Cairo. Ha girato tre documentari molto belli, ma fino ad oggi non ha potuto gkare nien-t’altro. Si cihama Atiat El Aboudi. Poi ce n’è un’altra più giovane di me, che ha girato un cortometraggio di venti minuti. Ce n’erano ancora due che dopo la scuola di cinema avevano cominciato a girare dei cortometraggi, ma li hanno interrotti perché si sono sposate, hanno fatto figli. Non è facile, da noi, arrivare ad avere la credibilità necessaria per farsi finanziare un lungometraggio. Il mio ho dovuto finanziarmelo da sola, puoi immaginare con quale fatica. E’ il primo, girato da una donna. So di essere in una posizione di grande isolamento, sono la sola femminista a fare questo lavoro, le altre hanno scelto di lavorare su temi che non hanno niente a che vedere con le donne. I problemi di una donna regista m Egitto sono enormi, soprattutto nel cinema. Per molti anni ho fatto regia teatrale, nel teatro si riesce ancora a lavorare. >La figura dell’attrice teatrale è tradizionalmente accettata, si tratta di donne famose e popolari, e anche una regista può muoversi senza fare chiasso, le cose si muovono un po’. Ma nel cinema è tutto chiuso, ci sono molti pregiudizi, molto disprezzo. Tutti pensano: «Ma cosa vuole questa qua, cosa crede di fare?». Per esempio nel laboratorio di sviluppo in cui ho portato il mio film erano molto scandalizzati che fosse mio. La pellicola adesso è piena di graffi fatti durante lo sviluppo. Quando ho protestato mi hanno detto che il negativo era già rovinato, che era colpa mia, ma sapevano benissimo di essere stati loro. Gli sembra sfacciato che una donna voglia far sviluppare un suo lavoro. E’ solo un piccolo problema, sono tutti piccoli problemi, ma si moltiplicano per cento, perché ci sono con l’operatore, il montatore, il fonico. Con tutti. Fare cinema è considerato un lavoro privilegiato e non tollerano che una donna lo faccia, quando la maggior parte degli uomini non ci riesce. Ci vuole una grande testardaggine e molta forza. Mi piacerebbe trovare delle donne che fanno montaggio, delle operatrici…

Ce ne sono in Egitto?
Sì, ma sono molto diffidenti nei miei confronti. Avevo trovato una montatrice, ma per lavorare voleva una cifra che io non potevo proprio pagare. Non aveva fiducia nel mio lavoro e non pensava che valesse la pena di fare uno sforzo per aiutarmi. Questo è il problema.

Fai regia teatrale ormai da molti anni. Che reazioni ci sono ai tuoi lavori?
Le tematiche femministe sono entrate nel mio lavoro nel ’75. ‘La reazione del pubblico e della critica maschile è stata bizzarra: mi consigliano di fare politica, dicono che sarei portata…

E le donne?
Le donne non hanno parola in Egitto. Non esistono donne critiche, non ci sono collettivi di donne che possano esprimere un punto di vista e difenderlo. Ho successo con qualche intellettuale e con quelli che vengono da fuori dell’Egitto, mi incoraggiano a continuare, sostengono la mia scommessa. Femminismo in Egitto è una parola disprezzata, meglio dire che non si è femministe se si vuole lavorare.

Dacci un esempio delle storie che rappresenti.
L’ultimo lavoro teatrale che ho fatto ha per soggetto un crimine d’onore. E’ una donna che diventa prostituta e viene sgozzata dal fratello che davanti alla società compie un atto di grande onore. Ho cercato di capovolgere il senso della storia. Mostro come il fratello sia del tutto isterico e come la ragazza non avesse altra possibilità se non quella di diventare prostituta. Mostro la sua trasformazione interiore e la sua grande forza. E’ consapevole della sua mala fortuna, del suo destino, ma non rinuncia a vivere integralmente.

Le donne egiziane, come sono?
Posso farti uno schema. E’ come se da noi esistesse una seconda società, quella delle donne. C’è una grande solidarietà tra le donne, sono complici, ma nell’accettazione della subordinazione. Come se dovessero difendere la situazione in cui vivono che per questo poi è così immovibile, così ferma. Sembrano serenamente rassegnate alla loro condizione. Per questo non è ancora comparso un movimento con la voglia di rivolta sufficiente per dire no. Non esiste ancora la coscienza che possono esistere altre strade per incontrare gli uomini ed essere madri. Le donne arabe hanno caratteri granitici, ma questa forza non si trasforma in ribellione, diventa rassegnazione. Nel mio film c’è una donna, commerciante di fiori. Il marito l’ha lasciata con cinque figli per andare con un’altra donna. Lei lo dice così, dice di essere miserabile perché il suo uomo l’ha lasciata per andare con un’altra. Ma non si pone domande, non ce ne sono. Anche se ha una forza impensabile, non sa ribellarsi. Questa impossibilità riguarda la maggior parte delle donne egiziane. C’è un piccolo numero di donne diverse, che in qualche modo si sono ribellate. Ci son quelle che hanno trasformato in marxismo la loro ribellione. Ci sono alcune femministe. Una delle prime femministe egiziane è morta poco tempo fa, aveva ottant’anni. Si era tolta il velo in pubblico nel 1923. Poi ci sono le professioniste, quelle che trasformano in lavoro molto duro la ribellione. Le bambine cominciano ad apprendere la sottomissione subito, le mamme e le-nonne gli insegnano come truccarsi, come piacere all’uomo. A cinque anni sanno già danzare perfettamente la danza del ventre.

Il film che hai fatto come pensi di farlo vedere?
Nel mio paese in questo momento è completamente ignorato. E’ stato visto nei cineclub, ed è piaciuto alle donne.
I buoni critici, che in Egitto sono di sinistra, hanno detto che il mio film non vale niente perché non esiste il problema della consapevolezza delle donne, perché quando la società sarà cambiata le donne non avranno più problemi. Sono considerate questioni esoteriche, è dadaista chi ne parla. La televisione voleva programmare il film se avessi accettato di tagliarne un lungo pezzo. Quello più inquietante: una donna sola e giovane.
Adesso è tutto fermo, magari tra un po’ lo manderanno in onda. Dipende dalla posizione politica dei funzionari che man mano arrivano.

Molte donne lavorano per la televisione?
La televisione in Egitto è recente, esiste dal 1960. Tutte quelle che prima lavoravano alla radio come annunciatrici sono state praticamente riciclate nella televisione. Lavorano da vent’anni ed hanno imparato direttamente ad usare il video, a manipolarlo. Hanno tutte tra i quaranta e i cinquant’anni e sono delle eccellenti professioniste. Sono anche molto popolari, perché è una vita che il pubblico le conosce. Ma è molto vago da parte loro il tentativo di introdurre uno sguardo nuovo o diverso sulle donne. Anche a me il governo dà lavoro, ma non per fare i film che voglio. Mi sembra di perdere tempo.

Esistono scuole di cinema?
C’è una scuola di cinema a II Cairo, a cui possono accedere tutti. E’ statale e gratuita. Ma il problema non è tanto dove andare ad apprendere la tecnica.
II fatto è che quando hai imparato come si fa non c’è nessuno che ti faccia lavorare, perché sei donna. Non c’è nessun regista che ti prenda, a meno che non si accetti di essere assistente operatore per sempre. Non hai neanche la possibilità di capire se sei brava o no.

Tu come bai imparato?
Sono stata fortunata. Ho lavorato per un po’ di tempo con un famoso regista egiziano, Yussef Shain. Ma non ho fatto montaggio e non ho usato la cinepresa. Mi interessava la regia e non è stato troppo difficile imparare perché avevo già la base della regia teatrale.

Perché hai fatto un film pessimista?
Perché quelle che mostro sono donne che hanno cercato in qualche modo di emanciparsi e che, a mio parere, hanno pagato un prezzo troppo caro. Nel film una delle donne dice che la vita è soltanto una lotta. Credo che questo sia un buon atteggiamento per le donne, in Egitto. E’ l’unica cosa che possiamo fare. Bisogna essere brave e severe con sé stesse.

Ma non hai speranze?
E’ difficile parlare di speranze. C’è stata all’inizio, con le donne iraniane. Ma le donne iraniane che dimostravano contro il chador, quelle con la coscienza di sé, le femministe, è molto probabile che siano state uccise. E’ facile in Iran ammazzare le donne, basta dire che sono adultere, che lavorano per lo spionaggio o che sono filo-imperialiste. Si possono sempre trovare delle ragioni per farle fuori. Adesso le donne iraniane hanno perso molto. Hanno perso il diritto al lavoro, alla parità formale, non possono più andare nelle università frequentate dagli uomini, non hanno più il diritto al divorzio. Non c’è niente nella nuova costituzione iraniana che parli della donna. Sono andata in Iran e di femministe ne ha viste molto poche. Si nascondevano, avevano paura di parlare e di farsi vedere. Ho visto però molte donne velate, forti e combattive. Credono di servire alla rivoluzione e a se stesse portando il velo.